maggio 2008

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Iron Man, Jon Favreau, 2008

Iron Man
di Jon Favreau, 2008

Facciamo finta, pur non potendo o sapendo quanto sia pretestuoso e limitante, di poter dividere i comic-movie statunitensi in due file distinte, in cui, da una parte, troviamo i film con una spessa impronta personale, e dall’altra quella degli adattamenti volti al massimo dell’intrattenimento, più vicini a prospettive circensi che autoriali. In questo senso, possiamo sia dire con tutta tranquillità che Iron Man sia il miglior film tratto dal fumetto di Stan Lee e soci che potessimo sperare, e nella sua fila tra i migliori tout court. Ma – e qui sta la differenza, e il motivo per cui le distinzioni crollano – non solo perché è uno spasso davvero indicibile. Anche se già è stato difficile arrivare alla fine di questo paragrafo senza dire la parola "ficata".

Insomma, Iron man non è solo un baraccone come tutti gli altri altri, ma al contrario possiede un sacco di cosette importanti di cui altrove si sente la mancanza. Prima di tutto, una sceneggiatura vera, di ferro: scritta a otto mani, con dialoghi perfetti e degni di una screwball comedy. Secondo aspetto, e più rilevante, attori veri: in primis un Robert Downey Jr. al solito miracoloso, ma anche Jeff Bridges che sembra uscito fresco da una tavola degli Ultimate e l’adorabile Pepper Potts con cui Gwyneth Paltrow è tornata tutto d’un tratto nelle nostre grazie. Altra cosa, e non meno importante, una vera e decisiva scelta stilistica: quella di non tralasciare tutto il film che sta intorno alle scene action – queste ultime, da far risvegliare i morti. Facendo tesoro del loro substrato da commedia, Favreu e Downey trasformano le parti statiche della saga di Stark in una sorta di divertentissima pochade, con sequenze incredibili come quella cronenberghiana dell’operazione "allegro chirurgo" – e sul graditissimo alleggerimento di tutto il dualismo corpo/macchina attuato da Iron Man (fin dal titolo?) bisognerebbe scrivere un pezzo a parte.

Certo, con un attore come Downey, sbagliare del tutto era difficile: il suo Tony Stark, oltre agli ovvi aspetti personali che con lui condivide e su cui la stampa si sbizzarrisce fin troppo, è davvero un personaggio eccezionale proprio perché antitesi del modello marveliano riportato in auge dai Batman burtoniani e dagli Spiderman di Raimi. Ovvero, l’eroe compassato, il perdente alla rivalsa o il vincente demolito dai complessi. Invece il sotteso dilemma del geniale e spocchioso Tony Stark – che, va bene, è edipico pure qui – è secondario rispetto alla sua strabordante personalità: un tale abnorme narcisismo da ributtare alle ortiche tutte le manfrine sulla responsabilità civile dei propri poteri – che in un film così volutamente scoppiettante sarebbero stati fuori posto – con una chiusa, poi, da mettersi in piedi sulle poltrone e sbraitare.

Qualche paura dell’ultim’ora, nonostante l’acclamazione globale, c’era eccome: vuoi per la paura di un eccesso di hype, vuoi per l’inesperienza di Favreau, vuoi per un personaggio che avrebbe potuto raschiare nella peggio retorica patriottica e/o antimilitarista – qui lasciate del tutto a un funzionale secondo piano. E invece, guardate che roba. E invece, guardate che senso del ritmo, del racconto, che stile. E invece, lasciatemelo dire, guardate che ficata.

Rimanete fino alla fine dei titoli di coda. Fidatevi.

Teeth
di Mitchell Lichtenstein, 2007

E’ facile fare battute di spirito su un film che racconta di un’adolescente che scopre di avere la vagina dentata, lo è già meno determinare in che modo il film in questione riesca a cogliere pienamente nel segno – ed è il caso di Teeth. Perché il film d’esordio del figlio di Roy Lichtenstein (già attore, e non propriamente un ragazzino) è un’operetta piccola piccola ma davvero sorprendente, sia per il modo in cui è realizzato sia per i temi che solleva. E non sorprende affatto che abbia fatto parlare tanto di sé – nonostante sia un film prevedibilmente sundanciano, per molti versi – alla sua presentazione al Sundance nel 2007.

Oltre a essere infatti un film di genere molto riuscito, una sorta di timido slasher che gira intorno a fobie arcinote come lo stupro e la castrazione, ma costruito su un irresistibile miscuglio di gore e sarcasmo, cinismo e ironia (aiutato dall’enorme centrale nucleare iperrealista che incombe sui sobborghi dove è ambientata la storia), è anche una riflessione per nulla banale su un argomento che negli States è sempre molto caldo: ovvero, le lacune di educazione sessuale in contesti, spesso provinciali ma non solo, in cui è forte l’ingerenza del pensiero integralista – in questo caso, quello cattolico. Non un tema leggerissimo, quindi: ma affrontato con grande chiarezza e senso dell’umorismo.

Quello che ne esce è un film insieme divertente e sottilmente inquietante, schematico nella costruzione dei personaggi ma mai banale nella rappresentazione dei loro rapporti (quello tra Dawn e il fratellastro, per esempio), e dominato dalla performance-rivelazione, divertita ma impeccabile, della semi-esordiente ventiseienne Jess Weixler. Comunque sia, aspettatevi qualche brivido in più se avete (o se avete ancora) un pene tra le gambe, e un tifo sfegatato per la nostra sfortunata eroina in caso contrario.

Il DVD americano Regione1 sarà in vendita su Amazon tra poche ore.

E se volete anche voi una vagina dentata, accomodatevi.

Ne ha parlato anche hellbly.

Forever the moment (Woo-ri Saeng-ae Choi-go-eui Soon-gan)
di Lim Soon-rye, 2007

L’avete mai visto un film sulla pallamano? Ecco: io sì.

Da principio, ho visto Forever the moment (che circola anche con il titolo, altrettanto moscio, Our finest hour) per poter esordire in questo modo: tra gli sport meno cinematografici che si possano immaginare, la pallamano sullo schermo non ha nemmeno quella piccola tradizione che il calcio, per dirne un altro, prova da sempre a crearsi intorno senza risultato. Molti non sanno nemmeno che esista, la pallamano. E no, non si gioca in acqua. Quella è pallanuoto, e quello nella locandina è sudore.

Però, grazie alla mano della regista Lim Soon-rye, le avventure di alcune giocatrici ultratrentenni in cerca di una seconda rivalsa nel mondo competitivo e spietato di uno sport che nessuno si fila – si intuisce già dalle primissime inquadrature, e la cosa segna moltissimo il tono sempre disilluso dell’opera, ma anche un contesto in cui è dato per scontato che si lotti per sé stessi e non per la gloria – diventa un film che riesce a funzionare alla perfezione pur all’interno della sua programmatica medietà. Cinema emblematicamente vaginale – ma non per forza nella peggiore delle accezioni – Forever the moment non dice mezza parola che fuoriesca dallo steccato del film sportivo, ma mostra per tutte le sue due ore ottime intenzioni. Soprattutto, per dirne una, nell’ottima caratterizzazione dei personaggi.

Poi c’è tutto il resto, quelle cose che danno sempre una marcia in più al cinema medio coreano rispetto al cinema medio di altri paesi: come la confezione eccellente, il cast perfetto (tra cui un’autentica star come Moon So-ri, anche se la mia preferita è Kim Jeong-eun), e la capacità e il coraggio di saper mandare tutto in vacca quando è il caso – anche se qui è la realtà, e i fatti notissimi in patria a cui è ispirato il soggetto, ad aver dettato le regole.

Non del tutto memorabile, quindi: ma non c’è nemmeno alcun motivo per dimenticarsene.


Presentato all’ultimo Far East Film di Udine.