novembre 2004

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The call (One missed call) (Chakushin ari)

di Takashi Miike, 2003

One missed call è il primo film di Takashi Miike ad essere distribuito nel nostro paese. Ed è, strano a dirsi, un film che si inserisce con naturalezza e prepotenza nel panorama del new horror giapponese. Ma se il regista è Miike (di cui su questo blog si è parlato e straparlato), quale può essere il risultato? Cambia davvero qualcosa? Viste le polemiche che affliggono il regista dalla sua scoperta italiana, ci poniamo sempre la stessa domanda: Miike merita la sua fama?

Perché questo film ha deluso molti fan di Miike? Perché The call riprende pedissequamente, per non dire cita (per non dire plagia) tutti i "classici" (se così si possono chiamare) del genere. Da Ringu viene lo stile, fatto di fuoricampo e attese, tutta la struttura narrativa (tra cui il finto finale) e le idee di concetto (tecnologia e soprannaturale). Da Dark water invece l’idea tematica (il rapporto madre/figlia). Dal Ju-on di Shimizu viene l’iconografia e la costruzione della suspence. E chissà quant’altro.

Inoltre, come se non bastasse, nella prima parte del film, pur infilando qui e là segni marcati ed evidenti della sua presenza (flash improvvisi e brevissimi, la perversa scena del becchino), Miike rinuncia decisamente al suo stile furioso e anarchico, e livella i suoi soliti contrasti in una più tiepida professionalità. E la sceneggiatura sembra tirata a caso, sembra far acqua da tutte le parti, più una collezione di canoni che un vero script.

Miike quindi dice la sua sull’horror contemporaneo, e non sembra dire niente di più? Quando pensi che sia davvero così, e che sia davvero un peccato (ma meglio di niente), Yumi arriva al vecchio ospedale: seguono 20 minuti (tempo smisurato per una sequenza simile) tesissimi e senza un attimo di tregua, per quanto teletrasportati da Dark water, in cui la sceneggiatura recupera il danno grazie ad un azzeccato simbolismo e ad una specie di galleria degli spaventi quasi teorica, e in cui Miike dimostra di saper maneggiare con maestria anche un oggetto commerciale come questo.

Se poi lo sia davvero, oggetto commerciale, questo è un altro discorso. Perché a sentire il regista, le ambizioni sono decisamente più alte. Contro ciò si può obiettare che nelle interviste si cerca spesso di arrampicarsi sugli specchi. Ma a riprova di ciò, c’è tutto il finale: in contrasto, come al solito (si sa che con i finali Miike ci sa fare), visivamente lucidissimo e illuminato gioco di rimandi, complicato e quasi illeggibile. Davvero molto bello: basterebbero gli ultimi 10 minuti a valere il prezzo del biglietto o del noleggio.

Nel caso non vi interessino tutte queste menate sul rapporto tra Miike e Nakata-Shimizu-Kurosawa, basti sapere che, stringendo, non è per niente da buttar via. Ben fotografato e diretto davvero molto bene, con una cura dell’immagine sopra la media, con un gran bel finale, e decisamente paurosetto.

Dark water (Honogurai mizu no soko kara)

di Hideo Nakata, 2002

Nakata Hideo, partendo da alcune magiche ossessioni da cui erano stati partoriti i suoi due Ringu (i romanzi di Kôji Suzuki, il rapporto filiale, la normalità investita dal soprannaturale, ma soprattutto l’acqua e il cerchio) e costruisce un’opera superiore alle precedenti. Impresa non facile, visto la pressione portata dal mito creato in breve tempo dalla vhs maledetta e dalla terribile Sadako. E’ una cosa che leggerete (o avrete letto) da ogni parte, ma stavolta è proprio vero: Dark water è un gran film.

Variazione horror su tema melò: la perdita, l’abbandono, la solitudine, il rapporto tra madre e figlia. Un ghost-movie che non si risparmia preziosi moniti morali sulle relazioni filiali, ma che soprattutto sa spaventare in modo genuino e intelligente, non restando in superficie, ma saturando lo schermo di simboli. Tra cui spicca l’acqua, vera ossessione nakatiana, qui utilizzata nella sua massima espressività: rubinetti, cisterne, pozzanghere, e soprattutto tanta tanta pioggia. Acqua come materiale amniotico (il legame), ma sporca (il trauma).

Claustrofobico e girato da dio, con la stessa immaginativa di Ringu (l’ascensore che vomita l’acqua sporca) ma con più rigore e precisione: tutte le scene sul tetto sono dei saggi di regia, e il climax verso il finale provoca una tensione nervosa incredibilmente emozionante. Bellissimo il finale, dove la tensione accumulata si rifiuta di esplodere e rimane sospesa in un’assenza, con la dolcezza e la malinconia delle rinuncie e dei sacrifici.

Link: particolarmente piacevole il post di Checco su Cineblob.

News: il remake americano è stato completato, e lo vedremo nel 2005. Sarà diretto dal Walter Salles del quasi insopportabile Central do Brasil (sparatemi!), mentre come si evince qui a sinistra, non ho (ancora) visto i suoi Diari della motocicletta (mi verrà voglia un giorno?). Ma mi sembra comunque un cambiamento abbastanza drastico. No?

Invece, il sequel americano di The Ring è stato affidato proprio a Nakata: ed è in post-produzione.

In the mood for love (Fa yeung nin wa)

di Wong Kar-Wai, 2000

Deluderò forse chi si aspetta una recensione, ma non posso scrivere niente di simile su In the mood for love. Perché è semplicemente uno dei miei film preferiti. E, credo di non dire un’eresia, uno dei più bei film degli ultimi (5? 10?) anni. Solo alcune immagini, magari superficiali in un film così profondo, ma visive e vivide, ancora, alla terza visione, ed emozionanti, ancora, come fosse la prima volta.

I mille vestiti di Maggie Cheung e le mille sigarette di Tony Leung. I brividi di Nat King Cole e Umebayashi. Mamma Wong e il Mah-jong. I ralenti, che fanno parlare i corpi e urlare gli sguardi. Il thermos verde, le tende rosse, l’orologio bianco. Un buco in un albero: un segreto. E Ping.

Superlativo.

End of Evangelion (Shin seiki Evangelion Gekijô-ban)

di Hideaki Anno e Kazuya Tsurumaki, 1997

Dopo anni di attesa, dal giorno in cui Mtv trasmise l’ultima puntata della mia serie anime preferita, la strabiliante Neon Genesis Evangelion, sono finalmente riuscito a vedere il suo "finale cinematografico alternativo", presente in un dvd insieme a Evangelion:Death (che non è altro che un riassunto, ma con un frame geniale, quello del quartetto d’archi) e a Evangelion:Rebirth (che non è altro che un’evitabile preview di End).

Evangelion è l’anime filosofico e cabalistico che mi fece innamorare definitivamente dell’animazione seriale giapponese e mi fece diventare, per un certo periodo (non del tutto concluso), un topo da fumetteria. Lo adoro, nel mio cuore non ha rivali. E End of evangelion è, in certo senso, l’avverarsi di un sogno maniacale, dopo la frustrazione cocente del finale televisivo. Che era comunque astratto e bellissimo, ma deludeva ogni mia aspettativa di uno sviluppo narrativo.

La serie era filosoficamente complessa, e psicologicamente inarrivabile. Questo finale è visionario, apocalittico, estremo, illeggibile, affascinante. Da perderci la testa.

Mi si perdoni l’ignoranza del post: il mio approccio agli anime è più istintivo che esperto. Se volete, potete leggere qualcosa in più su Evangelion da un blogger che ne sa molto più di me.

Una news: pare che nel 2006 esca il tanto decantato e tanto rimandato film.