novembre 2005

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Harry Potter e il calice di fuoco (Harry Potter and the goblet of fire)
di Mike Newell, 2005

La trovata migliore nell’adattare una saga ormai divenuta industriale è stata quella, forse in un primo momento disperata, di affidare a registi diversi per provenienza e per curriculum i vari capitoli: la stessa idea di riutilizzare Columbus fu artisticamente disastrosa. E così, dopo il soprendende terzo capitolo, ecco le avventure del giovane mago inglese in mano (finalmente) ad un regista inglese.

E Mike Newell, che sappiamo essere regista di ottimo mestiere, rovistando nel Calice di fuoco, trova facilmente materiale con cui giocare a suo piacimento. Perché questo è il libro dove, soprattutto, si consolidano i rapporti, si cresce sentimentalmente, si comincia ad entrare nel "delicato selciato dell’adolescenza". Le prime coppie, i "primi batticuori". Brr, la smetto. Comunque, per metà abbondante della sua durata Harry Potter 4 è questo: una vera e propria commedia dei sentimenti, con i personaggi che si desiderano l’un l’altro, in un balletto (non solo metaforico) ormonale di frasi non dette e qualche doppio senso, ricerche amorose e tanta foia. Cose che, nella cupa cornice di Hogwart, sono quanto di più bizzarro possa venire in mente.

Ma questo è anche il libro dove succede quello che succede alla fine (non voglio rivelare, se lo sapete peggio per voi). Per cui, dopo un’ora e mezzo di questa strana pochade, c’è la parte subacquea – pazzesca, quasi visionaria – quella del labirinto – claustrofobica e da incubo, quella sì quasi horror – e lo scontro finale, un po’ George Lucas e un po’ Ken Shiro. Tutte sequenze con i fiocchi, con i cazzi e i controcazzi.

Va bene, ci sono gli ovvi limiti dichiarati di un prodotto che deve essere masticabile per un altro tipo di pubblico. Va bene, l’episodio di Cuaròn era forse – un dito – migliore. Va bene, ci sono ancora delle difficoltà (ma sempre meno) per i non-iniziati. Ma questa è una saga sempre più divertente e coinvolgente, e sul finale persino commovente: diciamolo, non è più tutto un giochino da bambini, e l’avevamo già capito. Qui ora c’è la morte, con cui fare i conti.

Viste le aspettative ribassate dall’entusiasmo malcelato per il terzo episodio, è inutile negarlo: questo maledetto Harry Potter ci piace sempre più. Continueremo a non leggere i libri della Rowling perché si ha di meglio da fare nella vita, ma i film del maghetto – sempre più insopportabile alla vista – li attenderemo con ansia.

Hermione invece è sempre più carina ed sempre più brava la sua interprete Emma Watson. Ci garba. Ma c’è un conflitto d’interesse, perché qui si farebbero carte false per Katie Leung. Che è pure maggiorenne e non si va nel penale.

Stardust memories
di Woody Allen, 1980

Il capolavoro di Fellini attraverso gli occhi e la poetica di Allen: dalle ceneri di Otto e mezzo, variate e soffiate da un vento grigio e nero fino a quel di New York, nasce Stardust memories. C’è il sogno soffocante all’inizio, le donne, la morte, il finale con il cast. "Omaggio? Gli abbiamo portato via l’idea in blocco!", dice Tony Roberts su Vincent Price, ma il riferimento è evidente.

Da recuperare, anche solo perché pur essendo uno dei suoi film meno visti, meno citati, meno amati e meno caratteristici (di un periodo, di uno stile), è terribilmente personale, egocentrico, acido, malinconico, è un piacere per gli occhi grazie alla fotografia di Gordon "Manhattan" Willis, ed è pieno di chicche, citazioni, robetta metacinematografica, scene incredibili come "l’ultima volta che vedesti Dorrie", una disamina entusiasta su un certo film di un certo De Sica, decine di persone che chiedono l’autografo all’esausto autore.

E poi c’è il cognato che fuma sulla cyclette, manciate di soggettive che diventano oggettive, piani-sequenza che poi Allen ha disimparato a (o perso la voglia di) fare, Sharon Stone che esordisce mandando un bacio dal treno, e Charlotte Rampling che ti sorride sdraiata sulla moquette. Che voler di più?

[revisionismo]

per capirci

Requiem for a dream
di Darren Aronofsky, 2000

Il secondo film del regista cult newyorkese è uno di quei film con cui molti amano rompermi le scatole da tempo (ma come, non l’hai mai visto?) senza che io mi ravvedessi e lo vedessi. Dal primo consiglio sono infatti passati anni, e io me lo sono tenuto lì nel cassettino – dove tengo anche il suo primo film, Pi – aspettando il momento giusto. Sia inteso, ben vengano i consigli, ben venga il passaparola: è così che si scopre il "cinema invisibile". Ma è anche chiaro che uno si crea delle aspettative, a cui il film dovrebbe tenere testa.

Ora che ho visto Requiem for a dream, l’impressione non è certo drasticamente negativa, perché il film ha diversi punti di forza (a cui cercherò di aggrapparmi nel prossimo paragrafo), ma non mi sembra nemmeno all’altezza della sua fama, di quella del suo autore, e di molte recensioni più che entusiaste. Aronofsky cerca di costruire una piccola discesa all’inferno allucinata quanto gli incubi dei suoi protagonisti, ma il risultato è un saggetto sulla dipendenza, a volte davvero fastidioso nel suo voler essere eccessivo tutti i costi, privo di ironia e moralista, basato su una relazione causa-effetto un po’ troppo elementare.

D’altra parte bisogna ammettere alcune cose. Ehm ehm. Ehm. Primo. Che Aronofsky ha uno stile affascinante. Anche se sembra nascondere sotto la ridondanza linguistica – non sempre giustificata – una probabile incapacità di ricreare quest’incubo nel profilmico, e non solo ex post, che a volte si trasforma in sciatteria oppure cade nel ribrezzo "a pelle". Secondo. Che alcune scene sono bellissime, come la corsa sul molo, o lo split-screen nel letto, o molte altre. Anche se è spesso merito di Matthew Libatique. Terzo. Che l’ultima parte, quando le situazioni drammatiche raggiungono il loro apice horror, è davvero straordinaria. Anche se preferiamo la Connelly che abbraccia il suo amato pacchettino allo spettro – ricordo – bah – della mammina di Wayans. Quarto. Che la colonna sonora dei Kronos Quartet è fantastica. Senza "anche se".

Comunque tutto ciò non toglie che Requiem for a dream sia un film da vedere, anche solo per la capacità di abbinare ad una storiella strarisaputa e noiosa, quella dei ragazzetti drogati che spacciano e che fanno una brutta fine, una più angosciante e più diretta, quella della madre del protagonista, vittima di "altre" dipendenze (la televisione, le pillole per dimagrire, la solitudine). E’ il vero punto di forza, il vero pugno nello stomaco del film. Fosse tutto così.

Qualcuno mi ha detto che devo rivederlo in lingua originale, che lo rivaluterei in toto. In effetti il doppiaggio è davvero orrendo, come spesso capita ai prodotti destinati all’home-video. Forse mi sono lasciato condizionare troppo dalle vociastre italiche, o dal fatto che non riesco a prendere sul serio Marlon Wayans dopo Scary Movie. Ma mi sembra che i problemi ci siano comunque, anche altrove. Con fiducia, tengo comunque la strada aperta ad un ripensamento.

A caccia di recensioni negative per non portarmi alla disperazione, ne ho trovate un paio semi-illustri: quella di uno spietato e quella (anonima) di FilmTv. Se ne conoscete altre, i commenti sono lì per quello.

Il gusto dell’anguria (The wayward cloud) (Tian bian yi duo yun)
di Tsai Ming-liang, 2005

I due personaggi di Che ora è laggiù si incontrano di nuovo, per caso ("non vendi più orologi?" è l’unica linea di dialogo tra i due), in una Taipei deserta e apocalittica, seccata dalla siccità, dove ognuno campa come può, chi rubando bottiglie e angurie, chi facendo film porno in uno squallido appartamento. Lo schema compositivo è quello di The hole: la grigia e immobile realtà, caratterizzata dai ritmi dilatati e dai piani fissi per cui Tsai è noto, è spezzata da numeri musical coloratissimi e qui davvero assurdi, che riflettono i sentimenti del personaggi, inesprimibili per definizione. A far da tramite, un frutto che diviene simbolo ora di sensualità, ora di fertilità.

E’ davvero bellissimo The wayward cloud. E’ ancora un film sulla solitudine e sull’incomunicabilità, ed è ancora una conferma di un talento compositivo impressionante, capace come pochi di lavorare – come si dice spesso – sui "corpi nello spazio", e di costruire inquadrature che, pur rimanendo immobili, si sviluppano in profondità (sui lati lunghi del parallelepipedo, siamo portati a pensare). A ciò si aggiunge una non inedita ma qui esplicitata voglia di giocare con il proprio cinema, ironicamente e autoironicamente, abbandonandosi spesso a un "divertimento" – tra virgolette – che esce persino dai confini di quegli irresistibili sogni-musicarello ("il tappo è rimasto nella giapponese").

Qui si pone il problema: lo Tsai dell’interminabile inquadratura muta dell’incontro sull’altalena o lo Tsai che canta quest’amore ritrovato con quattro ballerine e fiorelloni colorati alti due metri? Lo Tsai della scena di sesso negato tra gli scaffali del videoclub o lo Tsai del balletto – splendido – con imbuti, sturacessi e un glande per cappello? La risposta dei distributori (italiani?) è: solo il secondo, visto che il trailer non mostra altro che balletti e amenità, ingannando gli spettatori che, se impreparati, rimarranno delusi. La mia risposta è: perché non entrambi? La musica (e il musical, nella migliore tradizione della fantasmagoria) in The wayward cloud è una sublimazione malinconica, e al di là del colore e dell’allegria (anche scemotta, come il numero musicale sull’appuntamento mancato) non cancella né concilia ciò che nella realtà accade, tra gli individui.

Comunque, quando si tratta di far le cose sul serio, Tsai non guarda in faccia nessuno, e così The wayward cloud è anche caratterizzato dalla componente quasi pornografica di cui tutti parlarono dopo Berlino, che impressiona per quanto si spinge oltre, e che i protagonisti hanno affrontato con ammirevole coraggio. Tsai ha il talento di tenerla in un equilibrio stabilissimo tra squallore, romanticismo e attesa, difficilmente raggiungibile. Peccato che verso la fine il "ritmo" si spezzi con una lunghissima sequenza, coraggiosa ma insostenibilmente prolungata, ma ciò non diminuisce il fascino di un film che, non lo nascond(iam)o, mi/ci è piaciuto da impazzire.

Ma il finale è di quelli che non si dimenticano, perché proprio al sesso, all’organo sessuale, allo sperma, è affidato il compito di riunire due solitidini, capaci fino ad allora solo di guardarsi e di desiderarsi da una parte all’altra di un muro. Come da una parte all’altra del mondo, d’altronde, o di un buco nel pavimento.

Più grevemente: l’incipit fruttofilo è immediatamente da antologia del cinema erotico.

Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s’est arrêté)
di Jacques Audiard, 2005

L’ultimo film del regista francese, di cui non ho colpevolmente visto altro, è un remake di un film indie americano del 1978 (con Harvey Keitel), da me sconosciuto fino a oggi. Ed è molto diverso da quello che mi aspettavo dalla trama e dal trailer.

Perché sotto alla tipica storia di una seconda occasione e di una fuga dal dolore quotidiano ricercata attraverso la forza della musica, scorre in realtà un film estremamente drammatico e dall’impronta personale, sia nello stile ricamato e raffinato nonostante l’apparenza grezza e mobile come le mani – le vere protagoniste, per tutto il film – di Thomas, sia nei contenuti, che sono quelli di un paradigma edipico macchiato da un sangue color noir.

Autentica rivelazione, per me, Romain Duris. Bravissimo, tiene su il film da sè: andrebbe forse recuperato in francese, vista la voce dicapriana affibbiatogli dal nostro inevitabile doppiaggio. Forse non sarebbe nemmeno così irresistibile senza di lui, perché Audiard si concede qualche vezzo europeista di troppo, almeno per i miei gusti. Ma la sua regia tesa, nervosa, ellittica, anticlimatica e sfrontata, è magistrale, e il film, che era prima solo il solito bel film, si alza notevolmente verso la conclusione, fino ad un finale tanto prevedibile quanto necessario e bello.

Stupido e inutile il titolo italiano, molto appropriato quello originale.

Andrea non c’era, c’era invece Rob81, nella sua prima trasferta "ufficiale" a Bologna. Ne ha parlato qui, ora vado a leggerlo, fatelo anche voi.

Masters of horror, #1.02
H.P.Lovercraft’s Dreams in the witch house
di Stuart Gordon, 2005

Maestri dell’orrore (lo chiameranno così? arriverà mai sull’etere italiano?) passo secondo. Dopo il colpo di fulmine iniziale iniziale di Coscarelli, un passo indietro. Senza scomodare però le tragedie greche, perché se il film del regista chicaghese non rende giustizia al Lovercraft da cui è notoriamente ossessionato, è almeno diverso da come sarebbe potuto essere – in una parola: insopportabilmente trasho – confermando la sorpresa per quella cosetta strana vista a Venezia, Edmond.

Gordon sta forse crescendo, in una nuova maturità che rivive proprio nella misura del tempo breve, in cui forse non ha tempo di tirare fuori le sue pacchianate. Qui dirige, e dirige bene – nonostante un cast pietoso, quello sì, da serieB – un horror semplice semplice, condito di streghe e malefici, sacrifici umani e paradossi spaziotemporali, topi con la faccia umana e vecchie streghe nude, un bell’infanticidio e – solo verso la fine – una bella sciaquata di liquido rosso.

Cerca in tutti i modi l’angoscia di Polanski (qui esplicito nume tutelare), non riuscendoci del tutto (colpevoli alcune cadute come la citazione di Shining), spaventando molto meno del possibile, ma tirandone fuori un filmetto abbastanza sciocco e ingenuo da farsi voler bene. Si rimpiange un po’ il genio anarchico d(e)i Re-Animator, ma ci sta tutto.

[la strage nascosta]

Come qualcuno potrebbe aver notato, campeggia da un paio di giorni sulla colonna destra di questo blog un piccolo banner "autoprodotto", collegato alla pagina dedicata al servizio televisivo su Falluja prodotto da RaiNews24 che, invisibile nelle reti mainstream, nelle ultime settimane ha fatto molto parlare di sè. Ma non abbastanza.

Pensavo che potesse bastare, ma un post di "Adayinthelife" sfuggitomi negli ultimi giorni, mi ha fatto cambiare idea. Marcare, ripetere, sottolineare l’esistenza di questo documento, e non solo, è per una volta un dovere civile per un blog, anche se il blog è piccolo e umile come il mio, e anche se il blog tratta di tutt’altro. La realtà è spesso molto più assurda e spaventosa di qualsiasi film.

Ora, se non avete ancora visto il servizio, probabilmente non è colpa vostra. Ma adesso non avete più scuse. Come ama ripetere Beppe Grillo, la nostra unica arma è la conoscenza. Conosciamo, dunque.


Incollo qui di seguito l’elenco di link presenti nel suddetto post. Se avete un blog, fate altrettanto. Se volete usare il banner, fate pure.

Enzo Baldoni parla di Falluja (RealMedia)
Enzo Baldoni racconta di Falluja
(agosto 2004)

Giuliana Sgrena: Falluja, una strage al giorno
(settembre 2004)

Falluja: ieri e oggi
(novembre 2004, periodo del primo probabile attacco con MK-77)
Il video linkato nell’articolo si riferisce ad un attacco dell’aprile 2003: scaricatelo qua (tasto destro, salva con nome)

Rapporto da Falluja 1 e 2
(gennaio 2005)

Napalm by any other name
(aprile 2005)

Il servizio di RaiNews24
(novembre 2005)

911 in plane site
di William Lewis, 2004

L’undicisettembre, così come ce lo raccontano da più di quattro anni, fa acqua da tutte le parti. Non ci vuole un genio, non ci vogliono delle prove, per pensarlo. Ma è anche la dimostrazione della forza delle immagini nella nostra società: è una banalità che si ripete sempre, sono le immagini ad abbattere più delle bombe, ad inferocire più di una (vera) convinzione. William Lewis e l’host Dave von Kleist, sono convinti che si debbano combattere le menzogne nascoste nelle immagini attraverso le immagini stesse. Perché una bugia lascia sempre traccia di sè. E vedere ciò che si poteva solo ipotizzare fa un male cane.

I due autori di questo "video-oggetto" cercano di dimostrare in poco più di tre quarti d’ora che la "vera teoria della conspirazione è che Osama Bin Laden c’entri qualcosa con gli attentati del 9/11", e lo fanno con intelligenza e sagacia, recuperando soprattutto materiale che è o che è stato (prima di essere "bandito") sotto gli occhi di tutti per molto tempo ("il miglior modo di mentire è sbatterti in faccia la verità") e utilizzando una dialettica davvero serratissima – fin dall’incipit "metodologico" – che mette a dura ogni possibilità di replica.

Non si tratta di un film, né di un documentario, su cui si può dare un giudizio estetico o valoriale in qualsiasi senso. Storicamente non cambia nulla, forse perché non c’è più spazio per le lotte aperte, e non ci sono più i Jim Garrison a sfidare gli Earl Warren. 911 in plane site è piuttosto un proclama rassegnato, consapevole e incazzato, un documento complementare, necessario e dolorosissimo, un accorato (e apolitico, anzi alquanto anarchico) appello, diffuso nell’unico modo possibile, per aprire gli occhi a chi ancora stesse guardando la storia con gli occhi delle telecamere rimaste accese sui palazzi in fiamme, a chi fosse ancora convinto che le informazioni a nostro beneficio sono – con il passare degli anni – sempre di più.

Non ci sono vere risposte: ci sono teorie che diventano supposizioni, che diventano a loro volta possibilità. E c’è l’invito a pensare, a pensare con la propria testa. Farsi una domanda e darsi una risposta.

Lo distribuisce Nexus, in italiano: compratelo.

Se non avete voglia di spendere soldi, sul sito ufficiale c’è tutta le documentazione. Guardate e rabbrividite.

Grazie ai cari MurdaMoviez e ad Astor per avermi messo per due volte la pulce nell’orecchio.

[pràivasi]



CINEBLOGGERS: IL FRAPPR!

(da un’idea di MurdaMoviez: info qui)

La marcia dei pinguini (La marche de l’empereur)
di Luc Jacquet, 2005

Nota: questo post si riferisce alla versione originale del film, recitata da Charles Berling, Romane Bohringer e Jules Sitruk. Non posso giudicare l’operato dell’edizione inglese narrata dal solo Morgan Freeman, né soprattutto quello dell’edizione italiana, affidata con scaltrezza all’altrove talentuoso showman Fiorello. C’è chi l’ha trovato sopportabile, chi insopportabile, e chi (come Alberto Crespi su FilmTv) ha addirittura – cosa concettualmente un po’ sconsiderata – tessuto le sue lodi, dichiarandola "la migliore delle tre edizioni". A voi spettatori il giudizio.

Dunque, è giunto da noi il film che, con gran sorpresa di tutti ha battuto (quasi) tutti i record di incassi, tra i documentari, nelle sale statunitensi. Una sorpresa soprattutto visto che si tratta di un film europeo, categoria spesso malvista dai grossi mercati nordamericani. Ben venga quindi il successo del documentario, che pur documentario, in senso canonico, non è. E’ piuttosto uno sguardo epico, avventuroso e romantico, più che scientifico ed esplicativo, su una della più belle tra le creature della natura.

Che non è per forza, nel dettaglio, quest’adorabile (e violento) skater-bird marciatore, ma che è l’istinto, che è il senso millenario di una ripetizione che va al di là della nostra concezione umana di attaccamento e di tradizione, e soprattutto al di là della nostra concezione ristretta del regno animale. La dimensione narrativa schietta è in realtà, alla fine, un bene, perché permette di immergersi con il cuore in una natura vergine, con una forza visiva (e quasi-visionaria) vigorosa, in cui la perseveranza e il sacrificio dei pinguini imperatori riescono, pur nei limiti di un lirismo un po’ furbetto e con una colonna sonora – di Emilie Simon – non orribile di per sè ma sbagliatissima, a impressionare e a commuovere.

Poi, insomma, con attori del genere, come si fa a sbagliare il film?

Nota2: veniamo a sapere da Jiro che Jacquet avrebbe disconosciuto la versione americana e – pare – quella italiana, dichiarando che quello "non è il suo film". Si attendono conferme o smentite.
Nota3: veniamo a sapere da Tremorvoid che, dopo le dichiarazioni di alcuni gruppi religiosi americani sulla "esaltazione dei valori tradizionali cristiani quali monogamia, famiglia e sacrificio", Jacquet avrebbe risposto ""veramente non c’è nessuna metafora, si tratta solo di pinguini".

Conclusione: Luc Jacquet ci è molto simpatico.

[la guerra è finita]

“Vivere non è possibile”: lasciò un biglietto inutile prima di respirare il gas, prima di collegarsi al caos. Era mia amica, era una stronza, aveva sedici anni appena. Vagamente psichedelica la sua t-shirt all’epoca, prima di perdersi nel punk, prima di perdersi nel crack, si mise insieme ad un nazista conosciuto in una rissa. E nonostante le bombe vicine e la fame, malgrado le mine, sul foglio lasciò parole nere di vita: "La guerra è finita, per sempre è finita, almeno per me”. ‘Emotivamente instabile, viziata ed insensibile’ il professore la bollò, ed un caramba la incastrò durante un furto all’Esselunga. Pianse e non le piacque affatto. E nonostante le bombe alla televisione, malgrado le mine, la penna sputò parole nere di vita: “La guerra è finita, per sempre è finita, almeno per me”. E nonostante sua madre impazzita e suo padre, malgrado Belgrado, America e Bush, con una bic profumata da attrice bruciata, “La guerra è finita”, scrisse così.

Baustelle, "La guerra è finita", in La Malavita, Warner, 2005

[fuck, yeah]

Lord of war
di Andrew Niccol, 2005

(nota: lievissimi ma possibili spoiler)

"There are two types of tragedies in life. One is not getting what you want, the other is getting it."

Lord of war è il terzo film di Andrew Niccol, e dopo due pezzi da medaglia come Gattaca e S1m0ne era lecito aspettarsi un capitombolo, o almeno un passo falso. Quest’ultimo puntualmente arriva. Anche se Lord of war, da opera minore, molto minore, quale è, conserva più e più motivi d’interesse.

Prima di tutto, un film che tratti un argomento così scottante e decisivo per l’umanità, in modo così schierato ed esplicito, è comunque ben accetto. Nonostante Niccol si soffermi un po’ troppo sulle menate matrimoniali tra Cage e quel figone di Bridget Moynahan, senza badare troppo al nocciolo del problema, che va al di là delle imprese individuali dei trafficanti e si pone piuttosto su un piano politico internazionale. Ma nel finale tira un cambio di rotta – nel massacrante dialogo tra Cage e il magrissimo e compassato Ethan Hawke – che fa strabuzzare gli occhi per quanto è diretto al segno.

Finale – soprattutto successivo al dialogo – che stabilisce anche il secondo motivo di interesse: Lord of war è un film attaccato con i denti alla realtà, pur in una forma-romanzo. A una realtà in cui "il male trionfa sempre", e a una realtà in cui un proiettile ha un solo scopo nella vita. Quello di esplodere in testa a qualcuno, come nei titoli di testa, tra i più belli degli ultimi tempi, che fanno di un proiettile quello che Burton ha fatto con il cioccolato. Un raro caso di titolazione – una volta accadeva più spesso – che è anche una dichiarazione d’intenti, ed estremamente polemica.

Tutto bene. Peccato che il film non sia al livello di tutto questo. La prima parte è persino atroce: riassuntiva e tirata-via nella storia "carrieristica" di Orlov, melodrammatica ed enfatica nei rapporti tra i personaggi ma senza la capacità di gestirli con un dialogo adeguato. Le cose migliorano ingranando la terza, ma mai del tutto, mai fino a soddisfare. Il problema sono i rapporti familiari, slegati dal contesto, smielati, quasi ridicoli. Questo sì che spiace: perché Niccol è prima di tutto un grande sceneggiatore, e questa sceneggiatura, nonostante una marea di perle che ci si porta a casa contenti, non funziona.

Come non funziona la regia, troppo incerta sul da farsi, che abdica quindi imbarazzata allo script, e si rivela infine nuda e cruda. Niccol è ancora molto bravo a gestire gli oggetti negli spazi, a usare il formato panoramico, a usare gli attori (con Cage dev’essere una faticaccia), ma roba come il sogno nuit américaine con Ian Holm col buco in testa e la bambina che chiede "mi ricrescerà il braccio?" non gliela si può perdonare.

Almeno sul finale, come già accennato, si chiarifica ogni dubbio con la conferma di quel che rimane: il ritratto di un indefesso lavoratore, un vero "figlio di puttana americano" (anche se "importato": non hanno figli di puttana originali da quelle parti?), che rinuncia a tutto per il suo lavoro, perché non può far altro, non sa far altro che il suo lavoro, e che continuerà a farlo. Certo, sotto l’ala dei potenti, finché sulla terra non resteranno solo lui, i suoi colleghi, i potenti, i suoi "capi". E migliaia di milioni di bozzoli vuoti.

"You know who’s going to inherit the world? Arms dealers. Because everyone else is too busy killing each other."

Masters of horror, #1.01
Incident on and off a mountain road
di Don Coscarelli, 2005

Una ragazza viaggia su una strada di montagna, una canzone in sottofondo. Passa il tempo, ci facciamo le domande classiche: dove sta andando, da dove viene? La canzone è alla radio, lei cambia stazione, si distrae: incidente. Buio. Luce. La ragazza è al primo appuntamento con un tizio. Lui dice cose strane, a dirla tutta. Ma poco conta, perché a lei piace tanto. Vanno a casa di lui, si baciano sotto la pioggia, fanno l’amore. Buio. La ragazza si sveglia, sanguinante sul volante, e l’altra macchina è vuota. Ci dimentichiamo delle domande, perché l’incubo è appena iniziato.

L’antologia seriale creata da Mick Garris per la rete Showtime inizia col botto, e con i migliori auspici per i 12 capitoli successivi. L’autore di Bubba Ho-tep infatti, adattando (ancora) un racconto di Joe Lansdale, costruisce un film che, se da una parte – quella del presente – è purissimo horror, piacevolmente gore dal gusto seventies aggiornato ai tempi di Rob Zombie e Neil Marshall, dall’altra – quella del flashback – getta qualche provocazione originale, e soprattutto politica.

Per poi concludersi con lo sberleffo, con niente più che un gimmick stiloso: quando scopriamo la risposta alle nostre domande sull’inizio. Ma oltre al divertimento – è la dote principale, ed è massiccio – c’è anche una riflessione, sconcertante se la si vuole leggere, sul fascismo familiare come reazione alle minacce endogene, e sulla – tutta americana – misantropia paranoide. Coscarelli però le butta lì senza darci troppo peso, e si riconferma soprattutto un signor regista, con un film che – oltre a tutto ciò – trasuda passione per il genere, lo onora e lo ringrazia, e già che c’è, ci mette strizza. Bravo.

Manderlay
di Lars von Trier, 2005

[e ora qualcosa di completamente diverso]

Manca l’effetto sorpresa dell’illustre precedente, ma Manderlay, in tutti i sensi il sequel di Dogville, più asciutto ma con molto più spessore, con ingegno e senza colpi bassi, convince eccome. Tutto sommato è come andare a teatro, ma Von Trier gioca e si sposta con naturalezza tra mezzo teatrale e mezzo cinematografico, rinuncia al gioco ostentato dell’allestimento scenico particolare (la gente non passa più il tempo a far finta di bussare toc toc come le bimbe che giocano alle signore). Le scenografie diventano mappe e, come in tutte le mappe, le cose più piccole rimandano ad altre più grandi, ma Von Trier non potrebbe essere più esplicito nel lanciare i suoi anatemi verso quel Paese dove non è mai stato: i titoli di coda rendono la vicenda prettamente "americana"; se non ci fossero, se ci si mantenesse in un ambito più universale, preferirei. Rimangono un paio di dubbi sul senso dell’intera operazione – il timore che anche noi, il pubblico, siamo al centro di un gioco da tavolo. E ci manca Nicole Kidman.

(da Fringe, Gokachu, Ohdaesu, Stranestorie)


[e ora, il post vero*]


Manderlay
di Lars von Trier, 2005

L’atteso seguito di Dogville, atteso persino da chi come me – e come ben si sa – ha una feroce antipatia per il "maestro" danese, è proprio bello. Trier mi ha smarcato dove pensavo (e speravo) di poterlo atterrare in tackle, mi ha sgamato proprio dove pensavo di coglierlo io, con le mani in saccoccia. E invece no, diavolaccio: Manderlay non è più un giochino perfido e intelligente, non ribadisce in modo stantio tutti gli espedienti scenico-furbetti che erano reiterati con puntigliosa coerenza nel (bel) film del 2003, ma li usa come base filmica per un film – nonostante ovviamente manchi lo shock della prima volta – ben più profondo.

Un film che va a scavare nelle coscienze del popolo americano, che parla senza pudori delle nostre contraddizioni più innate, vergonose e dolorosamente umane, che ancora una volta dà una lezione preziosa di sintesi, e che sa – più che in Dogville – anche dar piacere alla retina: inizio e finale whoa!, campi lunghi folgoranti, una carrellata verso l’alto (da una piccola tomba) da sudori freddi, una scena di sesso che non dimenticheremo facilmente, e via dicendo. Ci piace, insomma.

Sono pronto a una piena rivalutazione cultuale dello zio Lars? No. Per alcune precise ragioni. Primo, non sopporto la voce supponente fuoricampo di questo, come del’ultracitato altro.  Sarà il doppiaggio, ma con la forma-romanzo qui si esagera. Secondo, sono ancora convinto dell’incapacità registica di Von Trier: me lo vedo che sistema disperato in postproduzione le cafonate che ha fatto sul set. Altro che jump-cut teorico. Terzo, l’ho dimenticato. Quarto: forse due bastavano, e per quando giungerà Wasington mi sarò stufato del modulo e chiederò altro, probabilmente non ottendendolo**. Quinto, la figlia di Ritchie è bella – brava – perfetta, ma cacchio se ci manca, Nicole Kidman.

[e ora, un uomo con tre natiche]


Note

*in realtà, il missaggio è il mio post vero, e rispecchia molto quello che penso del film. peccato che sia tutto un plagio. grazie ragazzi, vi adoro.

**in realtà non è quello che penso davvero, mi sto anzi (auto)convincendo che Wasington sarà un film talmente bello da sistemare i relativi problemi dei suoi predecessori, formando un’unica, grande, opera trilogica. Boh. Vedremo.

[meanwhile]

I Pinguini e Melissa, Fargo-bis e Niccol-speriamo-bene, Herzog e Sokurov per i duri-e-puri: in mezzo a una montagna di roba, esce domani nelle nostre sale anche l’ultimo film del newyorkese Abel Ferrara, coprodotto con capitali italiani e francesi. Si intitola Mary.

Il film è passato a Venezia, dove ho avuto l’occasione di vederlo, e da dove si è portato a casina il Gran Premio della Giuria. Strano: Mary è un pastrocchio confuso e irritante, affascinante per alcuni versi, ma tutto sommato una delle opere più irrisolte di Ferrara. Ripensando a film come Ms.45, Fratelli o The addiction, e nonostante non si arrivi al baratro di New rose hotel o Blackout, non posso che sconsigliarvelo. Se proprio dovete, confido per voi nella soggettività dei miei gusti.

In ogni caso, il mio breve post è qui, su Lidobloggers.

La comunidad
di Álex de la Iglesia, 2000

Svelato l’arcano: l’immagine del post precedente viene da qui.

La visione di Crimen Ferpecto mi ha spinto a recuperare qualcosa di un regista che avevo più volte accantonato. Idiota: per esempio, mi ero perso La Comunidad, una commedia nera, anzi nerissima, crudele, anzi sanguinaria, acida, anzi perfida.

Tutta ambientata in un condominio malandato e sozzo, con gran finale sui tetti di Madrid, la vicenda è – risaputamente – quella dei soldi che vengono trovati e che tutti vogliono, ma realizzata con una mano leggerissima nonostante gli omicidi, i corpi putrefatti, un corpo spezzato in due da un ascensore (!), con belle musiche hermanniane a manetta, grassissime risate e un sopraffino uso del citazionismo e del deja-vu. Bello davvero.

E il tono caustico di Iglesia non è solo per questo branco di avidi e assatanati madrileni: "l’animale più feroce è il denaro", dice un documentario alla tv. E come si ripete stesso, siamo tutti così, tutti. Carmen Maura in grazia di Dio, anche a 55 anni nuda sotto la doccia. Eduardo Antuña, mammone subnormale che butta i soldi delle commissioni nella madre con i videopoker, e si masturba vestito da Darth Vader e spiando la Maura, gemendo "Sento la forza!", è un colpo al cuore.

Crash – Contatto fisico (Crash)
di Paul Haggis, 2004

In poche ore a Los Angeles si incrociano i destini di un trafilone di personaggi, divisi dall’etnia e dai rapporti di potere, e accomunati da dolori che esplodono in un attimo, all’interno di una città che sembra stia per scoppiare anch’essa. E’ facile tirare fuori i nomi, e nemmeno ingiustificatamente: Altman e Anderson, Inarritu e Tarantino, e chi più ne ha più ne metta. Il meccanismo è quindi, anche se complesso, ben oliato. Ma siamo sicuri che basti ribadirlo per creare un racconto corale?

Ma la questione è un’altra: è il manicheismo del film a non convincere del tutto. Manicheismo a doppia mandata, certo. La struttura può essere semplificata così: tutti hanno una lezione da imparare, e allo stesso tempo una lezione da insegnare. Tutto qui. Non ci sono quindi buoni contro cattivi, ci sono bensì persone buone e cattive. Ma non ci sono nemmeno vie di mezzo tra l’essere vittima immolata e spietato carnefice. Mancano tutti i mezzi toni, e la sensazione potrebbe sfociare nell’eccesso ridicolo (il film è decisamente troppo breve per la carne che mette al fuoco) se non fosse per il bilanciamento dato dalla sceneggiatura.

Non che sia tutt’oro in fase di scrittura: se Crash non è di sicuro un film verboso (e ringraziamo di cuore) è di sicuro un film urlato. Cosa che può irritare facilmente, e lo fa. Ma è anche politicamente coraggioso, spavaldo, esplicito: ne facessero di più, di dialoghi così. Rende perfettamente l’idea-base del film fin dal titolo, quella di una città-mondo in cui, paradossalmente, il solo valore per combattere il caos e la confusione dei mille corpi che si passano accanto senza toccarsi sia appunto l’interazione micro, peer to peer potremmo dire, il contatto, anche se scioccante come un crash. Anzi, solo se scioccante e violento, solo se in condizioni traumatiche. D’altra parte, la forza distruttiva (e poi costruttiva) dello script non è ben accompagnata da una regia adeguata. Sembra strano: a volte manca il cinema, a volte ve n’è fin troppo.

Si intenda, non si può dire che sia un brutto film. Sarebbe inappropriato, persino forzato. E’ anche un film che si farebbe rivedere volentieri. Ma prendiamo ad esempio la massima scena-madre del film, quella del secondo incontro tra Dillon e la Newton: emoziona, turba, commuove. Uno sguardo indietro, un perdono con la coda dell’occhio. Straordinario. Allo stesso tempo, non possiamo che osservare quanto la suddetta scena sia costruita in un modo che stride con l’intensità del momento. Succede anche in altre belle sequenze (quella dello scudo antiproiettili, per dirne una). Uno sguardo derivato e impreciso, grezzo e furbetto, che fa sognare che Haggis torni a scrivere per qualcun altro. Che so, per Michael Mann, che sulla città aveva detto molto di più con due, due soli, personaggi.

Un film con innegabili luci e con tante ombre, e posta la difficoltà affrontata per scrivere qualche riga su di esso, chiudo con un meritato elogio per gli attori. Tutti bravissimi, sia le conferme (Matt Dillon, Don Cheadle, la bella-quanto-brava Thandie Newton), sia quelli che non ci aspettavamo e ci hanno sorpreso (Ryan Philippe, Sandra Bullock), senza dimenticare Michael Peña. Un cast favoloso insomma, e per una volta non banale. Da godere, magari, in lingua originale: altrimenti che senso ha tesserne tanto le lodi?