The call (One missed call) (Chakushin ari)
di Takashi Miike, 2003
One missed call è il primo film di Takashi Miike ad essere distribuito nel nostro paese. Ed è, strano a dirsi, un film che si inserisce con naturalezza e prepotenza nel panorama del new horror giapponese. Ma se il regista è Miike (di cui su questo blog si è parlato e straparlato), quale può essere il risultato? Cambia davvero qualcosa? Viste le polemiche che affliggono il regista dalla sua scoperta italiana, ci poniamo sempre la stessa domanda: Miike merita la sua fama?
Perché questo film ha deluso molti fan di Miike? Perché The call riprende pedissequamente, per non dire cita (per non dire plagia) tutti i "classici" (se così si possono chiamare) del genere. Da Ringu viene lo stile, fatto di fuoricampo e attese, tutta la struttura narrativa (tra cui il finto finale) e le idee di concetto (tecnologia e soprannaturale). Da Dark water invece l’idea tematica (il rapporto madre/figlia). Dal Ju-on di Shimizu viene l’iconografia e la costruzione della suspence. E chissà quant’altro.
Inoltre, come se non bastasse, nella prima parte del film, pur infilando qui e là segni marcati ed evidenti della sua presenza (flash improvvisi e brevissimi, la perversa scena del becchino), Miike rinuncia decisamente al suo stile furioso e anarchico, e livella i suoi soliti contrasti in una più tiepida professionalità. E la sceneggiatura sembra tirata a caso, sembra far acqua da tutte le parti, più una collezione di canoni che un vero script.
Miike quindi dice la sua sull’horror contemporaneo, e non sembra dire niente di più? Quando pensi che sia davvero così, e che sia davvero un peccato (ma meglio di niente), Yumi arriva al vecchio ospedale: seguono 20 minuti (tempo smisurato per una sequenza simile) tesissimi e senza un attimo di tregua, per quanto teletrasportati da Dark water, in cui la sceneggiatura recupera il danno grazie ad un azzeccato simbolismo e ad una specie di galleria degli spaventi quasi teorica, e in cui Miike dimostra di saper maneggiare con maestria anche un oggetto commerciale come questo.
Se poi lo sia davvero, oggetto commerciale, questo è un altro discorso. Perché a sentire il regista, le ambizioni sono decisamente più alte. Contro ciò si può obiettare che nelle interviste si cerca spesso di arrampicarsi sugli specchi. Ma a riprova di ciò, c’è tutto il finale: in contrasto, come al solito (si sa che con i finali Miike ci sa fare), visivamente lucidissimo e illuminato gioco di rimandi, complicato e quasi illeggibile. Davvero molto bello: basterebbero gli ultimi 10 minuti a valere il prezzo del biglietto o del noleggio.
Nel caso non vi interessino tutte queste menate sul rapporto tra Miike e Nakata-Shimizu-Kurosawa, basti sapere che, stringendo, non è per niente da buttar via. Ben fotografato e diretto davvero molto bene, con una cura dell’immagine sopra la media, con un gran bel finale, e decisamente paurosetto.