gennaio 2004

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Ritorno al futuro


Ma sì, a cosa serve un post su Ritorno al Futuro? L’han visto tutti!


Vero. Solo a ribadire la grandezza di Robert Zemeckis. So che la mia cinefilia di stampo autoriale descresce la sua autorità affermando ciò, ma Zemeckis è uno dei più grandi registi americani viventi. Punto.

Accordi e disaccordi…

Accordi e disaccordi


Sono stufissimo di postare, per oggi, ma mi sono ripromesso di parlare anche di questo film del grande Woody. Ma sarò breve. Inanzitutto, per dimostrare che non ho preconcetti, aggiungo che “La maledizione dello scorpione di Giada” è una vera merda. Tanto per far capire che non tutto ciò che viene da Allen dev’essere per forza geniale.


Detto questo, accordi e disaccordi è carino, ben fatto, scritto da Dio (ma quella è una vera costante), e soprattutto dominato incessantemente da un Sean Penn davvero unico, immenso, perfettamente in ruolo come mai è stato e come mai sarà più (probabilmente).


Seconda e ultima nota: il cinema e la creazione del reale. “Zelig” e “Accordi e disaccordi”. Allen in questo è insuperabile. Per fare grandi film deve inventare, creare dal nulla personaggi che siano vere persone e metafore allo stesso tempo. Allora sì, che escono film così.

Le lacrime della tig…

Le lacrime della tigre nera


Ho ritrovato in questo film lo stesso processo compositivo dell’ultimo Tarantino (che, lo dico, è a mio avviso un capolavoro, discussioni a parte, se ne riparlerà). Molto altro non c’è da dire: è divertente (per una volta ha ragione il Mereghetti, è divertente a piccole dosi), ed è molto intellingente nel modo in cui mescola i generi (a in tempi postmoderni sono capaci un po’ tutti).


[So che questo film non è molto noto, vi basti sapere che è una specie di misto di western e melò, e che è thailandese].


Ma soprattutto è eccellente il modo in cui trasforma la materia astratta (gli sfondi bidimensionali, i costumi irreali, le situazioni grottesche) in materia emozionale. E’ una rarità trovare un film in cui l’emozione (non tantissima, a dir la verità) scaturisce come spontaneamente dalla materia colorata e inerme della scenografia/fotografia eccetera, un po’ come in uno studios-movie d’altri tempi.

Aprile


Poche parole per scarsezza di idee. Ha detto tutto lui.


Già l’ho scritto qualche giorno fa: io detesto i film politici. Ma c’è un modo per parlare di politica che è anche un modo di parlare di un paese, e quindi di una comunità, e ultimo ma non meno importante, per ricollegare lo spirito della comunità con il senso dell’individualità. Nanni Moretti possiede queste qualità, e le mette a frutto con pudore, con un feroce sorriso (a tratti malinconico) e con lo spirito di chi sa di essere al di sopra delle parti (in quanto artista) ma non si crogiola nel suo complesso di superiorità, nè rinuncia a combattere per ciò che crede. Nonostante il tempo che passa, nonostante un figlio che ti riempie la voglia di tornare bambino…


Ma la sua “regressione” in realtà non è tale, è solo (quasi) un’espediente narrativo: alla fine Nanni ci parla di tre anni d’Italia, senza farcene accorgere, con una splendida e sorniona scaltrezza.


L’unica nota veramente negativa è che la forza del messaggio (probabilmente sentito) si perde un po’ a favore di una poeticità diffusa e che pur facendo i conti con alcuni grandi temi dell’umanità – mantiene come sempre la prospettiva micro, il sè, lo studio autoreferenziale: Moretti su Moretti.


 

posto oggi tutto que…

posto oggi tutto quello che ho visto e rivisto nel weekend, per scarsa disponibilità informatica durante il suddetto… bene, cominciamo…


Velluto blu


“Let’s fuck! Let’s fuck everything that moves! Ahah!”
Dennis Hopper


La cosa stupefacente di David Lynch (che adoro) è che agisce con i canoni (spesso inconsci) a lui più congeniali, e per questo è riconoscibile (dal primo all’ultimo film) da un’unica immagine, da un suono, da un’atmosfera. Conoscerlo bene come lo conosco bene io (perché l’ho studiato, non mi attibuisco meriti non miei, è merito del prof. Menarini) ti rende quasi orgoglioso…


Blue velvet è il suo primo vero grande capolavoro, e non invecchia mai. Forse perché l’aria stessa in cui vive Lumberton non ha tempo, sospesa com’è in una sorta di trance perpetua tra gli anni ’50 e gli anni ’80). Ultima nota: vedendolo in lingua originale ho scoperto quanto è immensa Laura Dern nel ruolo “solare” (opposto alla Rossellini “dark”, in piena implosione noir), e quanto è scorrettamente “correttivo” il doppiaggio italiano di Hopper (tra parentesi, splendido).


Io sono di parte, perché sono un Lynchiano, ma Blue Velvet è (almeno esteticamente, poi eticamente si può discutere su molte cose) uno dei quadri più belli degli ultimi vent’anni (e non dico quadro a caso, tra l’altro astratto, nonostante la concretezza del contrasto luce/buio).


Double team


La cosa più triste non è il film in sè. Anzi, no, è triste anch’esso, ma è il meno. La cosa più triste è vedere Tsui Hark, anzi quel fottuto genio di Tsui Hark, buttarsi via così, con queste orrende schifezze rubacchiate qui e là da 20 anni di cinema honkkonghese e americano. In confronto a lui, John Woo ha fatto delle scelte intelligenti. Che tristezza. Che voglia di rivedere The Blade e A Better Tomorrow 3. Che voglia di farmi tre o quattro film VERI di Tsui Hark al Future Film Festival, settimana prossima.


[Uno si chiede: ma perché guardi dei film del genere? Io rispondo: io guardo tutto. Non si giudica a priori. Ma che merda...]

The Unsaid


Probabilmente è perché non ho mezze misure (ed è una cosa che mi viene criticata da tutti quelli che mi conoscono), ma Unsaid è una delle più inutili coglionate viste di recente.


Qui devo aprire una parentesi: una volta mi piaceva scrivere di cinema in modo professionale, scrivendo nello stile “recensionistico”, con risultati abbastanza notevoli (almeno per quanto riguarda la soddisfazione personale). E questo era The Rosebud Chronicles. Questo blog invece l’ho aperto per dare una rotta diversa, e farmi trascinare dalle emozioni. Quindi, via libera alle inutili coglionate. Chiusa parentesi.


Scritto malissimo, senza un briciolo di sensibilità o di suspance, furbo e scaltro ma senza nemmeno il risultato di essere commovente o trascinante, recitato malissimo, e dulcis in fundo con il personaggio meno credibile della storia del cinema, Teri Polo nel ruolo dell’analista che si vorrebbe inciuciare con Andy Garcia: non dice una battuta che non sia fuori luogo o imbarazzante, e per i personaggi, e per lo spettatore. Se davvero gli psicoanalisti americani sono così, allora capisco perché Allen se la prende tanto con loro. Credo che possa bastare, no?


Paura made in Japan….

Paura made in Japan…


The ring (Ringu)


Il remake americano l’avevo gà visto due volte, e devo dire che mi era piaciuto. Ora, ero convinto che, guardando l’originale di Nakata, il film di Verbinski, seppur niente male, mi sarebbe caduto. Non è così.


Ringu è decisamente un bel film, con una riuscitissima atmosfera inquietante, e temi di fondo che meritano più di una lettura. In più, guardarlo mi ha aiutato ad apprezzare di più alcune scelte (spesso aggiuntive) narrative e tematiche di Verbinski & Co. Nonostante infastidito da alcune zone-fotocopia, mi rendo conto che sono due film molto diversi, perché lo spirito che anima Ringu è totalmente giapponese: è una storia di spiriti immersa in un contesto paranormale, che forse i nipponici accettano con più facilità (il marito della protagonista è un veggente); mentre il remake apre più volentieri una riflessione sull’invasività dei media, innalzando la vhs mortale a metafora del global media system.


Però fa anche paura, non lo dimentico. In particolare, fa molta più paura semplicemente Sadako (nella sua semplicità, è una massa di capelli che cammina in pellicola riversata) di Samara (bambina digitale fin troppo carina e logorroica).


Ju-on – The grudge (Rancore)


Su questo magari spendo qualche parola di meno, perché non ne merita così tante… è un filmetto horror da niente, che sfrutta il momento, sulla falsariga di Ringu (anche se in effetti alcune idee alla base sono diverse, ma non per questo migliori). Le uniche cose veramente ben pensate sono la struttura narrativa, fatta di capitoli ad incastro (che compie fenomenali balzi avanti e indietro nel tempo) e l’idea delle mani davanti alla faccia nel finale (non dico altro), che però rende ben poco chiaro il finale stesso.


Tutto il resto è abbastanza ripetitivo. Niente di che. Però c’è da dire una cosa, e la lascio in fondo per dare un po’ onore a un filmaccio del genere: fa veramente e seriamente molta molta paura. Forse troppa per quel che è, tanto che dopo un po’ ti snerva a tal punto che ti abitui e non ti fa più nessun effetto.

Jeepers creepers


Prima di tutto, una critica costruttiva: è triste che un film sia in diminuendo (anche non apprezzo troppo nemmeno gli eccessivi crescendo). Questo film è in diminuendo. Almeno nella tensione e nel divertimento. Ma, grazie a dio, non finisce mai (è già tanto) nel baratro del ridicolo o del grottesco (incredibile, visto che si tratta di un mostro mangia-uomini).


Detto questo, devo dire che mi sono divertito molto, almeno nei primi tre quarti d’ora: sono davvero stupefacenti. La sensazione di Paura, devo dire, è assolutamente sopra la media. Citazionismo estremo: l’inizio (perfetto) è una vera e propria replica di Duel. Poi c’è tutta una seria di canoni horrorifici derivati da quel sano e buon vecchio B-cinema di anni e anni fa (qualcuno l’ha definito non a torto un horror teorico, devo andare a riscoprire chi…), e soprattutto dalla dimensione favolistica che è propria del cinema dell’orrore, fin da “La morte corre sul fiume”.


[Che, lo so, non è proprio un horror, ma qualcosa nel mostro di Jeepers mi ricorda il Mitchum del film di Laughton. Chiusa parentesi personale.]


Alcune immagini sono davvero notevoli: il “buco” che porta alla “versione infernale della cappella sistina”, o la scena in cui il “mostro” resta schiacciato in mezzo alla strada con un’ala spiegata. Non è tutt’oro quello che luccica, ma sicuramente distacca di stacco la maggior parte degli horror americani recenti.

Stand by me


Ieri notte mi sono visto (finalmente, visto il terribile doppiaggio italiano) Stand by me in lingua originale. Uno dei film più importanti della mia adolescenza (e anche preadolescenza). E’ davvero splendido. Sarà il mio legame sentimentale con il film (e con il bellissimo racconto del pessimo Stephen King), ma ogni volta che lo rivedo lo rileggo in un modo diverso, alla luce delle mie esperienze, della mia crescita, della mia agognata maturità. Insomma, ho 22 anni e Stand by me ha ancora qualcosa da dirmi. Qualcosa di incredibilmente intenso sull’amicizia. E’ un film che ti fa venir voglia di chiamare ogni tuoi amico (soprattutto i vecchi amici, che questo film mi riporta alla mente, perché alle medie era un vero cult per noi) per dirgli che gli vuoi bene. Tutto sentimentalismo, qui la cinefilia è mal accetta, ma in realtà fino a un certo punto: anche distaccando gli occhi lucidi dallo schermo, e guardandolo da adulto, mi rendo conto dell’eccellente sensibilità filmica che lo guida. Rob Reiner ha fatto almeno due capolavori: non è abbastanza? (A voi capire qual è l’altro capolavoro…)


Illuminante il making of. Rivedere Wil Wheaton e (soprattutto) Corey Feldman come sono oggi fa venire i brividi.


I cento passi


Stasera poi (e mi sa che non ero l’unico in italia…) ho visto I cento passi. Sono stato un appassionato e innamorato “lettore” (al cinema, in televisione e poi in dvd) de La meglio gioventù, e sapevo che Giordana non poteva tradire le mie aspettative. Certo è che non amo il cinema politico (forse per questo ritengo LMG un film estremamente superiore a ICP), e quindi certe sviolinate a pugno chiuso stridevano parecchio con il resto del film, assolutamente dignitoso. Perché la vera forza sta nel tratteggio quasi “astratto” di un personaggio affascinante, immaturo, complesso come Impastato, e soprattutto la riuscitissima descrizione del suo rapporto con il padre (il miglior personaggio, senza dubbio). Per il resto, un po’ di mediocrità, e alcune autentiche vette di poesia.

L’uomo che visse nel…

L’uomo che visse nel futuro (The time machine)


Ieri notte mi sono guardato questo dvd trafugato in biblioteca. Non l’avevo mai visto.


Grazie a dio ci sono i dvd. Perché vedere un film del 1960 con una qualità del genere ti fa davvero tornare la voglia di recuperare tutte quelle chicche che richiamano nausea al solo pensiero, visto il trattamento riservato da canali come rete4 o la7 (quantitativamente validi, ma qualitativamente indecorosi). Invece me lo sono proprio goduto, in inglese, con un audio da far venire i brividi.


Poi, non mi soffermo sull’opera, se non per dire che è un trattatello ingenuo e kitsch (entrambi i termini in accezione positiva, perché il film è del 1960, e ci sono decine di film che hanno dei debiti mostruosi con questo) sull’uomo del novecento. Forse ho forzato la mano, ma non troppo.


All’inizio non mi piaceva, perché la prima mezz’ora è insopportabilmente verbosa e divulgativa. Poi, invece, con lo sviluppo della storia, ci sono alcune cose straordinarie, e terribilmente intelligenti (geniale il manichino che cambia vestiti con il passare del tempo, o la sedia/macchina-del-tempo/residuatovittoriano, deliziosamente anacronistica).



Se fossi in te


E’ stato piacevole. Niente di che, ma è già abbastanza che un film italiano sia onesto, mai volgare, sincero, ben scritto. Insomma, non mi comprerei il dvd, ma per una sorridente serata televisiva è quanto di meglio ci si possa aspettare.


Il merito va soprattutto agli attori: prima di tutto a Fabio De Luigi, che ha delle immense potenzialità (per ora quasi inespresse, a causa della sua facciotta strafottente). Poi, menzione d’onore a Paola Cortellesi, una grandissima, una donna davvero da sposare, perfetta.


I 400 colpi


“Non ho più calzini intorno a questi buchi”
Albert Rémy


Ho appena finito di vederlo. Lo so, è scandaloso per uno che si definisce cinefilo non aver visto quasi niente di Truffaut (a parte Jules et Jim e Effetto notte, ma quelli li hanno visti tutti…) alla veneranda età di 22 anni (cioè la mia).


Che dire? Bellissimo, non c’è nemmeno bisogno di aggiungere altro. Truffaut non è Godard, per cui devi per forza giustificare il motivo per cui ti è piaciuto: è Cinema, ed è grande Cinema. Punto.


Mi è piaciuta la capacità di raccontare con semplicità una storia così emblematica (e non è da tutti). Poi io sono uno che guarda (fin troppo) allo stile, e negli anni ’50 e ’60 non c’è stato niente di simile da un punto di vista dell’estetica della regia (nonchè dell’ETICA della regia). Almeno finché gli americani non hanno cominciato a masticare Nouvelle Vague da colazione a cena, vedi Penn e Scorsese.


Comunque sia, è un film che sale, si innalza, ti cresce dentro.
E che splendido finale… avevo la pelle d’oca. Mia madre mi ha chiesto “e adesso?”.
Non ho risposto. Adesso ti giri e vivi la tua vita, Antoine.




Twin Peaks


“Smell those trees. Smell those Douglas firs”
Kyle McLachlan


Curioso, no? Inizi a parlare di cinema parlando di televisione. “Twin Peaks” è la cosa più bella mai prodotta per il piccolo schermo. Ma non perché è cinema, come La Meglio Gioventù (di sicuro nella mia tv-top five), ma proprio perché è la televisione stessa riletta, demolita, ricostuita, rimodellata. Qualcosa di nuovo e unico che nessuno è riuscito ancora ad imitare.
Mi sono trovato a passare quattro ore e mezza (sic!) davanti al dvd della prima stagione, senza riuscire a togliere gli occhi dallo schermo.


C’è qualcosa di incredibilmente intuitivo e straordinario, e allo stesso tempo di realmente metafisico, nel personaggio di Dale Cooper. Ricordo che libro di Menarini su Lynch parlava di Cooper come di una specie di rappresentante del bene, un difensore della perduta innocenza del mondo. Quello che trova a Twin Peaks, e che lo spinge a rimanere, è la sensazione di un mondo a parte, protetto, perfetto. Ma Twin Peaks non è il paradiso, a causa di presenze che sono sia l’irrazionale che il razionale, e che cercano di sovrastarne l’innocenza.


Ecco, credo che tutto sia sintetizzabile in una lotta tra il bene e il male, ma nel senso bluevelvetiano: bene e male giocano nello stesso campo da gioco; non si intercambiano, ma combattono, manicheisticamente; i confini sono ben segnati, luce e buio.


Lynch poi è un maestro, e fondamentalmente è l’ultimo dei surrealisti. Basta aver visto “Fuoco cammina con me”, che è uno straordinario e inutile (in senso buono) pezzo di cinema visionario, per capirlo.



Ancora qui, e ci pro…

Ancora qui, e ci provo ancora, un altro blog, un altro massacro.
Non voglio essere pedante, voglio piuttosto essere piuttosto utile.
(sì, mi piace giocare con la polisemia, ma è un gioco sterile e tautologico)


L’idea di un nuovo Blog mi è venuta dopo una giornata passata a masticare divorare cinema, senza un minimo riguardo qualitativo, ma per la noia che in quella giornata (esattamente il 30 dicembre 2003) mi attanagliava.
Nulla da fare? Beh, grazie signor e signor Lumiére.


Ma io sono davvero uno degli insaziabili… ah, a proposito, la citazione che apre il mio Blog è da “The Dreamers” del buon vecchio Bernardo. Un cinefilo come me NON PUO’ non amare un film così, foss’anche solo per lo spirito estetico che lo guida.