dicembre 2004

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Closer

di Mike Nichols, 2004

"Lying is the best thing a girl can do without taking her clothes off. But it’s more fun if you do."

L’ultimo film di Mike Nichols è la storia delle vicende, o meglio di alcuni momenti essenziali, separati da ampissime ellissi (settimane, mesi, anni), nelle vicende di quattro personaggi. Due uomini inglesi e due donne americane nella Londra odierna, travolti un po’ dal caso e un po’ dai loro stessi sentimenti.

Closer è un film sul rapporto che l’opposizione vero/falso intraprende con i sentimenti e con le relazioni amorose. E’ quindi un film sull’amore e sulla menzogna, sull’inizio e sulla fine dell’amore, quasi antropologico nell’affrontare i dettami dei violenti litigi, dei tradimenti e delle riappacificazioni. Con un finale curioso e a tono, che non fa che ristabilire, con un briciolo di cattiveria, la condizione iniziale di solitudine: la coppia non può che essere che apparenza se il tutto (il film, l’amore, il mondo) è generato dal falso.

Nonostante l’idea sia buona, o almeno interessante, il film non lo è più di tanto. Sconta infatti pesantemente la sua origine (un buon testo per il teatro di Patrick Marber), che rende inutilizzabile a scopo morale quanto è detto, in quanto la ricerca della perfezione teatrale mina seriamente la credibilità. Inoltre, i quattro personaggi, categorializzati rispetto alle loro vite professionali, sono insopportabili senza essere sgradevoli (che sarebbe stato meglio), incoerenti senza uno sguardo che vada oltre il particolare, cinici senza essere davvero credibili.

Il film è ovviamente girato in modo gradevole, soprattutto quando la linearità ellittica lascia strada all’incastro dei flashback, in cui non sappiamo il grado di verità – ancora lei – di ciò che stiamo guardando. E interpretato bene, ma non quanto si vorrebbe: lo stile si china con troppa umiltà (e poche trovate) alle esigenze attoriali, e in qualche momento persino gli attori deludono. Tranne forse Natalie Portman, la migliore dei quattro. Il doppiaggio, comunque, non aiuta (soprattutto perché qui ci sono in ballo due accenti che sono due culture).

Closer è un film da camera freddo e depressivamente misantropo, agghiacciante e a volte persino irritante, che spreca scene molto buone (come il primo incontro tra la Roberts e la Portman, con quella foto di lacrime) con un erotismo borghese che, dopo essere stato irriso (nella scena del cybersesso), torna subito a farsi strada: ma è il linguaggio, la parola, ad osare tutto, mentre il sesso vero, la carne e il fuoco della passione, è tenuto pruriginosamente fuoricampo.

Non c’è più insomma tempo per l’amore, e nemmeno per la passione: se siete d’accordo, accomodatevi.

Natale a casa deejay

di Lorenzo Bassano, 2004

La celebre milanese Radio Deejay, non nuova a simili iniziative editoriali (come non dimenticare il cd-rom Radionauta?), quest’anno se n’è venuta fuori con un dvd distribuito (massicciamente e con packaging elegante) nelle edicole di tutta Italia. Ma, al contrario di quanto si può pensare, non di video si tratta, ma proprio di film: è un vero e proprio lungometraggio, sia ovviamente per la durata (un’ora e venti circa), sia per le professionalità coinvolte (una vera regia, una vera colonna sonora, eccetera).

Il giovane regista, Lorenzo Bassano, viene dalla pubblicità e si vede tantissimo, diciamo anche troppo, come nei titoli di testa ipertrofici. Ma la goliardia del progetto sminuisce saggiamente la sua ambizione, come quando Linus, dopo un’epica prima apparizione al ralenti, dice: "basta ralenti!".

In alcuni momenti c’è meno ironia di quanto potrebbe esserci, e si ha l’impressione di uno scherzo preso un po’ troppo sul serio. Però è una sensazione di passaggio, visto il divertimento che tutti i personaggi hanno messo nel progetto (spesso apparizioni amichevoli: spassosa quella di Morandi), e alla fine è piacevole e ha persino una certa cura fotografica, nei costumi, nelle scenografie e nelle ambientazioni (è stato girato nei dintorni di Varese).

Inutile discutere di prove attoriali, perché i deejay non sono attori, e non gli si richiede nemmeno di esserlo: su alcuni stendiamo un sereno velo di affettuosa pietà. Altri invece ce la mettono davvero tutta, e a volte senza mostrare sforzi (come il Trio Medusa), mentre la svolazzante Platinette nel ruolo del fantasma-del-natale-presente è un’idea dicretamente visionaria. Dovrebbe trovare un suo John Waters, sarebbe una Divine divina.

Si intenda: non è mica vero cinema. E non c’è nemmeno niente di nuovo sotto il sole: la storia è quella dickensiana del "Canto di Natale", pari pari, anche se più vicina alla versione Disneyana che a quella letteraria. Ma, visto il progetto, mi aspettavo decisamente meno. Pensa te.

Certo, è un prodotto "dedicato" agli ascoltatori appassionati, e quindi è altamente autoreferenziale: è difficile divertirsi (credo) se non si è degli habitué della radio, mentre è facile farsi parecchie risate in caso contrario: le ragazzine che impazziscono per Fabio Volo (che non c’è), Giuseppe che sbraita in tedesco, Savino che fa Galeazzi, Bagatta che fa il padre di Linus. L’idea stessa del malefico direttore che costringe i suoi deejay a lavorare il giorno di natale è da anni un leit-motiv della radio, così come lo sfottò generalizzato della sua passione per la maratona.

Se conoscete questa gente (che nonostante la programmazione musicale fa ancora dell’ottima radio, a sprazzi), e se avete un po’ tempo libero per farvi quattro ghignate, vista anche la presenza sulfurea e irresistibile degli Elio e le Storie Tese, potrei persino consigliarvelo.

La frusta e il corpo

di Mario Bava, 1963

Dopo questo film, mi è venuta una voglia di recuperare l’opera di un autore che purtroppo, come ho già detto, non conosco quasi per nulla ma che desta come pochi il mio interesse. Non è così facile, ma (casualmente dopo un commento-consiglio qualche giorno fa), mi trovo in mano proprio The whip and the body, copia di importazione de La Frusta e il corpo.

Mentre Sei donne era un thriller pop e archetipico di un intero genere, La frusta e il corpo segue i percorsi inquietanti del gotico italiano. Il risultato, come al solito, è un film piccolo e "di serie B" (ha davvero senso come definizione?), ma girato con un’impressionante maestria. Forse per qualcuno eccessiva e troppo "protagonista": non per me, io adoro i movimenti di macchina, quando sono portatori di senso.

Sicuramente con qualche breve momento di stanca ritmica, ma con un numero inelencabile di pezzi di bravura (l’incontro a frustate sulla spiaggia, Nevenka che cammina per la casa, il bellissimo finale), ed estremamente moderno nel tracciare un percorso narrativo basato sul rapporto tra ossessione amorosa e concezione del dolore, con scene sadomasochistiche impensabili per l’epoca, come Nevenka che, frustata, gode rumorosamente.

E poi, se non vi basta, una fotografia stupenda tutta giocata su accesissime varianti cromatiche che illuminano i volti e i luoghi, con quel mare nero che accompagna il cavallo al castello e che sembra l’unica cosa vera, e maliconicamente l’unica cosa finta. E una bellissima colonna sonora.

L’ho già detto, nessuno fa più film così in Italia, e quasi (ci ha provato Amenabar, riuscendoci) nel mondo. Un peccato.

Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (Blood for Dracula – Andy Warhol’s Dracula)

di Paul Morrissey e Antonio Margheriti, 1974

Prodotto e girato in Italia dalla cricca warholiana con due lire e un cast davvero surreale, Blood for Dracula (titolo decisamente più sobrio di quello affibbiatogli in Italia) è un film che cerca di declinare il racconto stokeriano nell’ordine della riflessione storico-politica. Il film si svolge presumibilmente in un’italia prefascista, dove il puritanesimo cristiano nasconde altarini sessuali basati su consapevoli menzogne, e la cultura della verginità non è che una malata ipocrisia.

Ma la variante è soprattutto politica: infatti il vampiro viene scoperto (e annientato in un bel finale sanguinolento) da un bel contadino: colto, marxista, e gran scopatore. Che lo odia a morte non perché è un mostro succhiasangue, ma perché è un aristocratico rumeno. Al di là dell’ideologia, qui è davvero impossibile non fare il tifo per il vampiro, interpretato da un affascinante Udo Kier, piuttosto che per il solito Joe Dalessandro, aitante e antipatico.

Qualche bizzarria, come lo spassoso utilizzo di De Sica, qualche scena violenta ed eccessiva, come le due crisi di vomito, qualche guizzo visivo (il conte che si aggira in sedia a rotelle per la casa), e tutto sommato, girato benino.

Per il resto, tecnicamente è un semplice horror, perché purtroppo non esplode il livello parodico, e per essere solo un horror non fa paura e a tratti è persino un tantinello noiosetto. Però, se davvero si vuole, c’è da divertirsi.

Osmosis Jones

di Bobby e Peter Farrelly, 2001

Frank (Bill Murray, grandissimo) è un vedovo ridotto a uno straccio dalle sue abitudini alimentari. All’interno di Frank, il suo corpo cerca di sopravvivere, ma l’inetto sindaco non la pensa così, perché siamo in campagna elettorale. E in più ci si mette un cattivissimo virus venuto dall’esterno.

Probabilmente il film più invisibile e dimenticato dei fratelli Farrelly, che si distaccano da alcune delle loro tematiche preferite, o almeno dalle loro ambientazioni elegiaco-provinciali. E il cartone animato, che è il "vero" film, sembra la versione action-hollywoodiana di "Siamo fatti così". Ovviamente i generi sono filtrati attraverso l’occhio irriverente dei Farrelly, con uno spirito assai citazionista (come la parodia di Titanic) e un ritmo scatenato.

I Farrelly sono sempre divertitamente scorretti: brufoli , vomito, pance rigonfie e pelose, e soprattutto il ritratto impietoso degli ipocriti e quello affettuoso dei reietti. E anche dentro il cartone, una non così tiepida satira dell’ipocrisia dei politicanti, e una marea infinita di trovate esilaranti e scatologiche. Ma come sempre, sotto la scorrettezza c’è una morale deliziosamente edificante, e il messaggio acquista nuovo senso se si pensa alla cultura alimentare degli statunitensi.

Non si può dire insomma che l’esperimento non sia riuscito: nonostante qualche normale ingenuità, è uno dei loro film più divertenti, anche se senza le solite amatissime cadute di ritmo, per un’accordaggio più mainstream del solito. Ottimo anche il doppiaggio (quello originale, si intende), con Larry Fishbourne nel ruolo del cattivo (e per questo fa perdonare la "solita" parodia di Matrix) e bravo anche Chris Rock. Sempre se siete disposti a sopportarlo.

Buona come al solito la colonna sonora: per quanto io non possa sopportare la black music odierna, non potevo immaginare una scelta migliore.

Le Garçu

di Maurice Pialat, 1995

Un film che apre con le note di "You’ve been flirting again" e si chiude con "Human behaviour" (entrambe di Bjork) non può che destare dal principio la mia simpatia.

Al di là di ciò, Le garçu è un film che a partire dall’esperienza autobiografica, e attraverso una complessa identificazione attore/autore, costruisce un ritratto umano e intenso di un uomo, e riflette sull’essere padre e figlio (e su non esserlo più), arrivando a malinconiche e intense considerazioni sulla caducità dell’amore, e della vita.

Bravissimo Depardieu, strabordante e perfetto, ma non da meno la (davvero) splendida Géraldine Pailhas.

Lo sguardo di Pialat, per quanto tecnicamente puntualissimo, può non piacere. E può non convincere la sua estrema spontaneità, il suo stile ellittico e ridotto all’osso, il suo finale monco. Ma non gli si può negare una capacità incredibile di essere toccante senza dover spiegare il perché allo spettatore, e apprezzare il modo affettuoso e illuminante con cui utilizza nel film suo figlio Antoine.

Per quanto mi riguarda, inaspettatamente commovente.

My hustler

di Andy Warhol, 1965

Un due-rulli warholiano tra i più noti: in due lunghissimi piani, l’iniziazione professionale di una giovane "marchetta", e una scommessa a suo svantaggio. Impudico e acutissimo, e a tratti divertente. Ma meno di quanto si pensi: perché greve, inessenziale, gratuito. E senza un obiettivo che sia uno, anche fosse solo un finale.

A voi decidere se può bastare: personalmente penso che il cinema sia altrove.

Note di un inquilino galantuomo (Nagaya shinshiroku)

di Yasujiro Ozu, 1947

"Quel bambino, chi è?"

"E’ un problema!"

E’ finita la guerra, in Giappone si vive di stenti, il cibo è razionato. Al di là del proprio "cortile", dove si consuma l’ultima forma di confidenza, si è bruschi e scontrosi con il prossimo. Ma il rapporto con un bambino sperduto farà riscoprire alla vedova protagonista un istinto materno da tempo sopito, un istinto che è anche di conservazione, e che è anche l’amore verso il mondo che verrà, e una speranza che fuoriesce dagli occhi in forma di lacrime.

Un film di una semplicità al giorno d’oggi sconcertante, dove un semplice e breve incontro è la fonte di un messaggio universale sull’importanza della solidarietà sociale.

Negli interni, come sempre dal basso verso l’alto, Ozu si dimostra attento osservatore dell’interazione micro, con dialoghi piacevolissimi e persino spassosi momenti di commedia. Una per tutte, la scena delle pulci: degna di una comica beckettiana. Ma più che la fissità dell’ambiente interno, sono i drammatici esterni a far vibrare questo piccolissimo film, anche esteticamente, con l’astrattezza di quei due corpi che vagano sulla spiaggia, quella ricerca in un universo crudele e "vuoto", e quei volti di bambini abbandonati a se stessi, inconsci della responsabilità di ricostruire il loro paese.

Per stupidi pregiudizi che non vi sto a spiegare, (relativi nel dettaglio a quest’autore), shame on me, nonostante l’opera-quasi-omnia trasmessa da Ghezzi, questo è il mio primo Ozu. Almeno è il mio primo Ozu "intero". Ma, come già si evince dall’iconcina, non sarà l’ultimo: vi farò sapere.

I sette samurai (Shichinin no samurai)

di Akira Kurosawa, 1954

Versione integrale

Nella sua edizione integrale (restaurata dal British film institute), come tutti i film di una tale durata (200′), Shichinin no samurai potrebbe essere un’esperienza fisica dolorosa. E invece, nonostante la lunghezza, non si prova mai una senzazione di fatica (mio mal di stomaco permettendo), né tantomeno di noia: I sette samurai è un film incredibile, senza una vera falla né una vera imperfezione.

Una storia di sacrificio storico e umano, con la quale il remake (ne ho parlato pochi giorni fa, un western tutto sommato ordinario) non regge davvero il confronto. Grande merito, oltre alla perfezione di sceneggiatura, montaggio e dell’apparato tecnico, va agli attori, tra cui spiccano un Takashi Shimura poeticamente sottotono (il migliore) e soprattutto Toshiro Mifune, gigione e clownesco, in uno dei suoi ruoli più divertenti e allo stesso tempo più profondi, capace di contenere in sè una chiave storica di tutta la vicenda.

Immortale il messaggio di esplicito rifiuto dell’individualismo e di apologia del gruppo: molto attuale per i tempi in una società come quella giapponese, raggiunge un respiro universale e senza tempo grazie alla complessità psicologica con cui sono costruiti i tantissimi e splendidi personaggi.

Ma forse è soprattutto un film di avventura terribilmente appassionante, calibratissimo tra l’epica avventurosa, l’azione della battaglia, il dramma, e infine il respiro dato dai molti tratti comici (spesso affidati a Mifune). Forse preferisco la visionarietà delle sue tragedie shakespeariane o la complessità narrativa di Rashomon, ma sono differenze di caratura davvero minime: un capolavoro.

postilla: [visto che ora va di moda (vedasi Donnie Darko) citare la competenza dell’user rating di Imdb come metro di giudizio per i film] i sette samurai è tuttora al numero 5.

L’esperimento del dottor K (The fly)

di Kurt Neumann, 1958

Questo strafamoso film fantastico è terribilmente invecchiato. Colpa di un’eccessiva categorizzazione (cosa è giusto, cosa no) e di un’eccessiva verbosità che solo a sprazzi lascia il campo al puro terrore. Price è sempre fenomenale, ma ho visto cose migliori. Come avevo già detto per questo film, preferisco di gran lunga il geniale e malsano remake che ne fece Cronenberg nell’86. Tra l’altro, seguendo un discorso narrativo e tematico diverso, ma sempre a partire dal tema dell’ybris scientifica.

Ciò non toglie che molti momenti, tutti celeberrimi, siano ancora oggi spaventosi e terrificanti. Come la prima apparizione della testa-a-mosca (con la felice invenzione del volto della moglie moltiplicato sullo schermo), o quel rumore disgustoso che fa quando beve il latte. E l’inquietante presenza continua del ronzio della mosca nel film.

Beh, tutto sommato ha ancora il suo porco fascino.

La mosca con la testa di uomo nella tela del ragno (help me! help me!) nel finale fa davvero drizzare i peli. E non lo dico per luogo comune: sarà stata la sala cinematografica buia, l’enorme schermo cinemascope, il volume alto… brr…

nota: tra Epstein e il dottor K, ho visto anche questo cortometraggio. Molto, molto carino.

La Glace à trois faces (Lo specchio a tre facce)

di Jean Epstein, 1927

Non parlo tanto del muto (paradosso verbale). Un po’ perché non lo mastico. Un po’ perché, nonostante la notevole offerta bolognese, ne guardo poco. Dall’inizio dell’anno, e quindi del blog, ho visto solo quest’altro (tra l’altro, molto bello). L’occasione stavolta è stata il film che proiettavano successivamente: The fly.

Molto interessante. Dai, è il mio primo Epstein, mi sbilancio: molto bello. Anche grazie alla durata (45′), all’ottimo pianista presente in sala (Remo Anzovino) e all’eccellente restauro: come nuovo. Un uomo e le tre donne che gli girano intorno, una storia moderna di umiliazione femminile e di naturale contrappasso, vista la fine che fa il tizio in questione.

Stupefacente la modernità linguistica del montaggio, la struttura che unisce la paratassi dei "capitoli" ai continui flashback, e alcune trovate visive, soprattutto le soggettive dall’interno dell’automobile durante la "fuga" (in senso musicale) del finale.

[remainder(s)]

Come già ho fatto altre volte, segnalo un paio di uscite odierne (nelle sale italiane) di film da me già visti al Festival di Venezia. Stavolta sono due.

Il primo è Eros, il film a episodi diretto da Wong Kar-wai (sublime, ben oltre 2046), Soderberg (più che passabile) e Antonioni, quest’ultimo un vero e proprio disastro, il vero scult veneziano 2004.

A Bologna all’Odeon. Qui il mio breve commento

Come ho avuto più volte occasione di dire, Ferro 3 (Binjip) è tra i film migliori di uno dei miei più recenti registi-feticcio, Kim Ki-duk. Non fatevi intimorire dalla violenza di alcuni dei suoi bellissimi film precedenti e andatelo a vedere. Andate a vederlo prima possibile.

A Bologna al Rialto. Qui il mio breve commento

The happiness of the Katakuris (Katakuri-ke no kôfuku)

di Takashi Miike, 2001

Katakuri-ke è il rifacimento di The quiet family, film coreano del 1999, dello stesso regista di Two sisters. L’originale era una black comedy, comunque basata su un’idea geniale e spassosa: una "famiglia tranquilla" ma molto sfortunata, nel cui chalet i clienti muoiono come mosche, costretta quindi a seppellire i loro cadaveri pur di mantenere lo status quo e la tranquillità del loro alberghetto.

Ma l’idea di remake di Takashi Miike non è proprio delle più ordinarie: il regista giapponese mantiene infatti la black comedy come base, anche con le complicazioni horror e thrilling che ne conseguono classicamente. Ma ad essa mescola, o meglio abbina o affianca una specie di musical demenziale che strizza l’occhio ai musical occidentali, e che raggiunge vette di inesplicabile follia con un pezzo karaoke (!) e con un balletto in cui i morti si svegliano e ballano zombificati (!)insieme. Senza tenere conto dei tre inserti in cui i personaggi del film si trasformano in pupazzetti di pongo animati in stop-motion (!).

Detto così sembra semplicemente una stronzata, oppure una parodia. Non è nessuna delle due cose, perché i generi sono visti con l’occhio anarchico e divertito del cinefilo, e non con l’irriverenza destruens del critico. E perché come al solito Miike è un regista molto ambizioso, e al delirio visivo e narrativo si sottende sempre (anche se con un accenno, una frase), un’idea o una visione della vita molto (forse troppo?) universale: qui, tra le altre cose, si parla della capacità dell’umanità di sopravvivere alle avversità e soprattutto (vedasi l’ultima inquadratura, poetica e grottesca al tempo stesso) del ciclo della vita e della morte.

Comunque non è detto che vi debba interessare questo lato (o che dobbiate credere che esista davvero): di sicuro è la cosa più divertente che possiate vedere di Miike: tra le più grasse risate che mi sono fatto di recente, e una manciata di balletti kitsch e canzoni irrestistibili. E, a parte la tendenza a spezzare il film in pezzi isolati di bravura un po’ sfilacciati tra di loro, è uno dei suoi film in cui funzionano meglio l’incredibile talento registico di Miike e la sua innata vena anarcoide.

Comunque aveva già detto tutto lui.

Il vampiro (Vampyr – Der Traum des Allan Grey)

di Carl Theodor Dreyer, 1932

Un film fatto con la materia dell’inconscio, un film che è come un incubo. Un gran bell’incubo, comunque: ombre che vivono di vita propria, scene girate al contrario, apparizioni inquietanti (un viso distorto dalla vecchiaia, un uomo una falce e una campana). Un protagonista che ciondola e l’orrore che gli gira attorno, per separarsi poi dal proprio corpo e seguire le vie di Morfeo. Un vampiro chino su una donna stesa come fosse un dipinto di Fussli.

Mobilissimo e moderno (almeno rispetto all’opera riflessiva e religiosa di Dreyer), quasi muto ma espressivo come pochi. Incredibile l’interminabile soggettiva dall’interno di una bara. Vedere il mondo con gli occhi di un fantasma: inquietante e spiazzante, ancora oggi.

La San Paolo sta editando delle più che buone edizioni dvd dei film di Dreyer. Speriamo venga fuori anche questo.

Il disprezzo (Le mépris)

di Jean-Luc Godard, 1963

(edizione integrale francese)

Nella versione italiana rimaneggiata da Carlo Ponti, assassino travestito da mecenate, è uno dei più vergognosi massacri distributivi della storia del cinema italiano. Ne ho avuto coscienza vedendo tale versione a sprazzi dopo la visione di quella originale. Che è, invece, bellissima, e degna della sua fama.

Un film sul cinema e sull’arte, complesso e stratificato ma in fondo di una scioccante e diretta semplicità categoriale: il disprezzo è quello provocato dal contrasto tra la figura dell’arte pura, rappresentata dal geniale progetto omerico di Fritz Lang, conscio della sua natura di simbolo, e quella della sua commercializzazione, rappresentata dal disgustoso (e bravissimo) Jack Palance. Quasi un alter-ego di Ponti: un film che contiene già al suo interno la critica dell’operazione editoriale a cui è sottoposto.

Il diprezzo è quello che l’arte (la Bardot, la musa, la bellezza) prova nei confronti dell’artista (Michel Piccoli) nell’istante della sua corruzione, con l’Odissea che da metacinema si trasforma in chiave di lettura di un’angoscia artistica ma anche esistenziale: prima l’inquietante assenza negli studi di cinecittà (la morte del cinema: sequenza citata pari pari da Niccol in S1m0ne), dalla claustrofobia di un appartamento (scena infinita e catatonica, in cui succede tutto e niente, e gli attori danzano con perfezione intorno alla mdp), e infine l’ariosa e tuttavia ansiotica sequenza della villa malapartiana. E infine, la tragedia improvvisa e priva di catarsi.

Intellettuale e affascinante, girato divinamente e così pieno di spunti da essere quasi enciclopedico. Forse più interessante che bello, più glaciale che appassionante, ma di un’attualità sconcertante, e assolutamente essenziale.

Ho parlato (bene) anche di: Questa è la mia vita, Bande à part, Alphaville.

Scala al paradiso (A matter of life and death)

di Michael Powell & Emeric Pressburger, 1946

"Dovrebbero mettere il technicolor anche lassù… siamo così palliducci!"

Quand’ero piccolo, avevo una vera passione per tutti quei film in cui si rappresentano i caratteri dell’aldilà, paradiso o inferno che sia. Nonostante ciò, questo film, che è in realtà il caposaldo insossidabile di tali visioni, mi è sempre sfuggito, prima a causa dell’infantile riluttanza verso l’anno di produzione, e successivamente per la mia distrazione televisiva.

Non esagero: Stairway to heaven (il titolo americano, mister Plant), almeno per una metà abbondante, e a prescindere da una Vhs in pessimo stato e con una quantità di buchi da far venir le lacrime (come vorrei un buon dvd restaurato!) è una delle cose più belle che vi possa capitare di vedere. Viaggio grafico e allucinatorio: l’aldilà è un bianco/nero minimale ed espressionista, l’aldiqua un techicolor barocco e passionale. Geniale.

E spassosissimo, come tutti i dialoghi con l’angelo rivoluzionario francese, ma anche terribilmente e irresistibilmente romantico: non solo i due protagonisti si innamorano delle reciproche voci a un passo dalla morte, ma è poi l’amore a trionfare e ad abbattere le barriere politiche e internazionali che vengono fuori nella visionaria e lunghissima sequenza finale del processo. Dove esce anche la Commissione politica alla base dell’opera, che però non fa sentire più di tanto il suo peso.

Lo scalone mobile con le statue dei grandi, le magiche sovrapposizioni, David Niven in formato screwball, una partita di ping-pong interrotta dal fermarsi del tempo, un paradiso accogliente e terribilmente burocratico, un’aula di tribunale che è una galassia. E le labbra rosso fuoco della dolcissima Kim Hunter.

Ragazzi, che meraviglia.

Donnie Darko

di Richard Kelly, 2001

Finalmente anch’io ho visto Donnie Darko, film celebratissimo e ormai celeberrimo. L’ultimo cult possibile. Difficile parlarne senza rivelare nulla (di quel poco che si capisce, o intuisce, grazie a dio). Farò del mio meglio.

L’impressione finale è che il plauso generato dal culto generalizzato sia spiegabile: è il film giusto al momento giusto, si può dire. Paradossalmente, perché come è anticipatore di una moda (quella degli svavillanti eighties), allo stesso tempo è fuori tempo massimo: appunto per la malinconica ambientazione negli anni ’80. Che si fa però anche riflessione storico-culturale: l’apparenza e gli scheletri nascosti dallo yuppismo, la riduzione del mondo in categorie (paura/amore).

Un’altra cosa è giustificare tale culto: Donnie Darko è un bellissimo film, ma che sconta qualche ingenuità, e forse l’eccesso di sincero entusiasmo con cui è stato prodotto. Ciò non toglie che Kelly, ai tempi 26enne, sapesse con miracolosa precisione cosa voleva, unendo una filosofia spicciola ma estremamente intrigante (gli universi paralleli, il viaggio nel tempo) con una abilissima mescolanza di generi: la commedia americana anni ’80 è iconograficamente quasi replicata, ma c’è di mezzo anche l’universo kinghiano della periferia investita dal soprannaturale (non a caso mamma Darko legge IT), ovviamente l’horror e la fantascienza, più citazioni cinefile più o meno colte, da Harvey a Ritorno al futuro.

Nella storia dall’atmosfera inquietante e dal ritmo ipnotico, fuoriesce una sorta di battaglia tra la forza di volontà e l’inevitabilità del destino, cardine di tutto il film. In questo movimento di contrasto, spicca il fascino il protagonista Donnie, che possiede le doti di complessità, eroicità e sacrificio che vengono direttamente dal mondo dei fumetti ("Donnie Darko, che nome strano. Sembra il nome di un supereroe", eccetera). Sublimamente intepretato da Jake Gyllenhaal, sa trasmettere il peso e l’angoscia di una responsabilità che è tutta sulle sua spalle.

Molto curata ed eclettica la postproduzione: questo perché la struttura del film, concentrandosi sullo spazio-tempo (e della sua relatività), permette a Kelly di utilizzare le tecniche di ralenti ed accelerazioni non per un esercizio fine a se stesso, ma coerentemente con i fatti narrati. In più, Kelly è un ottimo regista ma senza spocchia: basta vedere le scene nei corridoi della scuola per capirlo. La colonna sonora non ha bisogno di commenti: semplicemente perfetta.

Bellissimo quindi, ma decisamente non un capolavoro. Però, per quanto mi riguarda, ed è un caso abbastanza raro, mi ha fatto venire voglia di rivederlo praticamente subito. Ed ha attivato una sorta di meccanismo paratestuale per cui è impossibile non passare ore a discuterne, a cercare spiegazioni (che ci sono eccome, pare più esplicite nel director’s cut), a scervellarsi per mettere insieme i pezzi del mosaico.

Donnie Darko è un bel film che migliora di ora in ora, e forse funziona di più fuori dal cinema che non nel buio della sala. Non è da tutti.