Vittorio
de Sica
n 7 Luglio 1902, Sora, Italia
m 13 Novembre 1974, Neuilly-sur-Seine, Hauts-de-Seine, Ile-de-France, Francia
(30 anni)
(scusa il ritardo, Vittorio)
Vittorio
de Sica
n 7 Luglio 1902, Sora, Italia
m 13 Novembre 1974, Neuilly-sur-Seine, Hauts-de-Seine, Ile-de-France, Francia
(30 anni)
(scusa il ritardo, Vittorio)
Ashes of time (Dung che sai duk)
di Wong Kar-wai, 1994
Ebbene, il Lumiere ieri sera ci ha dato la sua mezza fregatura. Ogni tanto succede, anche nelle migliori famiglie. Ve lo racconterà sicuramente anche il mio lato oscuro, che era accanto a me, e accanto a lui c’era il mandaglio non-più-immaginario, che ve l’ha già raccontato.
Altro che pellicola, crisco, hanno proiettato un dvd di pessima qualità, con un pezzo di mascherino coperto dai sottotitoli inglesi, e un addetto ai sottotitoli italiani probabilmente ubriaco. Da purista qual sono, non posso dire quindi di aver visto Ashes of time (vi assicuro che era dura stargli dietro e non impazzire: ho perso qualche diottria), ma piuttosto di aver intuito il suo valore al di sotto di una presentazione degna di una punizione corporale. Uffa. Ok, mi sono sfogato.
Wong filtra le sue ossessioni attraverso il genere e al di là del genere. E’ un wuxiapian, per la posa epica, l’ambientazione, la spada, le figure caratteristiche, il ritmo delle (poche) scene d’azione. Ma allo stesso tempo non lo è, perché non si combatte. O almeno, si combatte soprattutto contro la natura, e contro (e dentro) se stessi.
Al di là della bellissima fotografia di Doyle, e del magnetismo senza tempo degli attori (il cieco Leung, la piangente Cheung, la bellissimissima e "scissa" Lin), ciò di cui si parla veramente in Ashes of time è quello di cui si parla in ogni film di Wong Kar-wai: la perdita, il ricordo, il rimpianto. Tutti temi sviscerati in una galleria di personaggi (che girano intorno al compianto Leslie Cheung, prima passivo spettatore poi protagonista), in un film che è più dramma da camera, più malinconica ricerca intimista, che film di spada e d’azione.
Per una volta la struttura narrativa è composita e intrecciata, e rende difficile la comprensione in alcuni punti (almeno lo era ieri sera). Ma stimola l’intelletto ed emoziona. Non c’è comunque solo stile, ma una sensibilità dell’animo e una profondità dello sguardo che riconosciamo al primo colpo, al primo sguardo, alla prima inquadratura, e non possiamo che amare alla follia.
Bellissimo.
(pare)
Le vie della violenza (The way of the gun)
di Christopher McQuarrie, 2000
McQuarrie è lo sceneggiatore dei Soliti sospetti, e per questo tutti noi possiamo volergli bene. Ma non è detto che ciò lo debba giustificare.
The way of the gun è un film da primo della classe: citazionista, un tantino manierato e davvero spocchiosetto. Stilisticamente piatto ma scritto con una certa cura (nonostante i troppi turnover e la poca ironia), parte benino e poi tende ad annoiare, per poi concludersi con una sparatoria finale "alla Pekinpah", ben congegnata, violentissima e interminabile.
Quando di un film ci si chiede "ma quando finisce?", non è un buon segno. Comunque, il "postino" evanescente di James Caan, con la sua visione della vita malinconica e decadente, vale da solo la visione del film, e i dialoghi migliori sono tutti per lui. Anche se non basta a tenerlo del tutto in piedi.
The hours
di Stephen Daldry, 2002
Tre donne, in tre "tempi" diversi (a meno di incroci inaspettati), le cui vite girano intorno ad un libro aperto, Mrs Dalloway. Tre donne che imparano a "guardare la vita in faccia". Un film sulle rinunce necessarie, sulla responsabilità che ognuno ha verso la sua vita e verso quella degli altri, o più semplicemente sul valore della vita.
A partire da una delle sceneggiature più belle e complicate degli ultimi, in cui David Hare ha reso cinematografico il testo intimo e interno (pare) di Cunningham, Daldry è riuscito nell’arduo e quasi impossibile compito di rendere visivamente tutto ciò, e soprattutto dare al film un ritmo e una coesione: il rischio era di assistere a tre film differenti. I titoli di testa, "istruzioni per l’uso" dell’intero film, sono in questo senso impagabili. Purtroppo ne risente un po’ l’emozione: con questi materiali potevano fioccare fiumi di lacrime, e invece no, e per una volta spiace. Pazienza.
Film d’attori e di scrittura, dunque. E comprimari a parte (tra cui un Harris, al solito, inumano), le tre protagoniste sono davvero divine. Tutte e tre. Alle prese con una difficoltà interpretativa notevole, la superano con professionalità, coraggio e immensa bravura. Soggettiva (mia) è la predilezione per la Kidman, una perfetta Virgina Woolf, capace di fulminare e penetrare lo schermo con un solo sguardo di make-up, un caso raro (o unico) di giustificato imbruttimento. Un’aliena.
L’arpa birmana (Biruma no tategoto)
di Kon Ichikawa, 1956
Emozionante proprio perché costruito su opposizioni semplici, come guerra/pace, natura/cultura, e vita/morte. Lungi dall’essere una mera demonizzazione di questo o quel generale, quel che importa a Ichikawa è che questi sono uomini, che vanno a morire per qualcosa di sbagliato. Per questo motivo i rapporti interni (ma anche esterni) sono caratterizzati dall’importanza dell’amicia, della fiducia, della fedeltà, in una chiave umanista straordinaria: la scena iniziale, in cui i soldati inglesi rispondono al canto dei giapponesi per avvertire che la guerra è finita ne è un esempio.
Splendido il personaggio di Mizushima, che per rinascere a nuova vita dopo la "morte", deve passare dall’annullamento dell’identità; quindi dalla rinuncia all’abito, al nome e alla voce, sostituita dall’arpa. Che è il canto della natura contaminata e della terra sofferente per gli orrori della guerra.
Una scena "da conservare", per tutte, è la lettera finale, in cui Mizushima scrive ai suoi amici commilitoni le motivazioni per cui ha deciso di rimanere a fare il monaco in Birmania. Chiave di lettura esplicita dell’intera opera, e poetica (e "globale") dichiarazione di dolore e di speranza.
Trascinante, commovente, bellissimo.
Link: su Finalcut…
I magnifici sette (The magnificent seven)
di John Sturges, 1960
"Ah, that was the greatest shot I’ve ever seen."
"The worst! I was aiming at the horse."
Diciamolo, il remake dei Sette samurai di Kurosawa è tutto sommato un western ordinario. Niente per cui urlare al mito o chinarsi al culto, insomma. Ma è anche abbastanza divertente. La sua forza è nell’epica eroica del sacrificio, ma ancor di più lo è il sorriso ironico che alleggerisce il pacchetto. Ovviamente ottimi i disegni dei personaggi, dall’impassibile Chris di Yul Brynner al pistolero Britt di James Coburn. Indimenticabile il Calvera di Eli Wallach.
Forse non degno una tale notorietà, ma comunque molto piacevole.
Dvd strabiliante: ma c’è una ragione perché le dissolvenze incrociate (a centinaia, in questo film) non sono ripulite bene come il resto del film?
Il mistero del cadavere scomparso (Dead men don’t wear plaid)
di Carl Reiner, 1982
Tra i tanti, forse troppi cult-movie della mia adolescenza (un piacere riuscire a vederlo in lingua originale), il film è una "parodia affettuosa" del noir degli anni ’40, in cui gli attori del presente (Martin, Ward, Reiner e pochi altri) convivono, dialogano, e interagiscono con le pellicole che hanno fatto la storia del giallo e del poliziesco americano, dal Grande freddo al Sospetto, e con le loro star, da Alan Ladd a Bogey.
Operazione filologica e senza una sbavatura: tutto nel film, dalla trama ai nomi, è creato per incastrarsi alla perfezione nel puzzle enciclopedico del noir. Dal genere si mutua anche lo stile fotografico, le musiche (bellissime, di Rosza), la trama incasinatissima che affastella indizi che non portano a niente.
Tutto qui. Ma basta e avanza per stupirsi e divertirsi. Un’idea geniale e raffinata, gelida e fighetta (in contrasto con un’irresistibile comicità greve e volgarotta), ma il risultato è davvero unico nel suo genere.
Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent)
di François Truffaut, 1971
Prodotto ovviamente impeccabile, con una regia che abbonda di carrelli e iridi, è francamente un’opera su cui si può tranquillamente soprassedere, o almeno così l’ho trovato nella mia umile e limitata conoscenza del cinema di Truffaut. Forse perché la matrice letteraria, dichiarata fin dai titoli di testa, e che porta alla scelta della "voce narrante" (di Truffaut stesso), è interessante linguisticamente, ma appesantisce irrimediabilmente il film.
Alcune scene sono comunque bellissime: prima tra tutte la lettera con il racconto di Muriel sulla sua perdita dell’innocenza: straordinaria. E l’inizio, e il finale. Stranamente funziona meglio quando è volutamente disgustoso, quando lavora con il "corpo amoroso" non solo all’interno ma anche all’esterno, in modo insomma centripeto (i sentimenti) sia centrifugo (le secrezioni).
Superfly
di Gordon Parks Jr., 1972
"You’re gunna give all this up? Eight Track Stereo, color TV in every room, and can snort a half a piece of dope everyday? That’s the American Dream, nigger!"
Girato piuttosto male, interpretato peggio, montato in modo davvero indecente. Insomma, demoliamo un genere e un semi-mito popolare? Direi di no. Nonostante sia proprio grezzo e davvero amorale, è un notevole divertimento. E non perché sia scatenato, ma proprio per il fatto che, da buon prodotto blaxpoitation, si prende i suoi tempi, si rilassa in minuti e minuti in cui non succede praticamente nulla (se non una serie infinita di madonne), ed esplode di rado. E sempre con un certo stile: il bell’inseguimento all’inizio, la scazzottata finale al ralenti.
Comunque la si veda, Ron "The Priest" O’Neal nei suoi cappottoni, con i suoi baffotti, con la sua macchinazza, e soprattutto con la catenina a crocefisso con cui sniffa la coca (ah!), ha uno charme che vale da solo il film e lo tiene in piedi. E che colonna sonora, mister Curtis Mayfield!
I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari)
di Kenji Mizoguchi, 1953
Uno dei pilastri del cinema giapponese. Storicamente uno dei primi prodotti esportati in occidente, "apripista" per i cineasti e le opere di un’intera cinematografia. Potrebbe bastare. Quindi una pellicola di importanza storica essenziale, a prescindere dal suo valore? Macché!
Era molto tempo che cercavo di vedere questo film, di averne il tempo. E soprattutto di averne una copia. Conoscendo però, anche se solo "a parole", l’opera di Mizoguchi, sentivo prima di iniziarlo un certo peso, che è la paura di non poterlo apprezzare, di non poterlo comprendere. Molte cose sono infatti inconoscibili, si sa, a meno di non essere profondi conoscitori di quella cultura, o di esserne parte. Di non potere, insomma, per dichiarazione di ignoranza, giustificare la sua immensa fama.
Ma quando mai. Chi non l’ha visto non lo direbbe (così io, ieri, stupito), ma non c’è un momento di noia, e pochi momenti in cui scemi la tensione drammatica e la pulsione estetica. Inanzitutto, non un attimo di tregua visiva: movimenti di macchina perfetti e incessanti, tecnicamente perfetto (l’idea platonica di carrello laterale), con ardite soluzioni (il "fuoricampo erotico" del bagno, che si dissolve vorticosamente nella scena del picnic). Nei momenti di fissità, movimento continuo all’interno del quadro.
Tratteggio amaro e misantropo di un mondo in cui le donne sono destinate a subire l’innata immaturità degli uomini, riesce ad essere lucido come un trattato filosofico, ma anche inquietante e visionario come un horror. Come durante il viaggio "acheronteo" sul fiume e l’incontro la barca fantasma, o il ballo di Wakasa che risveglia lo spirito del padre. Tutta la scena della "rivelazione" di Wakasa, con la voce inquietante della badante che scandisce le sillabe, è da vedere e rivedere.
Un grande, grandissimo racconto allegorico sulla vanità che tutto mortifica. Vanità duplice, quella del mastro vasaio e del becero contadino, ma che comunque conduce sempre allo stesso punto: all’illusione del sè, e infine alla dolorosa dissoluzione dell’apparenza. In questo, per il contrasto tra essere e apparire, è un archetipo chiaro, moderno, un punto fermo.
Posso dirlo anch’io, finalmente che è un capolavoro? Tiro un sospiro di sollievo ricolmo di immensa soddisfazione estetica.
Bad guy (Nabbeun namja)
di Kim Ki-duk, 2001
Ci sono davvero pochi autori (forse nessuno, in tempi recenti) che riescano a scuotere le mie viscere fino nel profondo. Kim Ki-duk ci riesce, e se pensavo che quell’assoluto gioiello visto a Venezia fosse insuperabile, ieri sera, di fronte allo schermo del mio incredulo pc, ho dovuto ricredermi. Bad guy (tra quelli visti) è il miglior Kim Ki-duk. Ma sono uno meglio dell’altro, quindi questi discorsi lasciano il tempo che trovano.
Storia di un’ossessione amorosa, Nabbeun namja è un film bellissimo e straziante, violento e profondo, che mostra un percorso di colpa e redenzione (temi cari a Kim) con uno sguardo dolente sull’assurdità distruttiva del mondo, riesce infine a parlarci dell’amore e del destino, con il suo finale perfetto e paradossale. Un destino impresso in una foto strappata e in un vestito rosso che sparisce tra le onde.
Geniale nel ribaltare le regole del melodramma e della costruzione dei personaggi, Kim crea assiologie impensabili e costringe gli spettatori a guardare, ma ossessivamente e inevitabilmente innamorati, come per lo sguardo di Han-ki attraverso lo specchio. Richiede da noi una spettatoriale innocenza, la nostra "verginità scopica", anche a costo di sporcare il nostro sguardo e modificare i luoghi morali del nostro cuore.
Girato, fotografato (da tal Cheol-hyeon Hwang), diretto e interpretato, il tutto in modo ovviamente impeccabile. Ma, cosa ancora più importante, si toccano rare vette di emozione. Al di là dell’incipit, improvviso e insostenibile, ci sono le scene sulla spiaggia, quella in prigione (con quelle urla e quella sigaretta sospesa nel vetro) e tutte quelle in cui la voce (in italiano) di Etta Scollo sostituisce la voce negataci di Han-ki e ci riempie il corpo di brividi puri.
Ecco qui i tuoi fiori belli e misteriosi, con un non so che di strano, e per questo io li ho messi in un vaso a forma di corpo umano. Sono…. sono…. i tuoi fiori i tuoi fiori fiori per me. Quando li guardo, sai, mi sembra che parlino, ma so che è una follia o forse era un sogno in cui dicevano: "non andare / non andare / non andare via"
"Iberamericana ’04" – Volume 4
Suite Habana
di Fernando Perez, 2003
Un giorno nella vita dell’Avana, vista attraverso gli occhi di alcuni abitanti: un ragazzino, un ex professore, una venditrice di fagioli, e molti altri. Condivisione di una coralità silenziosa: non c’è (quasi) nessun dialogo. Alle voci si sostituisce invece il ritmo, montato ad arte (anche con ironia, e mai a caso), seguendo similarità sonore. Ipnotico e ammaliante, ma (dispiace dirlo, per un po’ di noia) un po’ al di sotto delle sue possibilità.
"Iberamericana ’04" – Volume 3
La canciòn del pulque
di Everardi Gonzalez, 2003
Documentario sul pulque, bevanda di origine vegetale, la cui pianta d’origine è in via di estinzione, con cui gli indios messicani su ubriacano da centinaia di anni. Vorrebbe essere un ritratto malinconico di una tradizione, quella della pulqueria, che se ne va a morire. Rischia di apparire come un gruppo di simpatici guappi sbronzi che cantano, urlano e declamano d’amore e morte. A momenti spassosetto e spesso semplicemente decadente. Tutto sommato interessante, ma trascurabile.
"Iberamericana ’04" – Volume 2
El tren blanco
di Nahuel Garcia, Sheila Perez Giménez e Ramiro Garcia, 2003
Documentario sui cartoneros argentini, uomini e donne che raccolgono carta dalla spazzatura per mantenersi. Il fulcro del film è chiaro, ed esplicitato spesso: qual è la possibilità per un uomo di non perdere la propria dignità in condizioni di povertà assoluta. E funziona alla perfezione anche come ritratto dell’Argentina dopo la crisi del 2001, con quei due inserti "storici" che agghiacciano: un assalto al supermercato e una celebre manifestazione di piazza, in cui ci scappa anche il morto. Intelligente, persino toccante.
"Iberamericana ’04" – Volume 1
Pyme (Sitiados)
di Alejandro Malowicki, 2003
Basato, si suppone, su una storia vera, il film argentino racconta di una fabbrica che va a chiudere (ma non racconta della sua chiusura), e della lotta da entrambe le parti per salvare il salvabile. Ammirevole il tentativo di umanizzare sia operai che padroni: il vero nemico sono le banche. Girato veramente da cani, ma scritto con una certa grazia.
Bowling a columbine
di Michael Moore, 2002
Il celeberrimo documentario di Michael Moore (finalmente anch’io l’ho visto) è il ritratto spietato ma doveroso di una nazione impazzita, morbosamente legata al suo secondo emendamento (e con una difficoltà nel distinguere tra diritto e dovere) che ha perso il controllo o non l’ha mai avuto, e le cui basi storiche e formative sono appunto le armi, l’omicidio, il razzismo.
Un film ironico e a volte persino divertente ma nella maggior parte dei momenti terribilmente doloroso, che a partire dalla cronaca più agghiacciante, riesce a mostrare come la paura e la xenofobia siano fondamenta ineliminabili della società statunitense.
Chiedersi sempre il perché delle cose, anche non ricevendo risposta, è il modo migliore per vincere i luoghi comuni e le convenzioni. Bowling for columbine ha un ritmo indiavolato, uno sguardo stupito sull’assurdità del suo paese, e una correttezza morale, seppur non perfetta e sempre un po’ leziosetta, che in Fahrenheit 9/11 si è completamente persa.
2046
di Wong Kar-wai, 2004
"Mi chiedono tutti come mai abbia scritto un libro di fantascienza. Per me, 2046 è solo il numero di una stanza d’albergo"
2046 è il numero di una stanza d’albergo, prigione per la mente del suo protagonista. 2046 è il titolo del suo decadente ed erotico romanzo di fantascienza. Ma 2046 è il posto dove va a finire la memoria, è anche in un certo senso quel buco in cui Chow sussurrava il suo segreto. E’ un luogo senza spazio fatti di volti e di ricordi. Sintetizzare la tematica di un’opera apparentemente così complessa è invece estremamente semplice: 2046 è un film sul ricordo, ed è soprattutto un film sul rimpianto.
Il rimpianto di un uomo che vede l’amore sfuggirgli di mano, in ogni sua forma. Un rimpianto che, come il ricordo della donna amata, non ha quasi forma. Il rimpianto è quella presenza che c’è-non-essendoci, che non riesci a dimenticare, quella Su Li-zhen che ha cambiato la tua vita. Quell’assenza che cerchi in tutte le donne della tua vita, in un nome, in un gesto, in un passo.
2046 non è un sequel, per fortuna. E’ però un’ipotesi che ha statuto di sequel: la presenza del precedente (e della sua meravigliosa protagonista Maggie Cheung) è aleggiante per tutta la durata del film, e non solo nel nome del protagonista o nella sua professione. Tale presenza è però anche ingombrante. Lo stesso rimpianto di Chow per Su Li-zhen è anche quello che provano i fans di Wong Kar-Wai. Insomma, mettiamoci il cuore in pace: 2046 non è In the mood for love. Non è un simile capolavoro, non ha la sua solenne perfezione, e soprattutto non possiede la sua inarrivabile magia.
Ma non è nemmeno il caso di mettersi le mani nei capelli: 2046 è un film prezioso e affascinante. Certo che è un film iconograficamente irrisolto (tra romanzo e vita), narrativamente sfilacciato (tra passato presente e futuro), e con una cura dell’intreccio fin eccessiva vista la linearità della vicenda: in In the mood for love per giocare con il tempo bastavano due vestiti e qualche ellissi. Ma soprattutto è troppo "riassuntivo" di una poetica per essere emozionante.
Ma è d’altro anche di una bellezza figurativa (s)folgorante (ancora Christopher Doyle) che non si può ignorare con accuse di formalismo. Così come è diretto innegabilmente con grande maestria e un labor limae immenso, con la solita ricerca sulle superfici riflettenti, sui dettagli umani, sui confini della pellicola. E infine, è interpretato con un fascino sognante e fuori dal tempo da tutti gli attori: non vi siete innamorati, stasera? Scegliete voi di chi innamorarvi. E non è un film vuoto come può sembrare e come molti hanno detto: ci parla dell’amore e dell’assenza in modo malinconico e amaro, ci parla di un uomo incapace di afferrare l’amore perché l’ha già trovato e perduto.
Non nascondo tuttavia anch’io una sorta di insoddisfazione. Come questo film è fatto di sensazioni più che di emozioni, così la mia insoddisfazione: lieve e epidermica. Ma solo relativa al capolavoro assoluto che sarebbe potuto essere, e alla sensazione (soprattutto dopo aver visto The hand, episodio di Eros) che da Wong ci si possa aspettare sempre di più. Invece è solo un bel film, anzi forse un gran bel film. Mi aggiungo al coro? Peccato.
[remainder]
Oggi esce nei cinema "Nemmeno il destino", il nuovo film di Daniele Gaglianone, con Mauro Cordella, Fabrizio Nicastro, e Stefano Cassetti.
Volevo solo ricordare che ne ho già parlato brevemente da Venezia, e consigliarvelo caldamente. E’ davvero un bellissimo film.
Napoli violenta
di Umberto Lenzi, 1976
Eccessivo, esasperato, tagliato con l’accetta. E a tratti davvero troppo grezzo (gran parte della prima metà). Però il poliziottesco di Lenzi affrontava il genere di petto e con schiettezza e onestà. In più, c’è un inseguimento "parallelo" che Luc Besson se lo sogna di notte (con finale sulla funicolare), il solito Tomassi che montava come dio comanda (ma solo le scene d’azione), e una colonna sonora (di Franco Micalizzi) veramente da urlo.
Certo, forse non si giustifica il tale enorme cul——-questo post si interrompe improvvisamente, proprio come il finale mutilato mandato in onda da Italia1 l’altra notte. Grazie, Italia1.
Cypher
di Vincenzo Natali, 2002
Il film di Natali, regista del bellissimo Cube, giunto in Italia dopo due anni di attesa in un cassetto (attendeva la bassa stagione) è una variazione su temi classici come l’identità e la memoria. Il film però è algido e glaciale, di un rigore fotografico persino fastidioso, ma senza lo stile di Niccol (per citarne uno).
La trama è terribilmente intricata, e la microfantascienza con echi dickiani viene mescolata con lo spionaggio hitchcockiano. Citazionista fuori misura (si va da Mission:Impossibile a Brazil a X-Files), esaurisce purtroppo la sua vena all’interno dei meccanismi dei generi e in quelli autoriflessivi e stenta ad appassionare veramente, al di là del riconoscimento di un talento che, sotto sotto, c’è. Northam comunque è imbarazzante, mentre Lucy Liu è splendida (ma sospetto che sia tutta prossemica).
Non che sia inguardabile, in alcuni momenti è anche piacevole. Come quando vuol essere molto raffinato (la scena dell’ipnosi), oppure molto grezzo (quasi tutto il finale), ma è uno di quei film che si fa dimenticare in fretta. Anzi, l’ho già dimenticato.