[openly gator]
V’è il nuovo episodio di Friday Prejudice, se clicchi qui.
Il titolo lo capisco solo io, ma vi garantisco che fa ridere.
[openly gator]
V’è il nuovo episodio di Friday Prejudice, se clicchi qui.
Il titolo lo capisco solo io, ma vi garantisco che fa ridere.
[a grande richiesta]
Contenti?
Per Friday Prejudice invece dovrete aspettare qualche ora, la giornata è alquanto cazzuta e stavolta non li ho preparati prima. A più tardi.
Transformers
di Michael Bay, 2007
Sono andato a vedere Transformers nel primo giorno della sua programmazione, approfittando di un’anteprima: ho pensato che se non l’avessi visto subito poi probabilmente l’avrei perso del tutto (come è già successo più volte quest’anno) ed ero sinceramente curioso. Questo per far capire che, nonostante il disprezzo per Bay e per il suo cinema, e nonostante i Transformers non fossero tra i miti della mia infanzia, tutto sommato volevo vedere Transformers, e non solo per poi ritrovarmi da queste parti per demolirlo. Anzi.
Invece Transformers è un’autentica fregatura, a meno che non si voglia intendere l’intera operazione come un "grado zero" del racconto fantascientifico, asciugato fino a lasciare in campo il Mero Stereotipo, magari da rileggere in senso ironico. Ma da una sceneggiatura che propone (per dirne una) dei personaggi femminili del genere, posso, devo solo credere che questa sia solo deficienza. Scaltrezza forse, ma non intelligenza. E’ l’ipotesi migliore, ve lo assicuro. E mi fermo a esse, senza tirar dentro i militari, i politici, i borghesi, i ragazzi cattivi, le marchette, i peggiori primi 15 minuti di sempre, eccetera: l’elenco includerebbe forse l’intero genere umano. Bay riconferma insomma la totale inettitudine che ha sempre accompagnato la sua carriera, anche se esule dal controllo creativo di Jerry Bruckheimer, tralasciando peraltro anche quei rari eventi neuronali che persino un filmaccio come Armageddon conteneva.
Eppure, nonostante ciò, le reazioni si sono mosse da un’entusiasmo più o meno soffocato fino ad un più generale "perdono" in nome di un "divertimento puro" – che, sinceramente, io non ho trovato. Perché anche i combattimenti e le scene d’azione, tolta l’ultimissima parte del film – effettivamente piuttosto spassosa, a tratti – sono confuse, rumorose, caotiche, "overproduced": un tratto che accomuna molto cinema brukheimeriano (o post-brukheimeriano), e che è approssimativamente il contrario di ciò che vorrei vedere in una scena d’azione. E comunque, la faciloneria del tutto e l’imbarazzo della pessima sceneggiatura (per dirne una anche qui, va bene che la prospettiva è l’umanesimo spielberghiano, ma mettere gli umani al centro dell’azione invece che lasciarli in balia di una guerra che non li riguarda è davvero un colpo bassissimo) non aiutano di certo lo spettatore a godersi lo spettacolino.
Cosa vi passo? Che l’interazione tra elementi digitali e reali è impressionante, quasi miracolosa. Che gli aspetti sonori dei mostri grossi hanno un fascino inquietante. Che Shia Le Bouf è molto bravo, o meglio, è circa l’unica cosa davvero salvabile della prima ora e mezza (forse due) di film. Che il tocco più autenticamente spielberghiano del film, ovvero l’amicizia tra Sam e il puccissimo Bumblebee, ennesimo ET di una lunghisima tradizione di repliche, è più che azzeccato. Che gli interventi farseschi (tipo il nascondino) strappano qualche risatina a denti stretti (ma non sono sicuro che sia un complimento, anzi). Che Optimus Prime è fico, fichissimo.
Nonostante tutto ciò, o forse anche per questo (che fa trasparire molto vagamente cosa il film sarebbe potuto essere in mano a qualcun altro, soprattutto in mano ad altri sceneggiatori), Transformers mi sembra proprio la quintessenza di tutto il cinema che da queste parti (nella mia casetta ormai rimasta solitaria di fronte a questo inspiegabile accesso di entusiasmo globale e a questa sindrome di Peter Pan dilagante e accecante), abbiamo sempre combattuto strenuamente, e con tutte le nostre forze.
Un cinema nocivo, che confonde l’ingenuità con l’imbecillità, che simula autoironia ma che arriva al massimo alla più vuota autoreferenzialità, che lascia tutti i pezzi forti sul fondo della bottiglia cercando di far dimenticare quanto il vino contenuto del collo sapesse di tappo. O di aceto. O di cacca. E a quanto pare ci riesce. O forse sono io, ad essere irrimediabilmente invecchiato.
[it's galà!]
Mentre voialtri vivevate sicuri nelle vostre tiepide case, è finita la stagione di Seconda Visione, la trasmissione di "cinema, sciocchezze e pretese culturali" di Radio Città del Capo, e ovviamente l’ha fatto in grande stile, con il consueto Gran Galà di Seconda Visione, svoltosi Martedì 26 Giugno.
Ricchi premi, ospiti importanti, grasse risate, musica, e soprattutto i tre bellissimi conduttori.
Qui le nomination, qui i premi.
(per i pigri: il Cesso d’Oro l’ha vinto Babel)
Qui la puntata in mp3, qui l’archivio, qui il podcast, qui (addirittura) un estratto video.
(e sì, anche quest’anno c’è la mia inquietante vociaccia che si esprime malamente sui migliori e peggiori film della stagione, ma fate finta di niente, per cortesia)
24 hour party people
di Michael Winterbottom, 2002
Con un modello simile a quello che formerà Tristram Shandy tre anni più tardi (infatti lo sceneggiatore è il medesimo, Frank Cottrell Boyce), Winterbottom racconta vent’anni di scena musicale manchesteriana lungo tre decenni, uniti dalla presenza costante del producer Tony Wilson – che se nel film di Corbijn è paternalisticamente interpretato da Craig Parkinson, qui ha il volto geniale e strafottente di Steve Coogan, che ne aveva già fatto una sorta di parodia con il suo celebre Alan Partridge televisivo.
Cominciando dal leggendario concerto dei Sex Pistols al Lesser Free Trade Hall, si passa dal Factory in cui suonavano i Joy Division negli anni ’70, alla Hacienda in cui impazzavano New Order e Happy Mondays negli anni ’80, fino alla nascita della Rave Culture e oltre. Il tutto condito dalle interpretazioni e apparizioni di quasi tutti i migliori attori inglesi degli ultimi anni (ci sono anche Christopher Eccleston e Simon Pegg seminascosti, mentre John "Sam Tyler" Simm canta una versione acustica di Blue Monday davvero strappamutande) in un’irresistibile sarabanda di musica, cinema, meta-cinema, cinema-concerto, documentary, mockumentary, e il frullato di tutto questo.
Forse è un film che per una quantità di ragioni è difficile prendere troppo sul serio: ma tanto meglio, se alla fine riesce a ritrarre così bene le complesse vicende della scena di Manchester, abbozzandone solo i tratti essenziali, mescolando realtà e leggenda metropolitana, azzeccando persino i tratti più malinconici e/o assurdi, e riuscendo anche in questo caso a non svaccare nel mero calderone postmoderno in cui ci sta bene tutto e si mescolano i linguaggi tanto perché suona bene e fa figo. E ci voleva poco, pochissimo, a cascarci. Invece, se visto con lo spirito giusto, 24 hour party people è una delle cose più originali che vi possano capitare tra le mani, ed delle più divertenti.
Anche perché Winterbottom non ha troppi peli sulla lingua, si dimostra ancora un regista furioso e quasi incontrollato (almeno in apparenza) e si permette di "osare" in più di un’occasione. Ed è lì che diventa davvero irresistibile: i piccioni che si avventano sugli Happy Mondays con le valchirie di Wagner in sottofondo, Dio che si presenta nel finale a un fattissimo Wilson "a sua immagine e somiglianza", i camei dei veri protagonisti che vengono "svelati" tutti insieme nella seconda parte (contravvenendo a una regola "non scritta" del cameo stesso), cosette da niente come il vero Howard Devoto dei Buzzcocks che appare nel bagno dove l’attore che lo interpreta si sta scopando la moglie di Wilson vestito da lavacessi e commenta "Non mi ricordo proprio che questo sia mai accaduto". Da rotolarsi.