ottobre 2006

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Little Miss Sunshine
di Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006

Frederick Nietzsche? You stopped talking because of Frederick Nietzsche? Far out.*

Non si può essere sempre distaccati nell’esprimere la propria opinione su un film: per esempio, l’operetta sundanciana dei coniugi Dayton avrà pure tutte le sue qualità se ha ottenuto una tale quantità di commenti stracciacapelli in giro per il mondo (quasi impossibile trovare una recensione USA negativa), ma dal canto mio ci passo un po’ sopra, e posso dire solo che Little Miss Sunshine mi ha rovinato la serata. E non era colpa del mio umore: sono entrato al cinema di buonumore e ne sono uscito di malumore. Non è mica da tutti.

Ma Little Miss Sunshine le caratteristiche per piacere le ha proprio tutte, è tanto delicato, tenero e premuroso, e ci sono un sacco di persone bizzarre e/o dolci che fanno cose buffe e/o imbarazzanti. Via, è persino meno piacione di quanto pensavo: tipo, il balletto nel baraccone finale dei piccoli mostri umani è davvero ottimo, e le scene dei clacson e dei porno sono spassose. Ma tolti i momenti riusciti – pochetti: probabilmente sono le prime scene che Michael Arndt ha scritto – è tutto dannatamente irritante, dal nonno che dice le parolacce e gli vogliamo tanto bene, al padre rompipalle ma risoluto e gli vogliamo tanto bene, a una Toni Collette sacrificatissima (ma le vogliamo tanto bene), ai figli complessati e bruttini che si parlano con gli abbracci, alla tizia orrenda che rifà paro paro (mossa sleale ma controproducente) il suo ruolo in Donnie Darko. Steve Carell invece è talmente bravo che non volevo nemmeno scrivere il suo nome. Ma se è per quello, non volevo nemmeno scrivere questo post, fate voi.

Forse il problema principale è che quando fa sorridere gli va proprio di lusso. Si assiste al film perlopiù con il tipico ghigno in cui il naso si storce e una narice si allarga, se non entrambe. E’ il ghigno di chi dovrebbe sorridere ma gli angoli della bocca si ribellano perché proprio non ce la fanno. E di più non so nemmeno dire, perché sto già lavorando di rimozione.

Ma ehi, lettore: vedrai che Little Miss Sunshine ti piacerà. Non è poi così male, certo che è carino carino. Che importa in fondo se è un pacco clamoroso? E poi è stratogenerazionale, ce n’è per tutti. Mi viene in mente il personaggio di James Fleet in Quattro matrimoni e un funerale, quando dice che nel suo discorso da testimone di nozze "ce ne sarà un po’ per tutti: risate, lacrime, ah". Ecco, il film è così. E io sono il padre della sposa che se ne va incazzato a morte.

Poi, qualcuno alla Fox mi spiega come mai c’erano i Flaming Lips nel trailer, e nel film no? Spiegatemelo. Indie-targetizzazione? Rimanendo in tema: Chicago di Sufjan Stevens buttata lì così – in una scena che sembra montata a random per farci stare quel pezzetto di canzone – mi è sembrata persino una cattiveria.

* ecco, qui ho riso.

[el pube è un pilota]

Visto che negli ultimi giorni ho messo un po’ da parte la "cinefilia standard" e non ho fatto altro che vedere pilot, vi porgo gentilmente qualche piccola anticipazione, per una volta "postgiudiziale", su alcune serie che sono cominciate da poco negli USA. Questa non è, e non vuole essere assolutamente, una guida esaustiva alla nuova stagione televisiva americana, perché mancano davvero molte cose (alcune delle quali ho evitato, mentre altre devono ancora iniziare), ma spero di recare comunque un discreto servizio a lor signori. Orsù, si va a cominciare.

Eureka
Sci-Fi Channel

Un poliziotto di città finisce per sbaglio insieme a quella ribelle di sua figlia in una piccola cittadina di provincia. Che in realtà è una copertura per "Eureka", centro tecnologico voluto da Einstein nel secondo dopoguerra per isolare le più grandi menti della nazione e far progredire la scienza: la cittadina è quindi abitata solo da cervelloni. La forza di Eureka, che conquista subito per la freschezza e la piacevolezza di scrittura e messa in scena, non sta nei rimandi televisivi, cinematografici e tecnologici, né nella ricchezza scenografica (che per la verità a volte sacrifica la resa artistica). La verità è che Eureka, nonostante i soliti intrighi e le verità da scoprire episodio dopo episodio, non si prende mai troppo sul serio. E a volte fa sganasciare dalle risate. Tutto merito di Colin Ferguson, verrebbe da dire, e non a torto: e chi l’avrebbe detto, con quella faccia.

Heroes
NBC

Prendete un X-man di Bryan Singer a caso. Che so, la Rogue di Anna Paquin. Prendete il Clark di Smallville. Prendete, che so, il Bruce Willis di Unbreakable, o il Peter Parker di Sam Raimi. Ecco, Heroes non racconta nulla di nuovo rispetto alle tendenze più radicate nel recente cinema superomistico americano. Anzi, ci si infila alla perfezione, non senza malizia, e furbizia. Eppure la nuova serie del Tim Kring di Crossing Jordan potrebbe diventare una delle più disperatamente "additive" della nuova stagione: perché il pilota avrà pure dei momenti di calo, qualche piccola banalità, i soliti incroci del caso (anche qui a New York come in Six Degrees) l’insopportabile Sendhil Ramamurthy, ma ha anche e soprattutto momenti di grande tensione ed emozione, e i personaggi ti si infilano subito in testa. Sì, credo proprio che lo seguirò. Da segnalare la sequenza in cui la bellissima diciassettenne Hayden Panettiere (ehi, siamo italoamericane, baby?) sperimenta la scoperta dei suoi poteri, e noi con lei attraverso l’occhio fenomenico di una videocamera. Uau.

Jericho
CBS

Bombe atomiche scoppiano sulle città americane: la cittadina di Jericho affronta l’emergenza nell’isolamento più totale: gli ultimi uomini sulla Terra? Ma diamine: sulla carta, Jericho poteva essere la vera bomba televisiva della stagione: e invece a quanto pare non è così. Intendiamoci: lo spettacolo non manca, il pilota si fa guardare senza annoiare troppo, c’è pure Gerald McRaney. Ma qui siamo ancora fermi a The day after, le paure della gente (di provincia e non solo) sono sempre quelle, e quando pensi che ci sarà un assalto al drugstore e al benzinaio seguiti da un bel po’ di retorica communityaria, oh toh, c’è proprio ma proprio tutto questo. Gli si dà un’altra possibità, forse due, poi però basta eh.

Men in trees
ABC

Una relationship coach scopre i tradimenti del futuro marito e si ritrova in Alaska (Northern Exposure? Nah.) dove ci sono solo praticamente uomini, e non propriamente il tipo di uomini che lei conosce e su cui ha costruito la sua carriera. Forse non sapeva proprio niente degli uomini: è il caso di imparare. E forse se avessi saputo prima la trama non era il caso di provare, ma ormai. No, Men in trees non fa per me, le sexandthecitiche questioni legate all’autoanalisi femminile non riescono a conquistarmi: mi rendo conto che forse non faccio parte del target di questa serie, boh, sarà che ho il pene, ma come posso perdonare uno dei momenti cinetelevisivi più ruffiani (un abito da sposa gettato da un burrone) che io ricordi di aver mai visto nella mia vita e in tutte le mie vite precedenti? Però vi avverto: Anne Heche è bravissima anche da etero, lo script è davvero professionale, e la colonna sonora (c’è anche Gone Daddy Gone) è ottima e anch’essa ruffianissima. Via, sono sicuro che a qualcuno di voi basterà.

Six degrees
ABC

Sapete cosa sono i sei gradi di separazione, vero? Se avete visto il delizioso film di Fred Schepisi lo sapete, sennò informatevi. Comunque, visto che le parole caso e destino sembrano essersi stampate irreparabilmente nelle capocce di tutti gli sceneggiatori americani, sapete già che anche qui ci saranno persone e vite che si incontrano e si scontrano. Che novità. E a New York, pensa te. Una serie incredibilmente modaiola (c’è il macguffin della scatoletta di legno, l’internet dating, la guerra in Iraq), ma che azzecca in pieno e in modo assolutamente perfetto due o tre situazioni e personaggi (il fotografo di Campbell Scott e quella bonazza di Erika Christiensen hanno un potenziale enorme), e che, ho paura, mi costringerà a starle dietro fino a che morte non ci separi. Se lo abbandonassi e diventasse davvero figo come-vorrebbe-essere non me lo perdonerei mai. Ah, non fatevi ingannare: J.J. Abrams è solo produttore esecutivo.

Standoff
Fox

Una coppia di negoziatori di ostaggi, che – ahiloro, non si fa – vanno pure a letto insieme. Un ostaggio per ogni puntata (uff), in un miscuglio di thriller e commedia sentimentale: se dovessi fare un paragone con quello che si è visto l’anno passato, penserei a Numb3rs. E infatti – come con Numb3rs – ho già deciso di mollare Standoff abbastanza in fretta. Sinceramente: al di là della bravura dei due protagonisti e della buona realizzazione tecnica, non è niente di che, non è niente di nuovo, non è niente di particolarmente interessante. Varrebbe la pena solo per vedere e rivedere Rosemarie DeWitt, che ho già personalmente eletto "moglie ideale in un serial 2006/2007", ma non credo che basti. Via, non ho tutto questo tempo.

Studio 60 on the Sunset Strip
NBC

Il regista di uno show televisivo (che sembra Saturday Night Live) dà in escandescenze in diretta mettendosi contro la degenerazione della televisione americana: ai vertici dell’emittente, una cinica vp decide di approffitarne, a suo modo. Ed eccola qui, la vera bomba della nuova stagione tv americana: la crew di West Wing (adorato da tutti, purtroppo da me sconosciuto) porta in tv un prodotto di gran classe, cupo, disilluso, ironico, con un cast eccezionale (bentornato, Mattew Perry), dialoghi fenomenali, e una regia impeccabile. Non c’è molto da dire: se è tutta come il pilota, questo è proprio amore.

The class
CBS

Generalmente mi tengo a distanza dalle multiple-camera sitcom, tanto più se con le risate preregistrate: ne vediamo già tante, tantissime, troppe, qui da noi. Ma diavolo, sono pur sempre orfano di Friends, e ho bisogno di un paliativo. The class è stato creato dallo stesso autore, David Crane, proprio per questo motivo, e ci prova con tutte le forze. Va detto che non ci riesce del tutto, forse perché i personaggi sono poco più che macchiette. Però va detto anche che io ho visto i primi due episodi sghignazzando come un deficiente a bocca spalancata, e che non vedo l’ora di avere il terzo tra le mani per farmi altre quattro sghignazzate. E poi è breve, si può fare. Per Lizzy Caplan (segnatevela: bellissima e bravissima) si può fare questo ed altro.

Vanished
Fox

La moglie di un senatore scompare nel nulla: indaga l’agente speciale Graham Kelton, e ci metterà pure un botto di tempo. Minimo, una stagione. Anche perché la tizia in questione non era quello che diceva di essere. Credo. Mh. Dopo aver visto il pilota, mi ero convinto di aver trovato il nuovo Prison Break: una bella dose settimanale di conspiracy theory non fa mai male, e la mano fermissima di Mimi Leder rendeva il tutto ancora più eccitante. Dopo il secondo episodio invece mi ero già completamente disinteressato alla faccenda. E non è un complimento. Però, grazie alla collaudatissima formula "interrompiamo ogni cazzo di puntata con un cazzo di colpo di scena", probabilmente lo seguirò. Perché la curiosità è femmina, e io sono femmina dentro. Ma potrei anche leggermi le trame, che è uguale. Il problema in realtà è uno, ma grosso come una dannata Australia: Gale Harold, con quella faccia, non si può guardare. Non si può proprio guardare.