Divided we fall (Musíme si pomáhat)
di Jan Hrebejk, 2000
Nominato agli oscar nella sezione "film in lingua straniera" per la Repubblica Ceca nel 2001, l’anno in cui vinse La tigre e il dragone contro Amores Perros: chiaramente passò un po’ inosservato. Ed è un peccato, perché il film di Hrebejk è un film bello e intelligente.
La storia narrata si inserisce in un momento storico persino abusato: è il 1939 in Cecoslovacchia, piena occupazione nazista. Però il film si distacca dai soliti canoni: prima di tutto, perché il punto di vista è solo quello di un piccolo nucleo familiare (un uomo, la moglie, un ebreo nascosto nello sgabuzzino).
E soprattutto perché la storia, seppur in una dimensione tragica, anche se più indivuduale che collettiva, inserisce notazioni umoristiche e situazioni di equivoco. Capaci di non cadere nel grottesco, di ritirarsi quando è il caso, e di non essere una "reazione necessaria" (come in Benigni), ma una risposta a una visione della vita cinica e sorridente, che si permette però, nonostante l’egoismo e l’incomprensione che sembra dominare persino la vita di quartiere, di sperare ancora nella caparbietà di sopravvivenza degli uomini.
Il film, fotografato e girato in modo talentuoso (con un’artificio postoproduttivo, una specie di filtro step-frame, che distacca tutti i momenti di tensione o di dramma), è fin dal titolo un inno all’unione ("uniti resistiamo, divisi crolliamo") a prescindere dalle simpatie o antipatie personali, in nome degli intrinseci legami di una solidarietà universale. E i bravissimi protagonisti (soprattutto Bolek Polívka) tratteggiano personaggi ricolmi di dubbi e di contraddizioni, ma capaci di dimostrare nella difficoltà la loro fondamentale umanità.
Bello il finale, amaro e malinconico, con la carrozzina bianca spinta da Josef tra le rovine della città e tra i rumori degli uomini che la ricostruiranno.
Il film è inedito in italia: io l’ho visto in un dvd import, in ceco con sottotitoli in inglese. Esiste però un’edizione italiana in vhs (Emik), probabilmente doppiata. Possibile un’uscita nel corso del 2005, forse con il titolo "L’unione fa la forza". Ma non ci sono notizie certe.
Gigi
di Vincente Minnelli, 1958
Gigi è imperfetto e invecchiato, un po’ immobilizzato nella sua ambientazione d’interno parigino e dalle sue (bellissime) sgargianti scenografie. Insomma, nonostante gli americani e Parigi, non è Un americano a Parigi.
Però il cinema di Minnelli è comunque una piacevole boccata d’aria (soprattutto in giorni così stressanti), anche questa anacronistica storia d’amore e di convenzioni, malinconicamente rivolta a un sentimento schiacciato dall’ipocrisia sociale e infine, ovviamente, trionfante.
E poi, ci sono le musiche di Loewe & Lerner (soprattutto The night they invented champagne e I remember it well cantata da Chevalier e la Gingold sulla terrazza). E Leslie Caron è deliziosa, ancora: basterebbe lei.
Orizzonti di gloria (Paths of glory)
di Stanley Kubrick, 1957
Rivisto ieri sera perché il dvd giuntomi nelle mani a natale era ancora sigillato, e perché Orizzonti di gloria si rivede sempre volentieri. In più, l’altro giorno era la giornata della memoria, e forse ieri era il giorno giusto per vederlo. Questa è stata la mia visione personale, perché la memoria dev’essere memoria di ogni passato.
E ricordare quel terribile passato, sì. Ma è importante anche non dimenticare il presente.
"There are few things more fundamentally stimulating that watching another man die"
Una passeggiata tra le bombe, l’attesa della morte, un canto mormorato di sottile e tragica speranza. Difficile scriverne, impossibile dire altro. La perfetta sintesi tra forma e contenuto, film di guerra forse insuperato, capolavoro kubrickiano. E assoluto.
Alexander
di Oliver Stone, 2004
Dunque, continua la cannibalizzazione della storia antica da parte di Hollywood. Con dei distinguo, però: Alexander non è il disastro che fu Troy, e nemmeno la delusione che fu (a mio parere) Gladiator.
Prima di tutto, il film è sorretto da una sceneggiatura che, se non ottima, è almeno dignitosa, e dalla felice scelta narrativa di Stone di concentrarsi sul rapporto di Alessandro Magno con la madre, e di mostrare un Alessandro scisso dal conflitto edipico, decidendo con intelligenza di posticipare il perché di questo conflitto con un flashback posto nel punto giusto. Con un personaggio così, era difficile fare cilecca del tutto.
In più, non solo nella bisessualità di Alessandro, ma anche nella bella sequenza del banchetto nuziale di Filippo, il recupero della promiscuità dei rapporti sessuali permette a Stone di dare una dimensione nuova, o comunque meno reazionaria, alla sfera sessuale dell’eroismo, cosa di cui Troy aveva una paura fottuta mentre Stone ci sguazza come un’anatra.
E poi Stone ha ancora uno stile che, seppur appiattito e banalizzato rispetto a lavori del passato ben più validi, Scott aveva già perso da tempo, per tacere di Petersen che non l’ha mai avuto: lo dimostra la battaglia di Gaugamela, il colpaccio di genio del "volo d’aquila" sul campo di battaglia, un massacro a sassate che ha una carnalità difficile da trovare nell’epica softcore di Troy.
Ma Gaugamela non è l’unico bel momento del film: anche gli occhi furiosi di Alessandro che si scagliano contro l’elefante indiano, la scena intensissima dell’omicidio di Clito, e soprattutto la sequenza quasi visionaria della sua morte, in cui Stone coglie nel segno proprio nell’esagerazione simbolica e nell’accumulazione che lo identifica come autore.
Purtroppo, il film ha alcuni notevoli difetti. Cedere in più di un momento a perdonabili convenzioni da soap; presentarsi come bignamino della storia occidentale, quando non dovrebbe avere pretese di veridicità assoluta, bensì di rilettura epica; e soprattutto uno: è troppo lungo. E non solo nel totale dei suoi 175 minuti, ma anche nelle singole sequenze: Stone si perde via in un bicchier d’acqua, in dialoghi tirati a lungo, prolissi e inutili.
A dispetto delle aspettative (basse) e dei precedenti, ed elencati (ed altri) difetti a parte, Alexander non è affatto male, e dimostra che Troy non era un fallimento per un’idea nata sbagliata (la volgarizzazione nordamericana dell’epica ellenica), ma solo la pessima realizzazione di un’idea sostenibile (la rilettura popolare del mito precristiano).
[amore a seconda vista]
Il post, qui.
The chronicles of Riddick
di David Twohy, 2004
Riddick è la conclusione di una saga iniziata con Pitch Black, gioiellino della fantascienza di serie B, e inframmentata da un cartone, Dark fury, che non ho visto.
Rispetto al "capitolo uno", Twohy ha molti più soldi, forse per la guadagnata notorietà del protagonista, il ruvidissimo e appropriato Vin Diesel. E si sente come un bimbo con un buono per la fabbrica del cioccolato: gli effetti speciali, davvero straordinari anche se un po’ PS2, sono esibiti in ogni inquadratura con una veemenza che neanche Lucas, e che mette simpatia.
Peccato che Riddick non sia bastardo come in PB, che si scada a volte nella tamarrata, che manchi un po’ di ironia (carenza a cui sopperisce Diesel) e che i suddetti ottimi effetti speciali soffochino a volte l’interesse di un contesto narrativo, quello di una "nuova crociata" per il livellamento spirituale, tutto sommato molto interessante.
Senza dubbio però ci si diverte, forse più di quanto pensavo. La parte sul pianeta Crematoria, con la lunga fuga dalla luce solare, è una sequenza davvero spettacolare ed appassionante, e fa il paio con la "fuga dal buio" di PB. Insomma niente per cui morire ma nemmeno per cui uccidere.
LInk: i voti dei Cinebloggers
Oldboy
di Park Chan-wook, 2003
Arrivo tardi, lo so. Per pigrizia, probabilmente. La sensazione ci coglie spesso, ed è quella di aver visto tutto, di non aver bisogno d’altro. E invece Oldboy arriva come un tuffo al cuore, fa piazza pulita e riconcilia con il cinema: è incredibile che Park sia riuscito a superare un film bello come Sympathy for mr Vengeance, ma lo ha fatto. E non solo.
Oldboy è un film lancinante, appassionante, entusiasmante, caustico, doloroso. Conferma un talento incredibile, quello di Park, e una tematica favorita, quella della vendetta. Ma pur mantenendo il doppio filo vendicativo e il geniale ribaltamento di ruoli e di immedesimazione di Mr Vengeance, Park segue strade un po’ diverse e soffoca quei silenzi con un ritmo pulsante, sotterraneo, invisibile e continuo.
Riconferma anche la qualità di una cinematografia, quella coreana, ma allo stesso tempo la schiaccia: trapassando i generi come un trapano, e superando persino i capolavori kimkidukiani, Park mostra una strada nuova per la rappresentazione della morale, reinventa i tempi e i modi narrativi, stupisce ad ogni inquadratura e ad ogni frase, mescolando cinismo e poesia, con incredibile grazia e lucidissima furia.
E gira come un dio, rielaborando e rimasticando immaginari e spunti narrativi, lineari e non, con uno stile frastornante e violentissimo che riesce miracolosamente sia ad evadere dal pericolo dell’esibizione gratuita, sia a non essere mai fine a se stesso, a non cadere mai nel gioco retorico, spingendo invece la sua lama nel profondo, e raggiungendo impensabili livelli di tragedia, incredibili vette di dolente poesia.
Impossibile, quanto inutile, quanto stupido, citare in questo caso l’una o l’altra scena: non c’è una perdita, una pecca, una caduta che sia di ritmo o di stile o di profondità narrativa. Ma è inevitabile conservare nella memoria qualcosa, che sia quell’immersione in un ricordo a testa in giù, o quelle formiche sul volto (e altrove), o quelle foto appese. O quella foto scattata morendo, con il sorriso.
Oldboy è una delle esperienze cinematografiche più intense degli ultimi anni, o forse semplicemente uno dei bei film, in assoluto, degli ultimi anni. Non ci resta che sperare che questo capolavoro arrivi al più presto in Italia nelle sale, e in un’edizione almeno decorosa che restituisca al pubblico italiano la splendida, terribile, inarrivabile prestazione di Choi Min-sik.
Un ringraziamento a Infamous e Andrea (loro sanno perché). Ne parlò anche Gokachu, con cui però non condivido le (poche) riserve. E grazie ovviamente al blogger genialoide che ha scelto template e nick in onore di Oldboy, aumentando ogni giorno di più la mia voglia di vederlo.
Gojoe (Gojoe reisenki)
di Sogo Ishii, 2000
Finito chissà come sugli scaffali delle videoteche italiane, il terzultimo film di Sogo Ishii (autore che purtroppo conosco solo di fama) è un film di spada violento e concreto, sanguinolento e furioso.
Favolosa la messa in scena barocca e visionaria, tra (pochi) momenti di stasi e battaglie caratterizzate da un montaggio estremo e iperframmentato e da uno sguardo che spesso condivide la furia omicida degli assassini. E con una fotografia sempre all’altezza e a volte davvero superba (soprattutto all’inizio e alla fine).
Purtroppo, a quanto pare, l’edizione "estera" è stata tagliuzzata per un pubblico (così pare) poco attento alle sottigliezze e più interessato ai combattimenti e all’azione. Manca una mezz’ora o poco più, e si sente: il film è più interessante che davvero divertente, e soprattutto la storia sembra non raccontare niente e non andare da nessuna parte, nonostante la cura con cui sono ritratte le contraddizioni sacre ed etiche del bel personaggio di Masatoshi Nagase (bravissimo).
Comunque sia, lo scontro finale tra Nagase e il sempre bellissimo Tadanobu Asano, con la furia degli elementi, tra fulmini e fuoco e sangue, è davvero un pezzo da novanta. Vista anche la rarità della distribuzione di un titolo simile, vale assolutamente la pena di noleggiarlo al più presto. Peccato, però.
Storia di fantasmi cinesi 2 (Sinnui yauman II)
di Ching Siu-Tung, 1990
Il secondo (su tre) capitolo della fantasmatica saga di Ching Siu-Tung è propriamente un sequel, con tanto di "riassunto" all’inizio, e uno sviluppo coerente con il primo film. Ritroviamo personaggi, situazioni, Wu Ma. E ritroviamo anche la stessa qualità.
Il secondo Sinnui yauman è apparentemente molto simile al primo, in alcuni punti più controllato e preciso, in altri più esplosivo, perché vengono accentuati sia i caratteri horror che quelli melodrammatici: da una storia d’amore impossibile, si passa a una storia di malinconica ossessione amorosa, meno romantica ma anche più catartica e ottimista.
Anche se il capostipite è insostituibile nel mio cuore, il tono è qui decisamente più scanzonato e divertente (Leslie Cheung che nasconde le nudità di Joey Wong), con l’aggiunta comicissima di Jackie Cheung (da sganasciarsi la scena in cui viene immobilizzato), e regala ancora momenti di grande emozione (come la scena dell’ipnosi).
Non posso che essere soddisfatto come un bimbo, e aspettare con trepidazione di vedere il terzo.
[FFF2005: un riepilogo]
Il Future Film Festival è finito, almeno il mio. Nella scelta tra chiudermi in una sala per cinque giorni oppure vivere una vita normale e selezionare le mie visioni, ho optato per la seconda. Quindi non ho visto tantissime cose, o comunque molte meno di quanto mi sarebbe stato possibile: su tali basi, un breve riepilogo prima del ritorno di questo blog alla normalità.
Due capolavori, o quasi, o più o meno: Steamboy di Otomo è il film più bello del festival, mentre come ho già detto Il castello errante di Howl di Miyazaki è il mio preferito. Includerei nella categoria anche il danese Strings, che ho visto a Venezia e non qui, ma che si merita una doverosa citazione. Autentica sorpresa (in positivo) è stato anche Cutie Honey di Anno, il film più spassoso di quest’edizione.
Ancora al di sotto delle possibilità del suo autore ma tutto sommato un buon film è La foresta del pugnali volanti, mentre deludono in parte, viste le premesse, sia Shark Tale di casa Dreamworks sia il coreano Natural city: ad entrambi una sufficienza, molto meritata nel primo caso, un po’ succinta nel secondo. Nel ricco panorama offerto dal programma, ho purtroppo visto una sola serie anime, Paranoia agent. Fortunatamente, bellissima.
Bruttarello invece Thyko Moon, l’unico Bilal capitatomi sotto gli occhi, superato solo dal noiosissimo Wonderful days, e soprattutto da Returner, che vince l’ambito premio per il film più brutto del festival, tra quelli da me visti. E senza rivali.
FFF2005
Shark tale
di Bibo Bergeron, Vicky Jenson e Rob Letterman, 2004
Ammetto un briciolo di pregiudizio: l’ho detto decine di volte che sono un "pixiariano". Non quindi una delusione, bensì una conferma: Shark tale è anche carino, sicuramente divertente, decisamente ben fatto, ma siamo lontani anni luce dai capolavori della Pixar. Non è una questione grafica, che poi è quella su cui la Dreamworks si accanisce: è proprio una questione di scrittura.
La casa di Spielberg e-compagnia-bella, dopo il progetto Shrek che ormai vive di vita propria, ha affrontato lo scontro del 2004 con gli Incredibili con questa "storia di squali". Un po’ fuori tempo massimo: se gli squali mafiosi, con la catena alimentare metafora delle violente gerarchie sociali, è un’idea divertente, non sfiora quella dei "carnivori anonimi" di Nemo. E tutto si riduce, solito dramma della Dreamworks, a un semplice spoof cinefilo.
Colpo azzeccato è quello di ritornare su binari narrativi più rassicuranti, accantonando il cinismo (tra virgolette) di Shrek per una classica storia di ascesa e declino. Un po’ troppo classica, forse, e non c’è nulla di nuovo: ma se è ammirevole il tentativo di restituire un messaggio universale di onestà e collaborazione sociale invece di continuare a giocare solo con il pubblico "adulto". Per quanto il finale sia davvero troppo edificante, e dimentichi tutto d’un tratto di cosa sia fatta la vita vera.
Dopo un inizio davvero straordinario e pieno di gag, le trovate si fermano irrimediabilmente, e la cosa peggiore è che maggior parte di esse sono scritte apposta per far sganasciare un pubblico come quello americano, con molti riferimenti alla mtv culture, e mille giochi di parole per cui probabilmente gli adattatori italiani hanno passato notti insonni. Will Smith dal canto suo ce la mette tutta, ma era quasi meglio Chris Rock in Osmosis Jones.
Davvero brava invece la personalissima voce della Zellweger (perché mi piace tanto quella voce?) e uno spasso Martin Scorsese in guisa di pesce-palla. In fondo le mie risate me le sono fatte, ma non posso dire di essere uscito soddisfatto dalla sala. Non oso comunque immaginare il disastro della versione italiana: mi asterrò as long as possibile.
FFF2005
Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro)
di Hayao Miyakazi, 2004
Se in qualche modo Steamboy è il miglior lungometraggio del Future Film Festival 2005, ma questo è il mio preferito. E’ una bella gara, ma ho pochi dubbi.
Non è La città incantata, ma poco ci manca: Miyazaki trova pane per i suoi denti nella novella di una scrittrice inglese. In apparenza è un ritorno all’infanzia, con figure comiche di spalla (straordinario Calcifer, demone del fuoco) inedite per l’autore giapponese, meno sottilmente angosciante degli ultimi lavori, più divertente, fiabesco, romantico.
Ma in realtà continua a parlare di temi universali, dell’amore, del rispetto umano, della pace, della morte. Riprende le sue amate ossessioni, la natura, il volo: centinaia di macchine volanti, come sempre. Ma sa reinventarsi, ribaltando l’elogio dell’innocenza infantile facendo diventare la protagonista un’arzilla signora 80enne. Ed estende la sua micidiale ed immensa immaginazione alle categorie della realtà, stupendo e divertendo con geniali paradossi spazio-temporali.
Ma quello che conta è che Miyazaki sa parlare ancora direttamente al cuore dello spettatore, sa incantarci e illuminarci, sa farci ridere e piangere, senza i sensi di colpa di una regressione (Miyazaki ha parlato addirittura di un "cartoon per anziani") ma con la semplicità e la sponeaneità emozionale che è propria del genio.
Non me l’aspettavo, ma è un altro capolavoro, e speriamo non sia l’ultimo.
Nota: è un vero onore esser stato seduto alla proiezione tra due tali signori blogger.
FFF2005
Wonderful days
di Kim Moon-saeng, 2003
Non avevo mai visto un film d’animazione coreano, e ora l’ho visto. Wonderful days mescola tecnologie d’animazione in una storia sci-fi d’azione con sottotesti romantici e naturalistici. E purtroppo non mi ha convinto.
Probabilmente è anche una questione tecnica: se le parti in 3D sono davvero fenomenali, non si può dire altrettanto dell’animazione in due dimensioni, arretrata e legnosa. E non si può nemmeno parlare di integrazione, visto il divario: difficile accettarlo di buon grado, dopo una cosa come Steamboy, anche se di Corea e non di Giappone si tratta.
Ma oltre all’animazione, c’è anche una storia confusa e di scarso interesse, personaggi bidimensionali anche nel carattere, e una noia che pervade tutta la prima parte, piena di inutili sparatorie. Personalmente, ho "sonnecchiato" per qualche minuto. Si riprende un po’ nella parte conclusiva, bello il volo d’angelo e il finale tragico ed enfatico. Ma non basta: peccato.
Credo che Andrea sia d’accordo con me: ha dormicchiato anche lui.
FFF2005
Tykho moon
di Enki Bilal, 1996
Il secondo (dei tre) film del più influente fumettista francese è un’opera affascinante, ottimamente realizzata, diretta con onestà, e con una buona tonnellata di ottime idee: lo "zelatore del mese", la versione lunare e "ristretta" di Parigi, la "lucetta da lucciola", e via dicendo. E la cura scenografica permette una vera immersione nel mondo ironicamente noir di Bilal.
Però è anche un film presuntuoso e tronfio, con personaggi che si parlano addosso per minuti e minuti senza dire una benedetta fava e senza trasmettere nulla, troppo noioso e troppo al di sotto delle sue eccessive ambizioni. A volte vacuo in maniera irritante, ma in fondo tanto bizzarro e inusuale da meritare un indubbio interesse.
Julie Delpy, chissà perché ancora prostituta, è deliziosa. Michel Piccoli che ammattito sproloquia per tutto il film di immortalità e di patologie geopolitiche è un po’ patetico, ma è tra le cose più divertenti.
In questo momento dovrei essere in sala a vedere Wonderful days. Ma è evidente che non ci sono.
Forse lo recupero domani, forse no. Sono davvero assonnato. Domani mattina, Miyazaki.
FFF2005
Paranoia agent (Mousou dairinin)
serie diretta da Kon Satoshi, 2004
Episodi 1-4 di 13
Le vicende di una schiera di personaggi che ruotano attorno a un misterioso ragazzino dai rollerblade dorati dipingono un affresco di una società dominato dalla schizofrenia. Il farsi altro da sè, lo sdoppiamento, è infatti marca metaforica favorita all’interno di una riflessione matura e profonda sulla solitudine, l’isolamento, e l’individualismo del giappone contemporaneo.
Shounen Bat, il "ragazzo con la mazza", è un altro "visitor q" che con la sua forza irrazionale riporta in superficie queste contraddizioni, questa violenza sociale inesplosa, e a suo modo rimette a posto i frammenti delle vite dei personaggi.
Adulto, appassionante e sconvolgente (come nel bellissimo terzo episodio, il migliore, senza nulla togliere agli altri tre), quasi sperimentale nella struttura e caratterizzato da una grande ricerca formale e psicologica, è uno degli anime seriali più interessanti che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.
Speriamo di vederlo presto in Italia: chissà come va avanti…
MurdaMoviez, con cui l’ho visto (divisi però da una biondina) stavolta è d’accordo con me.
FFF2005
Natural city
di Min Byung-chun, 2003
Non ascoltate gli stupidi trailer, l’era di Blade runner non è finita, e se lo è non è per mano di Natural city. Però, da quel che leggevo sul web da mesi, mi aspettavo peggio. E comunque i trailer per una volta hanno azzeccato qualcosa: Natural city si rifa davvero a Blade runner. Sembra quasi un sequel, con rispetto parlando.
Niente di che, diciamolo subito. E’ noiosetto: dura almeno venti minuti di troppo. E’ derivativo: non c’è un’idea originale a tirarla via con le unghie, e ne fa le spese proprio il film di Scott, ma non solo. Modaiolo nelle parti più "sgame", cioè nei combattimenti: pochi ma inguardabili, fino all’ultimo, per altro interminabile.
I punti di forza, che ci sono e che lo sostengono in parte, il film li espone timidamente, quasi con senso di colpa. Ma il senso mortifero da "avvicinamento alla morte" che si respira in tutto il film mi ha in qualche modo affascinato, e la confezione tecnico-artistica è davvero un piacere per gli occhi. Probabilmente non basta a salvare il film, ma come dicevo all’insoddisfattissimo MurdaMoviez alla fine del film, è migliore di molti prodotti medi della sci-fi occidentale.
Salvato in corner, quindi. Ma potete tranquillamente evitarlo, quando uscirà. Magari aspettate il noleggio, che costa meno, e non vi tocca vederlo con questo disgustoso doppiaggio. Però di stroncarlo del tutto, no, non me la sento.
FFF2005
Steamboy
di Katsuhiro Ôtomo, 2004
Mi è difficile parlarvi dell’ultima fatica di Ôtomo, perché mi è piaciuto davvero tanto. Va bene, non è Akira, perché non è sperimentale, non è estremo, è più lineare e comprensibile. Ma importa davvero?
Quel che importa è la meraviglia, quella che si prova di fronte ad un immaginazione continua e fervida, la gestione incredibile dei tempi del racconto, l’emozione che si prova nel crescendo finale. Invece di trovare lo sfogo nell’impensabile futuro, Ôtomo affronta l’iconografia occidentale della fine del diciannovesimo secolo e la rilegge a suo modo, influenzato sicuramente dai lavori di Miyazaki (Steam Tower come Laputa?).
Quel che importa è che Steamboy riesce a essere, nonostante l’apparenza di racconto picaresco, un cartone animato decisamente adulto, che raccontando una storia fantastica ambientata nell’ottocento, ci parla in realtà del rapporto tra scienza, filosofia e guerra, le basi su cui è stato costruito il terribile secolo che è appena finito. Steamboy è un film sul novecento.
Questo lo si capisce durante tutto il film, ma appare chiaro durante gli splendidi titoli di coda. Cos’è allora quel ragazzo sorridente che attraversa con sguardo stupito le guerre mondiali e vola tra i dirigibili in fiamme, se non la speranza di un secolo migliore? Speranza ancora viva in quella silhouette eroica, nonostante lo sguardo sia nero e pessimista.
Quel che importa, infine, è che 2D e 3D vanno finalmente ad amalgamarsi, senza fare a spintoni, come a nessuno (o a pochi) era riuscito in passato: certo, la 2D è di una tale qualità, che va da sè.
Accetto le critiche che ho letto in giro, ma permettetemi di non condividerle: stupendo.
FFF2005
Returner (Ritaanaa)
di Takashi Yamazaki, 2002
Una cosa è la citazione, una cosa l’omaggio, una cosa il saccheggio: Returner saccheggia 25 anni di fantascienza statunitense come se fosse impossibile non farlo. Non sto nemmeno ad elencare i film saccheggiati, tanto sono i soliti.
Una sola buona idea grafica (il boeing che si trasforma in un trasformer a guisa di libellula), una sola idea narrativa decente (il finale, ma preparatissimo e forzato), una sola inquadratura originale (la morte del cattivo). Un po’ pochino, no?
Effetti speciali di controcampo (di rado gli "umani" condividono l’inquadratura con la CGI) e uno stile di un piattume davvero irritante. Il doppiaggio penoso non aiuta, ma i personaggi sono comunque di carta velina: Takeshi Kaneshiro senza un briciolo di fascino, e il cattivo-che-più-figlio-di-troia-non-si-può Goro Kishitani, nonostante ce la metti tutta, fa solo sorridere.
Duecento finali uno dietro l’altro, e uno più ridicolo del precedente. E lo volete capire che i cappotti lunghi di pelle nera sono scomodissimi per salire le scale?
Che Porcheria.
FFF2005
Cutie honey (Kyûtî Hanî)
di Hideaki Anno, 2004
Si vede la mano di Anno nel trattamento "live action" del celeberrimo manga del "leggendario" Go Nagai. La sua firma è una commistione avventura esplosiva, racconto intimista e comicità demenziale, con uno stile eclettico e spesso astratto. A pochi viene bene questo mix come a lui, ed infatti è tra i più apprezzati registi di anime.
In forma di film, Anno rispetta le attese, e costruisce un giocattolone colorato e fracassone, tirando dentro qualche tema a lui particolarmente caro (il ricordo dell’infanzia, il rapporto filiale), ma caratterizzandolo con un ritmo incessante (tranne qualche pausa intimista) e una comicità talmente assurda che sa conquistare. Così come il messaggio esplicito: talmente naif da essere irresistibile.
Date come accettate le regole del gioco, e senza prendersi troppo sul serio (come fa invece Anno nel finale, ma forse è un bene), ci si diverte come bambini. Davvero spassosissimo.
Eriko "Cutie Honey" Sato è perfetta nel ruolo dell’eroina allegra e svampita, e anche come impatto estetico è la fine del mondo, se vi piace il genere. Personalmente, i miei occhi erano tutti per Mikako Ichikawa.
FFF2005
Future Film Short – Programma 1
Avevo escluso i cortometraggi dalla mia whilist, ma per avvenuta disponibilità di tempo mi sono cuccato il primo dei "rulli" di corti in programma al FFF. Una valanga.
Ecco il programma:
A Brand New Psycho, di Davide Ragona, Davide Saraceno, Alien Factory, Italia, 2004; Tarzanse, di Torben Meier, Filmakademie Baden Wurttemberg, Germania, 2003; Vent, di Erik Van Schaaik, Il Luster Production, Olanda, 2004; Treibgut, di Rudiger Kaltenhauser, Filmakademie Baden Wurttemberg, Germania, 2004; Flatlife, di Jonas Geirnaert, La Big Family, Belgio, 2004; Raging Blues, di Vincent Paronnaud, Lyonnel Mathieu, Je suis bien content, Francia, 2004; The Mind’s I, di Federico Mattioli, Bonsaininja Studio, Italia, 2003; No Limits, di Heidi Wittlinger, Anja Perl, Max Stolzenberg, Filmakademie Baden Wurttemberg, Germania, 2003; Tricky’n’ Ducks, di Mauro Uzzeo, La Stanza, Italia, 2004; This is not an end, di Jesper Fleng, Ja Film, Danimarca, 2004; Neuron’s Project, di Nicolas Duval, Francia, 2003; Le Régulateur, di Philippe Grammaticopoulos, Haidouk!Films, Francia, 2004; Zanni Trust, di Osea Cipriani, Catemore, Italia, 2004; Hell Bent for Whiskey, di Benjamin & Matthias Claeys, Sint Lukas Hogeschool Bruxells, Belgio, 2004; The Freak, di Aristomenis Tsirbas, Menithings, Canada-USA, 2003; Son of Satan, di JJ Villard, USA, 2003; Sei Nicht Blok/ Don’t Be Woolish, di Max Julian Otto, Kordes Film Gmbh, Germania, 2004; Jan Hermann, di Atélier Collectif, Zorobabel, Belgio, 2003
Il migliore è senza dubbio il belga FlatLife: questo il sito ufficiale. Un corto animato di una semplicità grafica incredibile, eppure divertente fino alle lacrime. Geniale.
Niente male nemmeno il tedesco Treibgut, il più struggente, e Tarzanse, il più breve e il più assurdo.
Per la grafica, il mio inutile e non richiesto premio va al canadostatunitense The freak: ineccepibile. Son soldi.
Altre cose interessanti, alcune di nessun interesse, o addirittura irritanti.
Sugli italiani stendo un velo di pietà: si salva solo Tricky ‘n Ducks, da querela Pixar, ma divertente e ben fatto.