giugno 2006

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L’amore sospetto
(La moustache)

di Emmanuel Carrère, 2005

La moustache, tratto da un romanzo dello stesso Carrère, parte da un’idea davvero bizzarra ma terribilmente stimolante: Marc (un Vincent Lindon sospettoso – non mi viene altro termine, la sua sola espressione è quella, ma gli riesce bene) decide di tagliarsi i baffi per un vezzo, ma tutta la gente intorno a lui non nota la differenza, anzi, nega che lui li abbia mai avuti. Soprattutto la sua fidanzata, di cui comincia a dubitare, perché pur di non accettare la propria follia chiunque sospetterebbe prima di tutto degli altri. E i baffi sono solo l’inizio.

Pur trattando e rappresentando temi interessanti come – ovviamente – la perdita dell’identità e la ricerca esasperata dell’annullamento della stessa – i viaggi senza meta nei nonluoghi, qui i battelli aeroportuali di Hong Kong -, l’interesse maggiore del film è al livello delle strutture superficiali del racconto, che si sviluppa come una variazione quasi metanarrativa tutta giocata sul ribaltamento e la forzatura della forma retorica del punto di vista.

Condividendo infatti in tutto e per tutto quello di Marc, anche nelle possibili visioni e paranoie, lo spettatore è altrettanto sperduto nel dubbio, e quando interviene la follia a chi guarda non resta che barcamenarsi come può tra passato e presente, sogno e realtà. Peccato che però tutto ciò si perda molto nella seconda parte, troppo occupata a tirare su metafore per non accorgersi che ci si annoia, e la senzazione è che nonostante la brevissima durata del film, giunto ad un certo punto Carrère avesse finito le idee per quello che sarebbe stato un bellissimo cortometraggio.

Si gusta con piacere e si dimentica al volo, come la realtà.

Un tantino fuorviante il titolo italiano, neh? Ma si sa, la francia è il paese dell’amore, ah, l’amour, e i francesi fanno solo film d’amore e si baciano con la lingua.

[vivere e morire a losanghe]

Sapevi che c’è un blog che ogni giovedì ti dice cosa esce al cinema
e quando possibile insulta gente come Luc Besson o Simon West?

Certo che sapevi.
Se non sapevi,
clicca qui. Se sapevi, idem.


Non che una cosa simile sia molto utile a fine Giugno, con i saldi,
ma domani escono almeno due film straordinari.

Se non sai quali siano e non riconosci le immagini,
o anche se lo sai e le riconosci,
VISITA
FRIDAY PREJUDICE, PERDIANA!

Ehi bambini, c’è la puntata di questa settimana!

Lo so che il titolo non c’entra niente, ma mi fa ridere.

[Le Parole dello Schermo 2006]

Tideland
di Terry Gilliam, 2005

C’è una parola inglese, facilmente traducibile in italiano ma che nella nostra lingua non rende abbastanza bene, che meglio esprime il sentimento provato durante e soprattutto dopo la visione dell’ultimo film di Terry Gilliam. Premesso necessariamente che chi vi scrive è un fan accanito e che ho trovato I Fratelli Grimm un film divertente e molto riuscito, la parola che balena nella mente immediatamente è una sola: disappointment.

Tideland non è solo un film brutto e noioso: è un film di Terry Gilliam brutto e noioso. Bisogna tenerne conto, subito. E tenendo anche conto che questo è il film che Gilliam si è pagato con i soldi dei Grimm, bisogna chiedersi seriamente se il regista americano abbia ancora qualcosa da dire all’esterno dei meccanismi dell’establishment hollywoodiano che critica sempre così veementemente (e giustamente, visto il modo in cui l’hanno sempre trattato). Forse non è il caso di piangere lacrime amare solo per un film sbagliato, perché un errore può capitare a tutti. Anche se – nel caso di questo film – è appunto un tale unicum su cui forse è meglio sorvolare e dimenticare in fretta. Insomma, Tideland sarà anche autoriale, coraggioso, e gilliamiano quanto volete, ma se per "gilliamiano" intendete "solo inquadrature sghembe + grandangoli + qualche intervento animato", allora io ho un altro termine per voi. Ed è maniera.

Venendo al film, si tratta di un testo di partenza probabilmente ottimo, sia nell’idea dell’immaginazione al potere che è anche al centro (in modo non del tutto dissimile) dell’ultimo Del Toro sia per il gusto del macabro e dell’orribile che lo caratterizza (estremo persino per i canoni di Gilliam), che però a sua volta, forse per colpa di un’eccessiva attenzione a non tradire lo spirito del libro e la sua "altezza-bambino", si riduce per gran parte della durata ad una serie interminabile di dialoghi tra Jodelle Ferland, insopportabile bambina canadese che nasconde il suo posh imitando il bellissimo accento del sud degli states, e le sue stramaledette teste di bambola che tiene sulle dita.

C’è un bell’inizio, durissimo, con la bimba undicenne che droga il padre e ruba il cioccolato alla madre morta, c’è qualche svolazzo onirico degno del miglior sguardo visionario di Gilliam, c’è un’idea corretta, crudele, e raccontata con un piglio appassionato, sulle responsabilità del mondo degli adulti nei confronti degli innocenti e sulla salvezza legata alla fantasia e soprattutto allo storytelling, che si sa, è un tema pregnante nel cinema di Gilliam. Sul resto, è bene fare più silenzio possibile. Perché Tideland ha degli input eccellenti ma i suoi output sono tutti sbagliati. Ecco, è un film tutto sbagliato, un film che bisognerebbe riprendere in mano e rifare daccapo, a partire dal montaggio. E poi magari togliere Brendan Fletcher e mettere un attore vero.

Poi sono sicuro che questo film troverà qualche sparuto ammiratore, anche se l’accoglienza finora è stata meno che disastrosa. Per quanto mi riguarda, mi sento invece tradito, profondamente tradito. Brutto. Ma brutto brutto brutto, eh.

My kung fu sweetheart (Yee maan bei kup)
di Wong Jing, 2006

Ben poche le cose da dire sull’ultima fatica di Wong Jing, uno dei più prolifici registi e produttori hongkonghesi, quello di God of gamblers, quello che ha scoperto e lanciato Stephen Chow e la sua cumpa. Purtroppo però in MKFS c’è la cumpa, quasi al completo, ma Chow aveva altri impegni, probabilmente con delle femmine.

Una commedia di arti marziali stupidina stupidotta che sembra essere uscita dalla Hong Kong di una volta, ma che – se la guardi da vicino – ti rendi conto che no, non è retrò, è vecchia. C’è una bella differenza. Quasi una reprise malriuscita di Kung Fu Mahjongg, che non ho visto, ma in ogni caso davvero bruttarello. Si salvano l’esaltante parodia di una celebre scena di The mission (sì, quella della pallina di carta), il falco donnaiolo fatto con un makeup degno del bagaglino, la presenza spassosa di Yuen Wah (il padrone di casa di Kung Fu Hustle, per capirci).

E poi ovviamente c’è Cecilia Cheung, che canta anche una canzoncina con la sua splendida voce rauca. Con Cecilia, ogni volta è come la prima volta: quasi ne varrebbe la pena solo per lei, ma anche no.

[perché, Terry, perché?]

Post in attesa

Hot movie (Date Movie)
di Aaron Seltzer, 2006

Dopo la sequela di parodie dell’horror conclusasi (per ora) con una specie di (mezzo) fallimento, un paio degli autori del primissimo Scary movie puntano probabilmente ad aprire una nuova sequela, questa volta prendendo di mira le commedie sentimentali. Beh speriamo di no, perché se Scary movie 4 era mediocre, Date Movie è persino peggio.

Le cause? Tra le tante cose, quella che dà più fastidio, e i cui sentori sono nell’aria da molto tempo, è l’universo di riferimento: targettizzato in modo molto preciso, è affine soprattutto alla insopportabile r’n'b generation e agli show seriali (e agli spot) di Mtv. Lo dimostrano la presenza di Lil Jon, la parodia di The Bachelor, la colonna sonora truzza. Ci tocca ammettere che la gag più gustosa (e anche quella più disgustosa) è la lunga parodia inattesa e farrellyana di Pimp my ride, con il game boy advance montato sulla pancia e il vasone di maionese, ma si sopporta giusto perché è all’inizio.

E poi: come si può accettare che 17 anni dopo si replichi ancora la parodia della scena dell’orgasmo di Harry ti presento Sally, e per di più in questo modo così cretino? E ancora: come si può pretendere che lo spoof di un film già di per sè comico e già di per sè insostenibile, qual è Meet the parents, che regge la struttura narrativa di quasi metà film, non sia insostenibile a sua volta? E inoltre: per quale motivo le gag devono essere sempre così trascinate, arrivando alla saturazione dei nervi dello spettatore che si alza dalla poltrona e urla "ok, ho capito, passa ad altro!", roba che in confronto Scary Movie 2 era scoppiettante? E infine, come si fa nonostante tutte queste lentezze e reiterazioni ad arrivare molto a fatica all’ora e mezza, o ad arrivarci solo con i titoli di coda più lunghi che la storia ricordi?

Ma poi è chiaro che si ride, qualche volta, quando si riesce a non provare imbarazzo. La parodia dello spot di Paris Hilton è prevedibile ma fa ridere (non è l’unica, comunque), Alyson Hanigan ce la mette tutta ed è deliziosa, la gag del brufolo rimanda alla mitica mega-eiaculazione di Scary movie, Sophie Monk è figa. Ma siamo alle solite: il solito Tony Cox, le solite scatologie (tipo il gatto che caga e scorreggia per cinque minuti: sai che ridere), i soliti overstatement (la tremenda parodia della Streisand), la solita gag su Michael Jackson, il cast tutto sbagliato (ridateci Charlie Sheen!).

Guardando le cose come stanno, e non badando alle grassissime ma poverissime risate fatte sulla battuta-simil-cult "This bachelor has a 12-inch cock", Date movie è davvero la degenerazione definitiva di un genere. Siamo ancora in attesa di un nuovo ZAZ.

Impressionante la lista dei film "spooffati": eccola.

[si noterà che non ho detto nulla sul titolo italiano. Oltre ad averne già parlato qui, lascio la parola al geniale e apocalittico commento di Hellbly]

"Dovremmo batterci tutti il petto e chiedere perdono per essere italiani. Non per il calcio, non per i reali, non per la tv e neppure per la politica: ma causa di quei 4 stronzi che hanno deciso di trasformare il titolo originale di questo film da DATE Movie a Hot Movie. Maledetti: siete la feccia dell’universo. Date Movie non sapeva abbastanza di film porno, la sostituzione con Hot e’ un’offesa indicibile e un sintomo di quanto le persone ”al comando” (in qualsiasi campo) reputino idioti gli italiani medi: sfortunatamente hanno ragione. Infatti, altro che federalismo, l’unico modo per sopravvivere sarebbe lasciarci annettere a qualche paese piu’ civilizzato e meno ignorante." (da questo post)

[italia sì, italia no]

"Finalmente ho fatto il ciucciotto"
Francesco Totti

"Gli italiani fanno schifo"
Francesco Speroni

Bio Zombie
di Wilson Yip, 1998

L’anno prima di firmare il bellisimo Bullets over summer, Yip si cimenta con quella che all’apparenza potrebbe sembrare una scemenza demenziale, ma che è qualcosa di profondamente diverso. Ovvero, il film inizia come una commedia sgangherata e scanzonata (con due attori che sembrano divertirsi molto a recitare la loro parte da small time crooks) mista ad elementi da orrore di serie B (le multinazionali che fabbricano zombie a scopi militari, roba così). Ma proprio quando pensi che il film sia un’operazione derivativa e post-jacksoniana dimenticabile in fretta, per alcuni versi davvero troppo grezza e facilona, il film prende una piega veramente horror. Nella seconda parte ma soprattutto negli ultimi 20 minuti, più o meno, il ritmo non lascia più nessuna tregua.

Non una parodia dello Zombi di Romero quindi, anche se il centro commerciale dentro cui è ambientato tutto il film è un evidentissimo omaggio, bensì un film in cui i generi si intrecciano, si incrociano, comunicano tra di loro. Difficile che un occhio psicologicamente poco preparato possa apprezzare il misto di comedy e terrore, figuriamoci il melò: il personaggio del cuoco-zombie innamorato della bellissima Angela Tong, oppure la sequenza inaspettata quanto struggente della morte di Sam Lee, sono le tipiche cose che Il Popolo Bue definirebbe "ridicole". Invece sono proprio questi capovolgimenti di fronte a dare valore al film, come il finale apocalittico (quello sì, romeriano), o il linguaggio dei videogiochi che entra a spallate all’interno dell’inquadratura, oppure i molti momenti in cui quasi non si capisce più che film si sta guardando, e ci si limita a divertirsi.

Per tutto questo, è impossibile non pensare ad un modello, forse sintomatico, per Shaun of the dead. E anche se personalmente preferisco quest’ultimo, Bio Zombie è un film davvero sorprendente.

The king and the clown (Wang-ui Namja)
di Lee Jun-ik, 2005

Il cinema coreano sarà pur tra le cinematografie più interessanti e stimolanti del pianeta, ma il pubblico locale dimostra spesso di avere dei gusti abbastanza insondabili. A parte meraviglie come JSA o Welcome to Dongmakgol, non sempre i migliori film della stagione sono quelli più redditizi: basti pensare allo storico successo del pessimo Shiri, o al fatto che il cinema di Kim Ki-duk sia poco apprezzato e praticamente invisibile in patria (L’arco uscì in circa 3 sale per una settimana).

Caso eccellente è proprio The king and the clown, il campione di incasso storico dei botteghini della Corea del Sud: è il film coreano più visto in sala, nella storia di quel paese. Il problema è che il film di Lee, dramma storico-politico ambientato nel ’500 che si inserisce nel trend internazionalizzato – semplificando molto – delle storie d’amore omosessuali, e che vorrebbe avere premesse simili a quelle di Gohatto, nel confronto ci perde davvero la faccia e risulta inferiore persino a Brokeback mountain, soprattutto nella pessima gestione del melò.

I problemi del film sono poi molteplici, sia in fase di regia e fotografia, professionali ma terribilmente piatte, sia in fase di scrittura, dove più che altro alberga la noia, se non una trita banalità. Nonostante i temi trattati: più che una vera storia d’amore, il film suona come un’apologia piuttosto esplicita (fin troppo) della satira e dell’irriverenza nei confronti del potere. Una sorta di metafora anacronistica, quindi, che rimanda ai sistemi di censura e forse – nell’interpretazione un po’ elementare di Jeong Jin-yeong, sovrano folle e mitomane – alla figura del dittatore nordcoreano Kim Jong-Il.

In definitiva però, la scarsa riuscita del film è applicabile in relazione all’enorme successo ottenuto nelle sale coreane (ottenuto anche grazie al passaparola, e a folle di ragazzini che andavano a vederlo e rivederlo più volte), perché il film di per sè non è nulla di eccessivamente disastroso. Anche se sbaglia gran parte del cast e persino gli intermezzi comici, potrebbe farsi ricordare per l’onestà intellettuale con cui affronta i suoi temi, davvero delicatissimi. Ne abbiamo davvero bisogno?

[suzioni]

Ciao, sono Kelly Garner, sono maggiorenne,
e recito in Thumbsucker, da domani in sala.

Thumbsucker è un film dove io succhio oggetti. Venite.

Due horror, un koreano remade, Sandra Bullock, cose inutili.

Su Friday Prejudice, cioè se clicchi qui, dannazione,
ti renderai conto che purtroppo è iniziata l’estate.

Pensate che ci tocca fare affidamento sui francesi.
Che tristezza.

Come probabilmente sapete o avrete notato, non sono riuscito a vedere The host di Bong Joon-ho, il "film del mostro grosso". Ma potevo esimermi dal partecipare, in linea con l’autoreferenzialità che da sempre ci contraddistingue, a questo spaventoso turbinare di cervelli orientofili?

Ecco dunque in regalo per voi carissimi una raccolta quanto più completa e potenzialmente dinamica di tutti i post che parlano del film The Host dopo le proiezioni alle rassegne di Cannes di Roma e Milano. Si accettano segnalazioni, anzi no, si pretendono. E ditelo a tutti i vostri amichetti.


[The Mostro Grosso Blog Aggregator]

(Al cinema non si mangia)
(Astorama café)
(Cangaceiro)
(CinemaDeserto)
(Cinemax)
(Haiku meccanico)
(Il topo modesto)
(Insegna provvisoria)
(L’edicola di Giopep)
(Miss Margot Tenenbaum)
(Russian roulette nei commenti)
(Soft Bulletin)
(The critic)
(Tomobiki Märchenland)

Ultraviolet
di Kurt Wimmer, 2006

Ultraviolet è un film in cui sostanzialmente succede che Milla Jovovich ammazza un sacco ma davvero un sacco di persone nei modi più disparati.

Punto. Il post potrebbe finire qui. Per la particolare ricchezza delle argomentazioni, propongo invece del solito noiosissimo post questa breve porzione di una chat avvenuta ieri tra il sottoscritto e il brillante blogger Andrea, altresì noto con il nickname di Andrea.

KEKKOZ - Hai visto Ultraviolet per caso? Volevo sapere la tua.
ANDREA -  Sìsì. E’ ORRENDO.
K - Ahah.
A – Ci speravo, cristo.
K – Io non lo so se l’ho trovato orrendo. Certo è bruttarello. Ma Wimmer continua a starmi simpatico, almeno ci prova. Non lo so.
A – Sì, ci si è impegnato un casino anche stavolta. Però boh. E’ un po’ inguardabile.
K - Non l’ho trovato immensamente osceno come Aeon Flux. Cioè, era COME aeon flux ma UN PELO meglio.
A - Sìsì, meglio sicuramente. Aeon flux è il male.
K - Mi aspettavo di peggio comunque. Forse siamo sulle due e mezzo (pallette, ndr).
A -  Io direi due. Considerando uno Aeon Flux.
K – Ahah. Alla fine non mi sono nemmeno annoiato, e lei è molto figa. Vabbè che sembra una pubblicità della Loreal. Ecco, la patina loreal è davvero tremenda.
A – Sì, ma anche gli effetti sono così così. Il pezzo sulle moto è terribile.
K – Beh, ma le scenografie pop non sono male. E’ una specie di inno alla bidimensionalità, pensa a tutte le scene coi fondali finti. Secondo me rovina tutto quel bambino del cazzo.
A – Ahahah. E’ brutto tutto, comunque.
K – Ma no dai povero Kurtino, cerchiamo di salvare qualcosa. Ti sei annoiato? No, credo.
A - Oddio, annoiato un pochino pochino sì.
K - Non è nemmeno kitsch però, è serissimo. Fa anche il maledetto melò. E questa continua a schiattare e resuscitare. La scena con i cinesi sul tetto, quella degli occhiali da sole, era la migliore. Ma l’avevamo già vista tipo due anni fa. E che cazzo.

Non finisce qui. Visto che Ultraviolet è probabilmente il film più maltrattato della storia del cinema recente dalla critica statunitense, propongo una spassosa selezione di autentiche perle regalateci dai colleghi USA. Scegliete voi la vostra favorita. Questa gente sì, che scrive.

"Uwe Boll would be proud of this movie"
James Berardinelli, REELVIEWS

"Wimmer ain’t no Cassavetes."
Jonathan Perry, BOSTON GLOBE

"It Is Truly Excrement On Celluloid."
Fiore Mastracci, OUTTAKES WITH FIORE

"Ultraviolet will be studied with great interest in the future – not for its quality or its artistic merit, but rather to discover how a turd like this was made."
Kevin Carr, 7M PICTURES

"It is apparently trying to say something about fear and terrorism, paranoia and racism. But it looks more like a shampoo commercial."
Christy Lemire, ASSOCIATED PRESS

"It’s well known that writer/director Kurt Wimmer hates movie critics. Ultraviolet is the reason why."
Brian Orndorf, FILMJERK.COM

"Anyway, we went to Ultraviolet so you won’t have to. It was awful. Next time you go, okay?"
Liz Braun, JAM! MOVIES

Enzo, domani a Palermo!
di Daniele Ciprì e Franco Maresco, 1999

Nel nostro paese non possono esistere, o meglio, non possono sopravvivere due autori come Ciprì e Maresco. Perché sono troppo intelligenti, sagaci, crudeli. I loro film da sempre vengono osannati da chi li guarda e disprezzati da chi li evita. Come i contrasti forti del loro bianco e nero, non ci sono vie di mezzo. Gente così la puoi solo amare, o volerla morta. E come il cinema di Ciprì e Maresco è un dono prezioso, così è un cinema che un pubblico che basa la propria idea di informazione culturale sui servizi lampo dei TG nazionali non potrà mai apprezzare. Perché non potrà mai vederlo.

Enzo, domani a Palermo! non fa ovviamente eccezione. Un documentario inaudito e geniale, ribaltato nella forma e nelle intenzioni, sperimentale nel ritmo e nel montaggio, un film "cinico", in tutti i sensi, perché anche Enzo Castagna, pilastro di una sorta di film commission palermitana casalinga e probabilmente collusa con la mafia, è trasformato dai due registi – insieme all’incredibile collaboratore e "attore" Saverio D’Amico – in uno dei loro "mostri", sbeffeggiato e coccolato al tempo stesso, come tutto il mondo di sussurri e grida che monta il palco sotto il suo balcone e canta per lui.

Il film, sotto sotto (ma nemmeno troppo) non è certo uno scherzo. Attraverso lunghe sequenze in cui sono solo i volti e i gesti a parlare per sé, "raccontati" da un onnipresente Dean Martin di sottofondo e da una bellissima fotografia fatta di naturalezze distorte e focali cortissime, quasi dimenticando Enzo Castagna e quella città aliena che è Palermo e che gli gira intorno, analizza e disseziona i meccanismi di una cultura "di strada", ma senza nemmeno il bisogno – e qui scatta il genio – di commentarla.

Per tempi comici (inconsci) la sequenza interminabile in cui Enzo cerca inutilmente di pronunciare le parole Canterbury e Pasolini è tra le cose più divertenti che vi possa capitare di vedere.

Tra gli illustri estimatori di questo piccolo grande film, Diderot ("uno dei vertici del loro filmografia, forse il loro capolavoro e di conseguenza il miglior film italiano degli anni ’90.") e ovviamente dm di Escualotis ("capolavoro assoluto della cinematografia italiana"), la cui segnalazione della versione scaricabile di Guardabassi e le cui continue e graditissime insistenze, mi hanno permesso di vederlo. Grazie.

Double dare
di Amanda Micheli, 2004

Questo film è la mia prima completa esperienza cinefila con la streaming television. Infatti ho visto questo film sul canale HBO Asia grazie al programma TvAnts. Con il pc collegato alla tv, la qualità è davvero più che discreta, c’è qualche scatto ogni tanto ma quelli sono problemi miei, i sottotitoli cinesi non danno fastidio. Benvenuti nello strabenedetto futuro?


La leggendaria Jeannie Epper era la controfigura di Wonder Woman, è parte di una sterminata stirpe di stuntmen, e ora che ha passato i sessanta non vuole saperne di smettere di lavorare. Zoe Bell invece è giovane e carina-bruttina, ha fatto per anni il "doppio" di Xeena, e una volta finita la serie si è ritrovata disoccupata, ma ha un talento e una passione incredibili. L’incontro tra le due donne porterà ad un vero e proprio passaggio di testimone, e grazie all’aiuto di Jeannie, Zoe finisce a fare la contrifigura di quell’attrice in quel film di quel regista (che tra l’altro appare giusto il tempo di gesticolare un po’ e sfoggiare un’imbarazzante fascia da karateka sulla fronte).

Un bel documentario, uno di quelli che fanno affezionare ai personaggi, alle loro storie e al loro mondo, divertente e originale per come omaggia le stuntwomen, fenomeno laterale persino rispetto ad un mondo marginale come quello degli stuntmen, e che alla fine racconta la storia di un’amicizia tra due donne, e di una passione combattiva e necessaria, che non lascia indifferenti. La Micheli tiene un tono irresistibilmente ruffiano che non può non conquistare se non siete dei cinici sciovinisti del cazzo. Ma molto merito del successo del film va a Zoe Bell, nuova musa di questo blog. Spontanea e simpaticissima, è la migliore amica che avresti sempre voluto avere.

Il film è stato proiettato l’anno scorso ad Immaginaria, festival bolognese estremamente interessante, ma che io odio a morte perchè non entri se non hai la vagina e io non ho la vagina.

[Cannes a Milano]

Pan’s Labyrinth (El laberinto del fauno)
di Guillermo del Toro, 2006

Nelle ultime settimane, recuperando gran parte delle sue opere (edite e inedite), mi sono affezionato molto al regista messicano: dopo la visione di questo film, salta agli occhi il percorso nettamente ascendente fatto da Del Toro in tutti questi anni (prendendo in considerazione solo le sue opere ispanofone): dall’interessante Cronos, al commovente El espinazo del diablo  – in uscita a breve in Italia – fino a questo nuovo film. Che è probabilmente – per ora – il suo capolavoro.

El laberinto del fauno è un film talmente riuscito, bello e magico, completo e affascinante, anche al livello più superficiale ma soprattutto scavando al di sotto delle mille suggestioni prese dalla storia e dalla cultura popolare, che basterebbe dire questo. Insomma, un consiglio spassionato, o meglio appassionato, di fronte a cui ogni critica – succede anche nelle migliori famiglie – risulta fragile e pressoché inspiegabile. Ma a questo punto è il caso di dire qualche parola in più, perché se ne merita.

Una fiaba colta e citazionista (Goya da una parte, Fleming dall’altra): ma non ci si deve aspettare un film giocoso e puerile, né l’esplosione di buoni sentimenti che pure ben si appaierebbe con il tono sognante del film. Come si è visto nei suoi precedenti, nei film di Del Toro la gente muore. E se torna nel mondo è solo per compiere una vendetta. Nel suo universo non c’è troppo spazio per la speranza, e il lieto fine, quando c’è, è stemperato dalla disperazione del sacrificio e da un pianto ininterrotto quanto coinvolgente, e qui, in particolare, l’interesse morbosamente realista dimostrato dal regista nella rappresentazione della violenza rende l’opera tutt’altro che un racconto per ragazzi (anzi, è decisamente cruento) e conferma Del Toro come maestro di un cinema pessimista, nerissimo e disilluso.

Riprendendo l’ambientazione bellica spagnola degli anni ’40 e costruendo quindi una sorta di "complementare narrativo" di El espinazo del diablo (qui siamo nel covo dei franchisti, là in un rifugio di dissidenti), Del Toro vi inserisce però anche la sua vena più spettacolare, quella delle scenografie barocche e dei mostri grossi, con un enorme rospo affamato di blatte, una tenera mandragola emofaga, e un terribile saturno manovedente, realizzando un nuovo e meraviglioso affresco della "fantasia al potere" in un mondo in cui l’unica speranza può sopravvivere – al dolore, alla perdita, alla morte – soltanto nei sogni di una creatura innocente. Ci vuole del fegato, a fare dei finali così.
.
Certo, è "un film dove i tedeschi sono cattivi e i partigiani bellissimi e intelligentissimi", ma in una storia simile non si pretende certo che il male sia troppo sfaccettato. Anzi, è proprio la personificazione del male assoluto (favolistica anch’essa) che viene messa in scena attraverso la figura del Capitano Vidal – puro odio anche nei confronti di se stesso – a colpire al cuore più di tutto il resto. Oltre alla cura tecnica dei soliti collaboratori di Del Toro (gli splendidi quadri visivi di Guillermo Navarro e le musiche perfette di Javier Navarrete), e ovviamente alla prova decisiva della piccola Ivana Baquero.

Mostruosamente bello.


Giocano con noi Andrea, Astor, Ninja di Dio, Ohdaesu, Stranestorie, Violetta. Che cumpa.

Hooligans**
di Lexi Alexander, 2005

"Once you’ve taken a few punches and realize you’re not made of glass, you don’t feel alive unless you’re pushing yourself as far as you can go."

Non è così atroce come si prospettava, il primo lungometraggio della regista tedesca Lexi Alexander: certo, ci sono badilate di amicizia virile e profluvi di omoeroticità latente-ma-nemmeno-troppo, fiumi di scene madri strappaghiandole che in me trovano bersaglio facile, una moraletta tanto ambigua quanto esplicita (una voce off che dice "His life taught me there’s a time to stand your ground, and his death taught me there’s a time to walk away", che nemmeno Esopo, mi sembra davvero troppo), e soprattutto una quantità impressionante di botte. Ma davvero, botte da orbi. Tutto ciò farebbe pensare a una qualunque boiata da straight-to-dvd-please, se non fosse per la presenza potenzialmente commercializzante di Padron Frodo, peraltro perennemente lividomunito.

E invece la Alexander non butta proprio tutto al cesso, perché si vede in ogni scena che ci mette tutta se stessa, e perché il filmetto trasuda passione. Chiaro, vista la manona pesante con cui riprende i "duelli", con otturatori aperti a strafottere e un discreto talento caotico (vedasi le – poche ma ottime – scene di calcio) oltre ai fiottoni di sangue eccetera, quella grezzoncella della Alexander non è di sicuro la prima persona a cui chiederei un appuntamento al buio (semmai a Claire "sei inutile" Forlani, ovviamente bedda quanto inutile). Però il ritratto dell’americano sperduto le riesce davvero benino (anche se Charlie Hunnam è più bravo – e più figo – di Elijah Wood) e soprattutto presenta una storia in cui, catarsi individuale di questa fava a parte, va tutto ma proprio tutto nello stramaledetto peggiore dei modi. E ci garba il dramma sì violento e sì disperato, oh se ci garba.***
 

**il titolo originale è Hooligans, sostituito poi da Green Street nel Regno Unito e da Green Street Hooligans negli Stati Uniti

*** nonostante ciò, dopo aver visto gli ultimi due episodi di Prison Break tutta quest’ultima parte può essere sostituita dalla semplice frase "Hooligans è un film per fottute mammolette".

[I see you shiver with anticipation]

Questo blog domattina si sposterà al cinema Odeon di Milano per assistere alla proiezione di uno dei film più attesi dell’anno e probabilmente uno dei più belli. Hype alle stelle, in attesa del vero social event di Sabato.

Ad attendermi, oltre ai soliti lettori con gli striscioni, alcuni blogger dal nome altisonante – uno di loro fece già un post con questo stesso titolo, me ne scuso, l’occasione era ghiotta

E così, visto che domani mattina probabilmente uscirò di casa con il caffè ancora nell’esofago, il vostro amato Friday Prejudice, il vostro weekly blogghino preferito, l’unico blog di insulti cinepregiudiziali, il blog con le pecore, quello di cui non avete ancora parlato a tutti i vostri amici e familiari durante i vostri lauti pranzetti, esce con qualche ora di anticipo.

Anzi, è già uscito. In fondo, è già giovedì.

Su Friday prejudice, questa settimana,
un horror con Demi Moore e altri 10 film.

Ah, se sei uno di quegli odioso che leggono solo l’ultimo post, sappi che qui sotto ci sono ben quattro diversi post su film presenti in sala in questo periodo. Eh, magari ti era sfuggito.

Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti (Hoodwinked)
di Cory Edwards, 2005

Sembrava tanto imbecille, il titolo italiano, e invece suona solamente male: Hoodwinked qualcosa a che fare con I soliti sospetti ce l’ha, e non al livello più superficiale, ma proprio nella struttura. La fiaba di Cappuccetto Rosso viene infatti rielaborata, di fronte ad un impagabile ispettore-rana, dai suoi quattro protagonisti, ognuno dal suo punto di vista. Già sentita? Già.

Infatti Hoodwinked non inventa niente di nuovo, e arriva un tantino in ritardo su Shrek, e molto più in ritardo su Rashomon. [Non sono serio, eh]. Oltre a ciò, non stupisce, i disegni sono meno che decorosi (almeno nel contesto dell’animazione statunitense) e il grado di risate è spesso insufficiente visto il tono della narrazione. Però almeno, ed è una piacevole sorpresa, non ci si rifà solo all’universo della mtv generation e al contesto hollywoodiano post-matrix (anche se i duelli in bullet time ci sono, ahimé). Tra orsi bianchi snowboarder che dicono player hater, capre sotto incantesimo che fanno lo yodel, un favoloso lupo free lance dotato di una flemma deadpan non indifferente, Chazz Palminteri in guisa di pecora undercover, le idee non mancano affatto, e nessun riferimento (credo) a nessuna teen idol. Un ragazzino un po’ geek, me lo vedo, ci va a nozze con roba così.

Tanto che alla fine di quest’oretta e un quarto, striminzita ma che passa via abbastanza velocemente (un minuto di più sarebbe stato di troppo), e con tutti gli interiminabili limiti che il film ha (canzonacce comprese: "Critters have feelings too"?) ci si ritrova a pensarne bene. E quindi, forse a suo modo ha colto nel segno. Assurdo, vero?

Il personaggio di Twitchy, lo scoiattolo iperattivo, staccherebbe la testa di Scrat a morsichi e bocconi. Guardatelo solo per lui.

X-Men: Conflitto finale (X-Men: The last stand)
di Brett Ratner, 2006

Siamo d’accordo sul fatto che dal capitolo "finale" di una trilogia che, nonostante avesse regalato una buona dose di spasso nelle mani di Bryan Singer, era comunque imperfetta sotto molti punti di vista, con il "cambio di mano" non ci si possa aspettare più che del semplice, sano divertimento. Una volta detto tutto sulle molte metafore che il fumetto sollevava e che i film poi (con notevole fedeltà allo spirito originario) trasferivano sullo schermo, al signor Ratner, regista mediocre trovatosi in mano un baraccone tutto da montare, non rimaneva niente di che da dire.

Allora sì, ci si può anche divertire, ma le riserve sono moltissime: e in prima fila, il fatto appunto che non si diverta nemmeno così tanto. Ovvero, a parte il duello a casa Grey e il finalone esplosivo (due ovvi e bastardissimi finali a sorpresa a parte), dove l’energia e la professionalità di casa Marvel (e di casa Fox) gonfiano lo schermo, ci si annoia non poco. Non tanto per l’azione, che è sempre quella (il cambio di mano in questo caso non significa cambio di rotta come in altri casi, confermando le ormai scarse doti di quel mestierante da strapazzo del signor Singer), ma perché i personaggi non dicono davvero nulla, e il tutto si perde in una finta coralità fatta di scenette appiccicate (e appiccicose), nell’attesa che Wolverine tiri fuori ancora gli artigli. Se i conflitti in atto devono essere quelli psicologici di quel disadattato allucinante dell’uomo ghiaccio e di Anna "Rogue" Paquin (da fulcro del primo film a orrenda nullità in questo) che non possono trombare, allora stavamo meglio quando stavamo peggio. O meglio, quando tutti gli altri stavano peggio, e si lamentavano perché i prodotti precedenti erano, appunto, "solo" divertenti. Questo è un film parrocchiale.

Insomma, nonostante Conflitto finale abbia già molti estimatori, vista la bellezza di Prison break (di cui Ratner è produttore esecutivo) ci si aspettava molto di più, magari qualcosa di cupo e apocalittico come sarà – look out: a prejudice! - Spiderman 3, non certo Kelsey Grammer che fa l’orsacchiotto blu in giacca e cravatta. Le aspettative sono state schiacciate quindi sotto il peso della banalità, di personaggi e vicende dall’interesse quasi nullo, di una storia che – satelliti a parte – gira solo intorno a un buon personaggio, ma quasi invisibile e interpretato da quella tardona di Famke Janssen (sempre più simile a Patti Smith, o Iggy Pop, fate voi), e soprattutto delle peggiori punchline che si siano viste di recente: persino in un quasi-format come il super-heroes-movie, avvezzo alle tamarrate, roba come "Charles always wanted to build bridges" o "way to go, furball" fanno venire severi conati.

Scultissimo e cultissimo, insieme, il Juggernaut di Vinnie Jones.

Il calamaro e la balena (The squid and the whale)
di Noah Baumbach, 2005

Scritto e diretto dallo sceneggiatore di Steve Zissou sulla base di fatti autobiografici e ambientato negli anni ’80 a New York, The squid and the whale è un gran bel ritratto di una famiglia in frantumi, sulla scia della competitività professionale e interpersonale che lega a doppio filo – attraverso le note "lottizzazioni" sentimentali e psicologiche – i genitori con i figli, e sull’ovvio peso che le conseguenze di tutto ciò portano sulle spalle di questi ultimi.

Delicatissimo e intelligente, fieramente indie ma scritto con professionalità, colto ma senza troppa spocchia (il ricordo di À bout de souffle) , e impreziosito da un piccolo ma eccezionale cast (su di tutti la performance misuratissima eppure "passionale" di Jeff Daniels), il film di Baumbach riesce a stare attaccato a tutti e quattro i membri della famiglia Berkman, soffermandosi in particolar modo sul suo alter ego Walt, e raccontando la storia della sua esorcizzazione inconscia. Ma a rendere il tutto ancora migliore è una scelta, ben precisa, del suo autore: non insistere mai sulle scene-madri, non indugiare sul melodramma, spezzando invece tutti i climax. Come un nuovo Wes Anderson (qui produttore), magari senza la sua arguzia ma anche senza alcuna maniera, e con freschezza e spontaneità.

Il film è poi difficile da spiegare senza banalizzare, perché è perlopiù fatto di piccole cose, frasi dette o non dette, frasi lasciate cadere, immagini, ricordi, rimpianti, Pink Floyd, partite di tennis, ma – nonostante la periodizzazione sia poco più che un pretesto – si riesce persino a dire qualcosa sugli anni ’80 e sulla famiglia americana, e senza sembrare fuori tempo massimo. E la cosa più importante è che The squid and the whale – almeno, in lingua originale – fa piangere, fa piangere davvero. E appena finisce (è molto breve) vorresti che ricominciasse subito, daccapo. Tempo di asciugarsi le lacrime. Stop. Play.