gennaio 2005

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FFF2005
La foresta dei pugnali volanti (Shi mian mai fu)
di Zhang Yimou, 2004

Zhang forse ha cercato di sistemare quello che in Hero non funzionava: guardando questo suo ultimo lavoro appaiono più evidenti le pecche del precedente.

House of the flying daggers è meno votato all’ambiguità storico-politica, più avventuroso e romantico. Il punto di partenza è sempre la menzogna; ma invece di costruirci sopra un apparato teorematico come in Hero, stavolta il falso viene usato come espediente narrativo. Magari forzando un po’ la mano con il ribaltamento di ruoli, ma in modo sicuramente più funzionale.

La fotografia di Zhao Xiaoding, a sorpresa, è migliore di quella di Doyle. Non per qualità illuminografica (lì Doyle è imbattibile, e il termine me lo sono inventato adesso), ma perché non schiaccia sotto il suo peso una regia che quindi ha l’occasione di prendersi una rivincita. E lo stile di Zhang risulta sanamente più grezzo, meno votato al lirismo e con più personalità tecnica. Il risultato è un film meno plastificato del predecessore.

Certo, molte cose non funzionano, sarebbe disonesto urlare al capolavoro. Prima di tutto, non c’è niente di nuovo sotto il cielo: non è detto che debba essere un difetto, ma una certa risaputezza è innegabile. E innamorato com’è del gesto plastico, dell’estetizzazione del combattimento (qui vera danza, molto più che altrove), e anche della protagonista, Zhang indugia un po’ troppo sui rallentamenti, e da un uso del digitale a volte un po’ eccessivo.

Nonostante ciò è un deciso passo avanti, senza arrivare ai risultati di Ang Lee, ma guardando al wuxia con più onestà e meno ambizione che in Hero. Forse provandoci ancora, Zhang potrebbe partorire fuori un ottimo film. Ma da quanto so, ha già rinunciato.

Se fossi una donna, Takeshi Kaneshiro me lo farei di brutto. E invece sono uomo: Zhang Ziyi non è mai stata così bella.

Di diverso parere l’amico FedeMc di SecondaVisione, che era dietro di me.

Spartypost

Domani inizia il Future Film Festival, da me perso per molti anni per un motivo o per l’altro. Quest’anno, grazie al cielo (e grazie agli amici di Seconda Visione), ho ottenuto un accredito culturale, che mi godrò anche per festeggiare l’esame dato oggi, con esiti disastrosi.

Domani mattina alle 9 comincerò a imbottirmi di film e di cartoni. O almeno, spero. Non si sa mai: magari domani vado là e il mio accredito non esiste. Ma ho deciso di fottermene della scaramanzia, e di creare il titoletto alternativo, che è un’idiozia ma sono sicuro che voialtri lo apprezzate.

Cercherò di scrivere qualche stringatissima riga su tutto ciò che vedo, dando ovviamente precedenza ai lungometraggi. E tranquilli, il 24 gennaio torna tutto normale (e intanto avete un Polanski e un Ching da commentare…).

Se volete raggiungermi, fatelo in fretta.
Per info: il sito ufficiale del Festival.

Il coltello nell’acqua (Nóz w wodzie)
di Roman Polanski, 1962

Il primo film di Polanski è la storia di uno scontro virile, l’intelletto suberbo contro l’avvenenza e il fascino della fanciullesca irrazionalità. Implosivo fino alla saturazione nervosa (la tensione accumulata trova pochissimo sfogo), un film di impressionante circolarità, che termina come inizia (ma con un evidente ribaltamento di ruoli), lucido e gelido come un teorema, preciso come un saggio antropologico.

Da un punto di vista visivo, è incredibile l’uso che il giovane Polanski fa della macchina da presa, prima di tutto nella composizione dell’immagine: la magnifica fotografia secca di Jerzy Lipman è piegata a costruire quadri astratti basati sulla compresenza e sul contrasto, variando quindi i punti di vista e sovrapponendoli ai piani dello schermo (così c’è spesso una figura primissimo piano e un’altra sullo sfondo).

E geniale lo sfruttamento di tutti gli spazi possibili in un contesto simile, per come gioca con le linee orizzontali della barca, quelle verticali dell’albero maestro, il contrasto tra la stiva ristretta e claustrofobica e lo spazio aperto che sta intorno alla barca.

Basato su elementi di una semplicità grazo-zero: due uomini, una donna, due mezzi – la macchina e la barca – e due ambientazioni, la strada e la natura, entrambe spoglie e funzionali, ma vere protagoniste del (non)dramma. Eppure un film di grande complessità, che non scade nella psicologia, e parla con intelligenza degli uomini e del rapporto tra gli uomini, e (perché no) di un periodo storico e di un sentire politico.

Splendido, no?

Imprescindibili i link di Nicola "FinalCut" Moroni

Storia di fantasmi cinesi (Sinnui yauman)
di Ching Siu-Tung, 1987

A chinese ghost story è uno dei tre o quattro film che qualche anno fa mi fecero scoprire e allo stesso tempo innamorare del cinema di Hong Kong. Quindi gli voglio molto bene. Pensavo di comprarmi il bellissimo cofanetto dell’intera trilogia, pubblicato dalla Eagle nei mesi scorsi. Ma dal momento che La7 ce li regala tutti e tre, rimanderò alla mia prossima sicura ricchezza.

Per alcune cose mi tocca ripetere quanto detto su The bride with white hair: anche qui un fantasy segnato dalla tradizione popolare e influenzato lievemente da alcuni oggetti occidentali, anche qui "cinema di pura meraviglia, di uomini (e donne) volanti e di amori impossibili". Ma il cinema di Ching, grande maestro di arti marziali e pregevolissimo regista, è diverso (e forse migliore) da quello di Yu.

Prima di tutto perché l’approccio al fantasy è più diretto, più irrazionale e sincero, più immerso in uno spirito senza tempo, interessato più alla (re)invenzione di un immaginario fantasmatico che alla trama vera e propria. In secondo luogo, per la riuscitissima combinazione di un ritmo forsennato fatto di voli e acrobazie e di una comicità stralunata (perfetto Leslie Cheung).

Infine, c’è tutta la seconda parte, in cui esplode un’impensabile immaginazione, che mescola l’horror e il fantasy inserendo elementi onirici e surreali, in un crescendo che non lascia un attimo di respiro, che sciocca per quanto eccede (una lingua lunga chilometri che si trasforma in una specie di enorme coccodrillo…) e che conduce a un finale malinconico: perché anche se il tono è scanzonato, c’è sempre il tempo di spendere qualche lacrima per un’amore irrimediabilmente perduto nelle polveri del sacrificio.

Chinatown
di Roman Polanski, 1974

"I goddamn near lost my nose. And I like it. I like breathing through it."

Nel costruire il suo appassionato omaggio al genere noir, nonostante molti degli elementi introdotti dalla sceneggiatura di Robert Towne siano piuttosto dei ribaltamenti di canone o comunque spostamenti di prospettiva, Polanski costruisce un ottimo noir che si sostiene da sè senza nessuna pecca e che regge il confronto con il passato del genere.

Merito della suddetta splendida sceneggiatura, che da un assunto tipico costruisce un plot che segue un doppio binario: da una parte l’immagine sociale della corruzione e della menzogna, dall’altra una storia dolente di violenza familiare e di abbandono, che Towne e Polanski ci fanno intuire poco a poco con incredibile tensione fino alla parte finale, che prima sconvolge e infine agghiaccia. Probabilmente la più bella chiusa del cinema di Polanski, e tra le più crudelmente morali del cinema contemporaneo.

Girato magnificamente, con un’attenzione incredibile ai dettagli e con una cura maniacale dell’insieme visivo e narrativo, il film deve però molta della sua celebrità alle interpretazioni degli attori. E non a caso: un Nicholson gigantesco (soprattutto in lingua originale), un Houston grandissimo, ma soprattutto Faye Dunaway, vero perno della vicenda, bellissima e sofferente, affascinante e fragile. La sua interpretazione più bella.

Insomma, un signor classico.

"As less as possible"

Zeder
di Pupi Avati, 1983

Horror padano molto meno presente nella memoria collettiva rispetto al suo predecessore (che non ho mai visto), Zedere non è un capolavoro ma è comunque un film molto interessante per il modo in cui mescola il gusto orrorifico dei suoi "riferimenti" cinefili e le suggestioni della provincia in cui è cresciuto.

Zeder ha soprattutto una freccia al suo arco: fa ancora paura. Avati sapeva come costruire la tensione, e sapeva anche trasgredire alle regole (basterebbe il modo in cui è insolitamente solare), facendo saltare spesso sulla sedia. Ottimo anche il progetto di montaggio, che elimina le ridondanze, "staccando" alla fine delle frasi di dialogo e cambiando ambiente, e non dando così il tempo allo spettatore di raccapezzarsi sulla trama.

E alla regia, nonostante non svolazzi mai e si tenga su un livello tecnico non più che dignitoso, riesce anche qualche colpo di genio: l’inquietante Don Luigi Costa che scende le scale zombificato, e verso la fine la bellissima soggettiva di un cadavere (non si dice quale) trascinato. Davvero riuscitissimo il finale.

Tiziano Sclavi deve ad Avati come minimo una cena al Baglioni. Gabriele Lavia, l’attore ma soprattutto il personaggio, è insopportabile.

Gallina nel vento (Kaze no naka no mendori)
di Yasujiro Ozu, 1948

Questo mio secondo Ozu (dopo questo), mi ha aiutato a superare quasi del tutto i pregiudizi (stupidi come tutti i pregiudizi) a cui ho già accennato in passato. Lo consiglio a tutti.

Con la solita semplicità, Ozu era capace di piccoli miracoli. Sia formali, come l’incontro sulla riva del fiume tra il marito e la prostituta, oppure quello sguardo al cielo di Tokiko: una rara fuga dal peso schiacciante degli interni e degli edifici decadenti. Sia di sceneggiatura, come tutti i dialoghi tra Tokiko e l’amica, costruiti saggiamente sulla malinconia che implode fino alle lacrime.

Ma gran parte della bellezza di questo film è dovuta all’interpretazione di Kinuyo Tanaka, futura favorita di Mizoguchi: un volto capace di incredibili variazioni d’intensità, un’attrice indimenticabile. E Gallina nel vento è in un certo senso un’altra faccia del successivo Vita di Oharu mizoguchiano. Ma mentre Mizoguchi conclude la sua parabola con un acuto pessimismo, Ozu restituisce all’uomo la sua capacità di perdonare e di superare le difficoltà con la forza dell’amore, in un finale inaspettatamente e splendidamente romantico, nella sua calda rassegnazione.

Gli orrori del castello di Norimberga
di Mario Bava, 1972

Baron blood, come lo chiamano gli anglofoni, è un film che rappresenta il conflitto tra l’architettura irrazionale del gotico, che comprende la magia, la stregoneria, l’immortalità, e il mondo contemporaneo che crede di poter schiacciare tutto ciò con il gioco della scienza.

Nulla di particolarmente nuovo, insomma, e inutile cercare la magia de La maschera del diavolo. Le orribili musichette lounge di Stelvio Cipriani non aiutano a creare l’atmosfera, almeno nella prima parte. Però Bava si dimostra ancora un grande regista, preciso ed eccellente, capace di magie con la macchina da presa e di un approccio sincero e mai kitsch (anche se l’evocazione della strega lo sfiora).

E nella seconda parte, all’altezza del talento di Bava, ci sono davvero molti spaventi (grazie alla paurosità atavica del barone col cappellaccio nero), e tra le molte sequenze bellissime, almeno due straordinarie: quella dell’inseguimento al "gatto e topo" tra le vie illuminate da fasci di luce colorata, e l’incontro fiabesco nel bosco tra il "mostro" e la piccola Nicoletta Elmi.

Nowhere to hide (Injeong sajeong bol geot eobtda)
di Lee Myung-se, 1999

Si vede che Lee è bravo, e non si può dire che Nowhere to hide sia mal girato. Anzi, è girato proprio da dio: sperimentale, consistente, virtuosistico. Ma questo è un caso in cui nessuna difesa della forma (come la mia solita, che la forma si permea reciprocamente con la sostanza) può nascondere il vuoto che si cela dietro l’eccellente tecnica del regista.

L’avevo letto da più parti, e speravo di poter dissentire: e invece Nowhere to hide è un film vacuo e sostanzialmente inutile, in cui non succede niente e quel niente non provoca nemmeno il nostro interesse. Ripetitività senza un climax né un crescendo (nè un qualsiasi progetto narrativo, in realtà), e un’ironia diffusa che almeno abbassa le ambizioni ma sembra appiccicata per autogiustificarsi.

Personalmente mi ha annoiato, e per un film d’azione è un disastro. Davvero un grande peccato, perché l’inizio supercool prometteva bene, e il "combattimento" finale, assurdo mezzo-western mezzo-lotta nel fango, è eccellente. C’è ben altro in Corea.

Private
di Saverio Costanzo, 2004

Il 2005 del cinema italiano si apre con i migliori auspici: Private, Pardo d’oro all’ultimo Festival di Locarno, è un film importante, necessario, prezioso.

Una casa divisa tra i palestinesi che ci vivono e i militari israeliani che la occupano diventa metafora dell’intero conflitto mediorientale, ma anche rappresentazione organica delle reazioni all’occupazione: la reazione violenta, la disperazione, la curiosità, la non accettazione, la voglia di fuggire, la resistenza passiva. Lo sguardo in cui Costanzo si immedesima è quello del padre, il bravissimo Mohammad Bakri, che decide di rimanere nella casa ed affrontare passivamente. Per salvaguardare la propria casa, che è la propria dignità. Perché senza un luogo dove stare, senza la propria personalità, si smette di esistere.

Si è schierati, perché non si può non esserlo, contro l’occupazione: ma lo sguardo di Costanzo è pieno di rispetto e partecipazione per tutti i suoi personaggi, anche per i gesti più estremi, portati dalla paura: i due figli, rischiando la vita di chi amano, capiscono l’inutilità e il pericolo di una reazione violenta.

Attaccato ai loro volti e ai loro gesti, Costanzo ha anche la capacità di chiamarsi fuori lasciando la realtà venir fuori da sè, scaturire miracolosamente dai dialoghi e dai momenti pieni di tensione, dai rapporti familiari e da quello strano rapporto di non-comunicazione che forse permetterà a tutti di salvare le proprie vite e, ancora, la propria dignità.

Ma oltre a una metonimia, il film (come dice il titolo stesso) parla anche di un’intrusione nel privato, e se il taglio è documentaristico e apparentemente casuale, sono sfruttati molti meccanismi del cinema di finzione. Azzeccate quindi le semplci ma efficaci musiche degli Alter Ego, e la suspense (vista la veridicità estrema della vicenda) porta un impatto emotivo fortissimo ed estremo, che scuote e commuove con irruenza, irrompe nello stomaco e nel cuore, e non può non aiutare riflettere.

Private è un film di cui si sentiva la mancanza. Ora c’è, ed è italiano.

In sala, presenti tra gli altri il regista e l’attore principale. Costanzo è un ragazzo visibilmente sensibile e arguto, ma Bakri gli ha "rubato la scena": con fascino e ironia, e poche parole, ha mostrato una condizione, una via, un modo per sopravvivere e sperare. Con intelligenza: se ci capissimo, potremmo accettarci e smettere di avere paura l’uno dell’altro.

Nota importante: la versione che ho visto è quella originale. Nella versione distribuita in Italia l’arabo è sostituito dall’italiano. Il mio consiglio è: se possibile, guardate la versione originale (ce ne sono in giro alcune copie).

La maschera del demonio
di Mario Bava, 1960

Non sono (per ora!) riuscito ad acquistare il favoloso dvd della RHV, e quindi ho dovuto ripiegare su una VHS, tutto sommato dignitosa, piovutami come al solito in mano. Ma che meraviglia: lo compro lo stesso, mi sa.

Il primo film di Bava è forse storicamente il suo più importante, perché diede vita a un intero ciclo e ad un modo nuovo di fare cinema di genere, e fu adorato un po’ ovunque nel mondo. E secondo molti, resta il suo film migliore. Forse hanno ragione: l’archetipo del "gotico italiano" è davvero uno splendore, magico come un fiaba e terribile come un horror, e per nulla invecchiato.

Quello che strabilia davvero, oltre alla fotografia dello stesso Bava, tra i migliori bianco/nero di un ventennio di cinema, è la regia virtuosistica e creativa, che non bada troppo a viziosi stilemi, e regala pezzi di bravura che lasciano ancora senza fiato. I back travelling della bimba nel bosco, il "vortice" della mdp alla scoperta del volto del padre, alcuni piani lunghissimi e complessi, l’apparizione al ralenti del cocchio che attraversa le luci del bosco, la scena (che ho divorato più e più volte) della sala del pianoforte.

E poi l’horror, inquietante oggi, scioccante se si pensa all’anno e al contesto culturale. Forse per questo da noi è stato messo da parte: un film che inizia e finisce con la pelle che brucia, e che mostra molto (i trucchi efficacissimi dello stesso Bava) lasciando comunque al fuoricampo la parte più influente dell’angoscia che si respira.

Belle le musiche di Nicolosi. E si capisce perché la Steele grazie a questo film è diventata un simbolo e la "regina dell’horror": affascinante, terrificante, mai così bella. Anche pittoricamente: i "ritratti" che Bava fa all’inizio ai suoi due personaggi (il primo sul rogo, il secondo con i cani e la luce che le illumina gli occhi) sono di uno splendore indimenticabile.

Una meraviglia: capolavoro da recuperare (e conservare) a tutti i costi.

Santa Lucia, volume  6

City on fire (Long hu feng yun)
di Ringo Lam, 1987

Si chiude con questo film la visione dei film acquistati a Dicembre su www.dddhouse.com (due più che ok, due gioiellini, e due capolavori). Devo risparmiare o pensare al prossimo acquisto?

Poliziesco metropolitano che elogia l’amicizia virile e dramma noir sulla fiducia e sulla lealtà, City on fire prende in realtà una strada un po’ diversa dai capolavori di Woo che sembrano assomigliargli nelle tematiche: la sua scelta stilistica è infatti quella di asciugare il melodramma, e cercare di analizzare la barbarie e la crudezza che giace all’interno della città e delle gerarchie con un occhio violento e molto realistico.

Non un capolavoro, ma comunque un prodotto che (come spesso accade) sta parecchie spanne sopra l’action medio di quegli anni, dotato di una coerenza rara, rude e senza troppi fronzoli, e rinforzato da una bellissima seconda parte: per tensione narrativa e per scrittura dei personaggi (il rapporto tra giustizia e amicizia che rode l’animo del poliziotto sotto copertura), il finale è un vero gioiellino.

Non a caso, è stato ripreso nelle Iene da Tarantino (1992). Se l’influenza del noir di Honk Kong nel film è autodichiarata (a partire da A better tomorrow II), molto del finale di City on fire (e non solo, ma è la cosa più evidente) è finito in Reservoir dogs: il capannone, la difesa del colpevole, lo stand-off a pistole puntate, la chiusa. Questo non toglie ovviamente niente all’opera di Tarantino, per carità: si sa che la grandezza del suo cinema è anche (o proprio) nell’appropriazione e nella rielaborazione di materiali preesistenti (e in questo caso come in altri, supera l’originale).

Detto questo, Chow Yun-Fat era proprio bravo. Ma proprio tanto.

Amores Perros
di Alejandro González Iñárritu, 2000

Intorno a un fatto-trauma, Iñárritu e lo sceneggiatore Guillermo Arriaga costruiscono tre storie ad incastro, accomunate dalla presenza di cani (spesso morti o moribondi), e da poco altro: solitudine e dolore, riscatti e seconde possibilità (previste, mancate o immeritate che siano).

Se il modello è evidentemente quello tarantiniano (l’inizio ricorda una delle prime scene delle Iene, e la struttura "a capitoli" richiama Pulp Fiction), Iñárritu si prende un pochino più sul serio, e il grottesco è molto limitato. Comunque, quello che interessa in fondo all’autore è solo il gioco del caso, l’incrocio dei destini, la confluenza degli eventi intorno allo shock.

Le tre storie sono interessanti, e se l’idea più originale è quel cagnolino sotterrato nel parquet insieme ai topi, trovata un po’ da serial-tv dell’orrore (o da B-movie) che mostra lucidamente l’idea che Arriaga ha della middle-class, forse la scena migliore è nel terzo episodio, quella in cui Emilio Echevarría si taglia la barba: ha una personalità che ruba la scena ai ragazzi violenti e incapaci di amare della prima parte. Peccato per l’assenza di emozioni (anche nella terza parte, più melodrammatica), perché il film è davvero ben congegnato e in alcuni momenti lascia senza fiato.

Può piacere o non piacere lo stile mobilissimo e nervoso di Iñárritu, e il suo interesse per la complicazione dei piani narrativi piuttosto che per un’incisività caratteriale. Forse si è gridato troppo presto al miracolo (perché 21 grammi è minore, soprattutto con il senno di questo), ma non gli si può negare un incredibile talento nel raccontare le sue storie: Iñárritu si dimostra qui un narratore intelligente e vitale, sanguigno ed eccellente.

La mala ordina
di Fernando Di Leo, 1972

Dopo Milano calibro 9, un’altra storia di onore, di lealtà di tradimento e di vendetta. Il film non ha forse la grandezza del suo predecessore (uscito pochi mesi prima), ma la parabola del magnaccia dal cuore buono che compie un massacro di vendetta e autoconservazione convince appieno nel suo crescendo di violenza.

Magari è più rozzo e violento, meno raffinato e più diretto, ma forse lo scavo dei personaggi è persino più riuscito, perché concentra tutto sul protagonista, sul suo dolore e sulla sua rabbia di uomo tradito. Merito anche della grandissima intensità di uno splendido Mario Adorf: interprete troppo spesso dimenticato.

Magnetica la presenza di Henry Silva e Woody Stroode, soprattutto il primo (bella la scena in cui si fa assalire dalle prostitute). Ma, come mi era stato predetto, Adorf e un Adolfo Celi di rara cattiveria rubano la scena alle due "star" d’oltreoceano. Anche se non c’è Bacalov, ottima la colonna sonora di Trovajoli.

Lo stile di Di Leo è ancora personalissimo, come nella scena quasi sperimentale del pestaggio sulle note di "Un’ora sola ti vorrei". E folgorante: il lunghissimo inseguimento con un Adorf imbestialito sul cofano di una macchina che spacca il parabrezza a testate è un gioiello dell’azione all’italiana (e non solo).

Dr. Akagi (Kanzo Sensei)
di Shohei Imamura, 1998

Saggio di bonario antilimitarismo e energica satira storica antioccupazionista, con un occhio al presente del Giappone, il film di Imamura è forse più convincente quando è pacificamente surrealista che non negli scorci drammatici che si intravedono al di sotto dello stile grottesco e divertito. Riesce comunque a non annoiare per un attimo e a far riflettere, non è poco.

Principale punto di forza del film, molto più delle sterzate visionarie del discusso e bizzarro finale, è la scrittura delle interazioni fra gli abitanti del villaggio, mossa da un appassionato spirito corale, che trasmette l’immagine di un villaggio solidale ed eticamente coeso, anche se la tematica ricorrente è quella della dipendenza e dell’ossessione: il sesso, la droga, le balene.

E, nonostante la provocazione sia contenuta, e malgrado si scalfisca più che intaccare, i personaggi funzionano alla perfezione: come Sonoko, bellissimo personaggio di Kumiko Aso, o lo stesso protagonista Akagi (interpretato da Akira Emoto), che corre freneticamente per il villaggio da una visita all’altra e che costruisce una sua etica del lavoro all’interno di una contingenza impossibile.

Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz)
di Don Siegel, 1979

Uno delle pietre portanti del genere carcerario, tra i più celebri del suo genere, e forse il più famoso del suo autore.

Secchissimo ma terribilmente efficace, a partire da una storia talmente vera da essere incredibile, scritto con intelligente consapevolezza dei cliché, e diretto in modo misuratissimo e rigoroso. Eastwood è al meglio delle sue forze (in)espressive, e Frank Morris è uno dei suoi personaggi più riusciti.

Nonostante io non ami particolarmente questo sottogenere, e lo ritenga un oggetto (solo un pochino) sopravvalutato, apprezzo quello che vedo, con oggettività: un gran film.

Ong-Bak
di Prachya Pinkaew, 2004

Cinema dal peso dell’aria, certo, e di un’ingenuità sconcertante. Ma non è detto sia per forza un male. La storia del giovane che ricerca la statua trafugata, come metafora di un conflitto tra le tradizioni buddhiste e una modernità individualista fino all’autoidolatria, è comunque un pretesto per le impressionanti esibizioni di Tony Jaa. Per di più, Pinkaew è capace persino di sopravvalutarsi, nonostante si vedano bene le sue radici video.

Ma Tony Jaa è una vera forza della natura, e ogni volta che si muove compie (veri) miracoli. Il masochismo del corpo scenico "alla Jackie Chan" arriva a vette forse mai raggiunte: impossibile non divertirsi, almeno nella seconda parte.

E comunque la si veda, l’inseguimento "ad ostacoli" tra i vicoli della città (con Perttary Wongkamlao a far da contraccolpo comico ai "voli" di Jaa) è uno spettacolo di puro divertimento, da vedere e rivedere, degno dei capolavori di questo genere.

Link: Cinebloggers connection

Santa Lucia, volume  5

A hero never dies (Chan sam ying hung)
di Johnnie To, 1998

A hero never dies è un melodramma di pistole e sangue, una storia di riscatto e rivalsa, un affresco funebre di corpi impazienti e in cerca di pace, una riflessione action sui valori dell’onestà e dell’onore, e una (doppia) storia di sacrificio amoroso. E se l’azione è magistrale e millimetrica, con risvolti western (non solo nel cappello di Martin) e un finale nichilista e impressionante (con vetri che volano come fiocchi di neve), è forse il lato melodrammatico a colpire al cuore: impudico fino alla spudoratezza, struggente fino alle (nostre) lacrime.

La regia di To è più che perfetta, capace di miracoli di tensione (la sparatoria nella baracca è tra le più belle mai viste, per non dire dell’inseguimento nell’ospedale) e di momenti di grande malinconia elegiaca. E senza bisogno di troppe chiacchiere: basta uno sguardo, o un movimento di macchina (spesso elastico, con "andata" e "ritorno").

Splendidi tutti gli interpreti, con menzione d’onore a Ching Wan Lau (Martin) e Fiona Leung. La lunga sequenza dell’incontro tra i due nemici, con quella "sfida" (rompere un bicchiere lanciando una moneta) che è anche presagio del destino dei due, e con quella bottiglia-feticcio (grande trovata narrativa) è di una bellezza indicibile.

Qualcuno ha scritto che questo è il capolavoro di Johnnie To, qualcuno forse no. A soli tre film (dopo il bellissimo Trow down e il "minore" Heroic trio), non posso azzardare simili ipotesi. Ma è comunque un capolavoro.

La tomba di Ligeia (The tomb of Ligeia)
di Roger Corman, 1965

L’ultimo degli adattamenti cormaniani dai racconti di Poe è un bellissimo piccolo film, che sa trattare la materia dell’angoscia e dell’ossessione con mezzi spartani, sa stupire (come l’efficacissimo incipit), anche osando a tratti (la scena onirica). Davvero adorabile, a patto di ignorare del tutto le derivazioni (stilistiche e drammaturgiche) dall’opera di Bava. Tanto per fare un esempio da ignorante, La frusta e il corpo.

Di grande fascino le interpretazioni, e geniale la scelta hitchcockiana del doppio ruolo affidato a Elizabeth Shepherd. Che comunque nulla può contro l’immensa statura di Vincent Price.

OT: brevi notazioni


Tra le voci di quelli che (con troppa veemenza) invocano un silenzio rispettoso e gli scoppi e i botti di quelli che (con troppa idiozia) vogliono che il mondo vada a farsi fottere, in Piazza del Popolo a Roma vedo della gente che svolazza sopra la mia testa.


Due libri di J.T.Leroy. L’uno avventura picaresca e surreale, traumatica e appassionante. L’altro dolorosissimo e crudele romanzo di formazione in un mondo dominato dall’ipocrisia sociale e religiosa. Sono profondamente ammirato, e un po’ scosso (e anche curioso).


E ho scoperto che esiste un cartone animato che si chiama SpongebobAmore a prima vista.