agosto 2008

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Ne le dis à personne, Guillaume Canet 2006

Ne le dis à personne (Tell no one)
di Guillaume Canet, 2006

Piccole stranezze della distribuzione nostrana: il lungometraggio di Canet, talentuoso attore francese, dietro la macchina da presa per la seconda volta, è uscito nel paese d’origine quasi due anni fa, nel Novembre 2006. Per poi conoscere nei mesi successivi un successo senza precedenti: quattro Cèsar (regia, attore, montaggio e musiche) all’inizio del 2007, distribuzione globale, persino una recente uscita limited nei teatri statunitensi che ha suscitato non pochi entusiasmi da parte della critica.

Ma che fine ha fatto, in Italia, Ne le dis à personne? Sorprende che, nonostante la facilità fraterna con cui accogliamo spesso e volentieri opere d’oltralpe che poi vengono tacciate di eccessiva "francesità", si sia dimenticato per strada questo thriller mozzafiato. Che, se non è il capolavoro da molti sbandierato (perché è troppo lungo, o meglio perché si dilunga troppo) è ben più che un titolo interessante. Soprattutto perché Canet, nonostante la scarsa esperienza, è proprio un regista sorprendente. Furibondo e insieme misurato: doverosamente egocentrico nello sfoggio di una tecnica notevole (come nelle lunghissime fughe a piedi della parte centrale), così come sa tirare fuori i muscoli quando è il momento, allo stesso modo sa mettersi da parte in caso contrario.

Il resto lo fa l’ottimo cast, François Cluzet in primis, e una storia che va a scavare nei segreti e nelle bugie senza però essere morbosa o torbida – e significativo di un interesse morale nella vicenda è il piccolo ruolo che Canet si è ritagliato nel suo stesso film. Ma Ne le dis à personne non è solo tesissimo e ricco di colpi di scena, grazie a una sceneggiatura tra le più intricate che io ricordi ma con un’intelligente e coesa doppia risoluzione, ma mostra con il suo straziante e romantico finale il coraggio di essere catartico solo a metà – macchiando con le lacrime di compromesso una felicità raggiunta con il sudore e con il sangue, a rischio della propria vita. Hai detto niente.

Se volete, il DVD doppio su Play.com ve lo tirano dietro.

Fighter, Natasha Arthy 2007

Fighter
di Natasha Arthy, 2007

Pensare al cinema danese contemporaneo come a una cinematografia che si confronta quasi esclusivamente con meccanismi del realismo sociale non è propriamente una prospettiva erronea. O almeno, seppur banalizzante, non è così lontana dalla realtà: se l’eredità del Dogma è estremamente sentita, ed escluso l’altisonante Lars Von Trier, i primi nomi che vengono in mente sono pur sempre quelli di Thomas Vinterberg, Susanne Bier, Anders Thomas Jensen. Fighter di Natasha Arthy rappresenta sia una via alternativa sia, allo stesso tempo, un’applicazione di questi stessi meccanismi a un genere del tutto diverso da quelli a cui ci ha abituati il cinema di quel paese – o almeno quello distribuito da noi: ovvero, il film adolescenziale – in danese, ungdomsfilm.

Il quinto film della regista trentanovenne, passata anch’ella dalle forche dogmatiche con il film #32 della serie Old, New, Borrowed and Blue, è infatti il tipico film sportivo che racconta di una giovane donzella che nell’affrontare la propria passione si deve scontrare con le incomprensioni e la chiusura mentale del suo gruppo etnico. Un po’ come Sognando Beckham, per capirci: solo un po’ più cupo e serio, al posto degli indiani ci sono i turchi, e al posto del calcio c’è il kung fu. E qui viene il bello: perché come ogni film sportivo che si rispetti, anche Fighter è costruito su una quantità di scene di combattimento (e non solo: ci sono anche le corse-parkour tra i tetti di Aicha ed Emil) che la Arthy, nonostante il montaggio ci vada giù pesante con gli effettoni, gestisce con una notevole maestria – che se non è ovviamente quella dei classici, dà montagne di polvere a molti dei filmetti simili che vengono prodotti da sempre negli Stati Uniti.

Più che altro, come si accennava in apertura, la Arthy trova un’equilibrio davvero riuscito tra le esigenze del cinema impegnato e quelle del film d’intrattenimento per un pubblico giovane, raccontando una piccola storia di passione sportiva che prosegue la tradizione di, che so, Karate kid, ma insieme dipingendo un convincente affresco della comunità turca di Copenhagen e raccontando una storia di integrazione impossibile che, alla fine, sa giostrarsi bene tra speranza, dolcezza e inevitabilità. Impossibile in ogni caso togliere merito alla spettacolare performance atletica della giovane protagonista: Semra Turan, esordiente al cinema, ma campionessa di arti marziali a livello nazionale.

Il film è uscito in patria a Dicembre, ed è stato poi presentato a Berlino nella sezione Generation 14plus. Uscirà in Germania il prossimo Ottobre. Nonostante la sua estrema vendibilità, non c’è ancora nessuna notizia di una distribuzione italiana.

Half baked, Tamra Davis 1998

Half baked
di Tamra Davis, 1998

Nella mia inspiegabile piccola ossessione estiva per gli stoner film, era impossibile non incappare in questo minuscolo film diretto dalla futura regista di Crossroads attraverso cui venne lanciato tra le star della comicità americana Dave Chappelle, e che è divenuto con il tempo una specie di bignami del fattone americano. Da noi semi-inedito (ma è passato in tv) il film racconta le vicende di tre amici fattissimi che decidono di spacciare per tirare fuori di prigione un quarto amico, finito dietro le sbarre per aver ammazzato un cavallo poliziotto diabetico dandogli da mangiare una quantità di dolciumi.

In realtà, Half baked è un film fatto davvero di niente, tanto che per una sua parte si limita ad una sorta di elenco di caratteri e abitudini dei consumatori di erba newyorkesi – tra cui un incredibile Jon Stewart nel ruolo dell’enhancement smoker. Un film costruito insomma su un’allineamento di proposizioni coordinate, sketch e idee singole, omaggi e camei, che non portano veramente da nessuna parte. Ma trattandosi di uno dei più sinceri e appassionati elogi della marijuana, si può dire almeno che l’indole non stoni con il contenuto. E in ogni caso, superato l’impatto con le facce cretine di Jim Breuer e Guillermo Diaz, sotterrati da un Dave Chappelle già eccezionale, è davvero difficile resistere alle avventure dei tre amici stonati.

Una scemata, va bene, ma una scemata divertente – e vigorosamente anarchica, tanto che persino il finale in cui l’amore trionfa viene acquietato da una dichiarazione d’amore senza precedenti: "I love weed, love it, but not as much as I love pussy". Un toccasana.

Le vicende e la carriera di Dave Chappelle, dalla prima partecipazione, 20enne, nel Robin Hood di Mel Brooks fino alla sua misteriosa fuga in Sudafrica, passando attraverso l’enorme successo del Dave Chappelle Show su Comedy Central, meriterebbero un post a sé stante – così come meriterebbero un blog a sé stante alcune delle sue performance migliori, come Black Bush o Samuel L. Jackson Beer. Ma questa è appunto un’altra storia.

Dude, where’s my car, Danny Leiner 2000

Dude, where’s my car*
di Danny Leiner, 2000

"We are not guys. We are hot chicks."

Tra i titoli più citati della stoner comedy americana degli ultimi dieci anni c’è quasi sempre questo film, primo titolo rilevante di Leiner prima del boom di Harold and Kumar. Ma confrontato con il successivo questo film, piccolo cult negli States grazie al successo dell’edzione DVD tra i più giovani, fa una figura assai magra. Prima di tutto perché Seann William Scott e Ashton Kutcher non sono Cho e Penn, ma anche perché Dude è un film che è programmaticamente ridotto all’osso, al confronto del quale i primi film dei Farrelly sembrano gli ultimi di Bergman.

Ma messo in campo che, come al solito, si tratta di un tipo di film con cui bisogna scendere a patti, così come con lo stimolo a guardarlo fino in fondo e con la propria intelligenza, Dude ha dalla sua un grandissimo pregio: il totale disinteresse nei confronti della trama, in senso tradizionale. Chester e Jesse attraversano il film più che altro come in un assurdo e cretinissimo videogioco, allineando situazioni paradossali e superandole in un crescendo che nel finale camp-sci-fi non può lasciare indifferenti – e che semmai può produrre sanissime reazioni di fastidio e rigetto.

Bella gara di sublime idiozia tra la scena del take away cinese e quella dei tatuaggi.

*il titolo italiano del film è l’arcinoto e tremebondo Fatti, strafatti e strafighe, ma a scriverlo tutto grosso là sopra mi piangeva il cuore.

[gayest. fantasy hero. ever.]

L’episodio ferragostano di Friday Prejudice. Tutta roba buona.

Son of Rambow, Garth Jennings 2007

Son of Rambow
di Garth Jennings, 2007

Esordire nel Regno Unito con una cosetta come la Guida galattica per autostoppisti fu un notevole rischio, per il regista di alcuni bellissimi videoclip nascosto dietro il marchio Hammer & Tongs, che condivide con il socio-produttore Nick Goldsmith. Il film lasciò infatti molti scontenti, tra i fan i Douglas Adams e non solo: da queste parti, all’esatto contrario, si sperò ardentemente, con notevole entusiasmo per la freschezza e il senso dell’humor dimostrato con il suo difficilissimo adattamento d’esordio, che Garth Jennings sfornasse al più presto un secondo lungometraggio.

E l’attesa è stata ben ricompensata, perché Son of Rambow è davvero un piccolo gioiello. Con tutti i crismi del cinema indipendente, è chiaro: e non c’è dubbio che qualcuno potrà tacciarlo di ruffianeria e stucchevolezza. Ma se tali sono i rischi, quando si trattano materie delicate pur se rodatissime come la fine dell’infanzia e il potere dell’immaginazione, questo non è il caso del film di Jennings. Che riesce invece a mantenere quasi sempre un registro perfetto tra malinconia e tenerezza, tra ironia e dramma, lasciandosi andare a libertà espressive che provengono dal substrato "musicale" di Jennings e Goldsmith (gli improvvisi splendidi inserti animati) ma con un’immediatezza e un piacere del racconto quasi spontaneamente commovente.

Che nel film ci sia molto di Jennings, che ha scritto anche soggetto e sceneggiatura, è evidente ad ogni passaggio – rendendo Son of Rambow non solo il suo primo vero film personale, ma una vera e propria confessione, e una dichiarazione d’intenti che fa sperare ancor più nel suo futuro. Fortuna sua aver trovato due giovani protagonisti come Will Poulter e Bill Milner, entrambi assolutamente esordienti e altrettanto stupefacenti, per ricreare questo tassello della sua infanzia, tanto emotivo quanto onesto anche nel suo divertirsi con gli stilemi del period movie (la scena della festa con il balletto sulle note di Just Can’t Get Enough dei Depeche Mode). Va bene anche a noi: dopotutto, ognuno di noi, nell’infanzia, è stato l’introverso Will o il prepotente Lee Carter – e ha avuto l’altro come amico di conseguenza. A quel punto, basta scegliere. Un vera sorpresa, in ogni caso, trovare la Jessica Hynes di Spaced in un ruolo senza derive comiche – e trovarla così brava.

Poi, Son of Rambow fa un’accoppiata impagabile con un altro film di questa stagione, Be kind rewind di Gondry, nel celebrare degnamente il rapporto strettissimo tra l’avvento del supporto magnetico di massa e la crescita di un’intera (e allargata) generazione, legata a una doverosa perdita dell’innocenza che si chiama cinefilia. A oguno la propria, personale e insostituibile, dolcissima o dolorosa, cinefilia.

Il film è uscito ad Aprile nel Regno Unito, e a Maggio negli USA. In Germania esce la prossima settimana, in Francia addirittura a Gennaio. Non è ancora prevista un’uscita italiana.

Il DVD inglese è uscito due giorni fa: si può acquistare qui.

Due curiosità: il ragazzino che nel filmato d’archivio della BBC "strappa" il premio di Screen test a Lee Carter è Jan Pinkava, futuro e geniale regista e sceneggiatore della Pixar: suo il capolavoro Geri’s Game, e la co-regia di Ratatouille, accanto a Brad Bird. E il bellissimo personaggio del ragazzino francese è interpretato da Sam Kubrick-Finney, il nipote di Stanley Kubrick.

American trip, Danny Leiner 2004

American trip (Harold & Kumar Go to White Castle / Harold And Kumar Get The Munchies)
di Danny Leiner, 2004

Quattro anni prima di Escape from Guantanamo Bay, che inizia proprio dove questo finisce, l’esordio di John Cho e Kal Penn nei ruoli di Harold Lee e Kumar Patel ha una trama che definire ridotta all’osso è riduttivo: i due si sono sfondati di marijuana e hanno una fame boia. Ma non di qualunque cosa: vogliono strafogarsi di hambuger di White Castle (la più antica catena di fast food americana), ma il viaggio per raggiungere l’agognato cibo si rivelerà più difficile del previsto.

Probabilmente perché infarcito di un umorismo che spesso è difficilmente esportabile o traducibile*, forse per la volgarità a volte davvero irrefrenabile (le due ragazze che giocano a battleshits nei cessi dell’università) il film di Leiner da noi non ha avuto il successo di altre commedie "triviali", magari basate di più sui pruriti sessuali, mentre negli states Harold & Kumar ha ottenuto con il tempo un discreto statuto di cult, e anche uno sdoganamento critico di tutto rispetto. L’impressione, rimanendo su un discorso già accennato, è che il rifiuto inconscio della stoner comedy dalle nostre parti possa essere legato a una forma di radicata istanza benpensante, per la quale l’uso della marijuana deve essere correlato, al massimo, a suggestioni malinconiche – come in quasi tutti i film di Salvatores, che su questo han fatto scuola – o di necessità di una caratterizzazione più immediata e riconoscibile – come Marco Cocci nell’Ultimo bacio. Ma in fondo, i film della factory dei Vanzina (come Sognando la California) non sono poi così dissimili dai film di Leiner. Solo che non c’è l’erba, e non fanno così ridere.

Harold & Kumar invece fa ridere eccome, anche più del successivo – che introdurrà semmai qualche doverosa sostanza cinematografica all’ineffabile duo. E prima di tutto perché gioca con grande libertà con tutto il discorso sull’omosessualità latente (o meno) dei buddy movies, e lo fa anni prima di Superbad – pur se in maniera meno raffinata. Improponibile una lista delle sequenze più assurde e spassose del film, molte delle quali già notissime (grazie a Youtube) a prescindere dal film: vincono il podio la sequenza onirica amorosa tra Kumar e un sacchetto pieno di maria, l’incredibile monologo di Harold sul sogno americano, e l’impiegato frustrato del fast food che urla Let’s burn this motherfucker down. Tacendo di Neil Patrick Harris che sniffa cocaina dal culo di una spogliarellista: di lui si è già parlato abbastanza.

Il titolo italiano rimetteva sì erroneamente il film nel filone di Road trip, ma gli andò comunque meglio di quanto capitò all’altra stoner comedy di Danny Leiner, il citatissimo Dude, Where’s My Car?, da noi uscito come Fatti, strafatti e strafighe.

*questo post è relativo all’edizione originale, acquistabile qui a meno di 5 euro.

Il vento fa il suo giro, Giorgio Diritti 2005

Il vento fa il suo giro (E l’aura fai son vir)
di Giorgio Diritti, 2005

"Io non faccio vacanze, io faccio formaggi"

Tra le storie di film piccoli e indipendenti cresciuti grazie al passaparola, o ad altro, quella del film di Giorgio Diritti è indicata da tempo come una delle più paradigmatiche e riuscite. Tanto da far diventare spesso il film un caso a prescindere dalle sue doti. Ora che l’opera in questione è uscita finalmente in DVD, chiunque sia stato così pigro da non recarsi a nessuna delle numerosissime proiezioni che l’hanno vista protagonista negli ultimi 15 mesi non potrà più avere scusanti.

Del film si è tanto parlato che è quasi ridicolo dirsi sorpresi, ma tant’è: Il vento fa il suo giro è davvero il film straordinario che vi hanno dipinto. Ambientato tra le case di un paesino della Valle Maira, e recitato in un semi-inedito miscuglio di italiano e occitano, il film di Diritti è una vera opera di frontiera, che riflette in modo caustico e impietoso, ma senza lasciarsi trascinare da ondate di cinismo né abbandonandosi a mere suggestioni neorealiste (ma anzi con un forte senso della tensione narrativa oltre che morale), sulla morte del senso di comunità e sull’intrusione – un film quasi polanskiano, in cui la tragedia è sempre dietro l’angolo, sempre annunciata e rimandata. E lo sfogo finale è la perdonabilissima digressione di un film altrove dotato di una compattezza davvero rarissima.

Illuminata la direzione degli attori, perlopiù non professionisti ma spietatamente perfetti, e una direzione della fotografia che lascia senza parole, sia nell’appoggiarsi beatamente agli spettacolari campi lunghi che i paesaggi dell’Occitania regalano, che nell’osare con molto più coraggio – come l’uso della steady nella sublime sequenza del nascondino – rispetto alla maggior parte dei film considerati "maggiori" del cinema italiano recente.

Southland tales, Richard Kelly 2006

Southland tales
di Richard Kelly, 2006

Volendo ridurre all’osso e semplificare una questione che in realtà è ben più complicata, si potrebbe dire che la nota categoria dei Film Enormemente Sfortunati si divide in due grandi insiemi: i film che sono sfortunati perché non vengono capiti nel momento in cui vengono prodotti, e quelli che sono sfortunati perché fanno effettivamente schifo. Che Southland Tales sarebbe diventato un FES lo si era capito fin da quando venne presentato a Cannes, due anni fa. Ma in quale insieme sarebbe dovuto essere infilato, sorgeva più di un dubbio. Seguendo questa indicazione, forse bisognerebbe aspettare che passi dell’acqua sotto questo disastratissimo ponte, prima di giudicare. Ma dopo la visione effettiva del film credo che il Calderone delle Sfortune Meritate non glielo levi nessuno.

Lungi da noi rivedere a posteriori l’opinione sul virtuoso regista della Virginia: a Donnie Darko saremo comunque sempre legati e grati. Kelly ebbe il coraggio, con quel film, di raccogliere un intero immaginario, legato strettamente con un periodo storico (gli anni ’80) e con i generi che gli si appaiavano, e ribaltarlo come un calzino grazie alla mescolanza con le sue personalissime fissazioni – in primis, il viaggio nel tempo. Ma qui, queste stesse fissazioni, nello scontrarsi con gli stilemi del cinema apocalittico filtrati da una venatura che ricorda più il Marco Risi dell’Ultimo capodanno che non Francis Ford Coppola, con gli echi un po’ più che evidenti del cinema di David Lynch – i nani, Rebekah Del Rio, l’utilizzo straniante della colonna sonora di Moby, e via dicendo – e con una riflessione sulla contemporaneità e sulla cultura "bassa" che si trasforma molto presto in una sceneggiatura che per metà film si limita a un namedropping selvaggio e ingiustificato e per l’altra metà a personaggi che pontificano dei massimi sistemi senza troppa cognizione di causa, trasformano Southland tales, dal progetto di un potente e caustico affresco satirico sull’America Oggi a una delle esperienze cinematografiche più faticose, fino allo sfinimento (o alla sonnolenza), e insieme più frustranti (per le doti ancora innegabili del suo autore, soprattutto plastiche, che qui e là spuntano fuori con violenza) del cinema recente.

Inutile però spendere mezze parole, mezzi attacchi e mezze difese, a proposito di questo film: perché se la sua faccia tosta nello spalmare le proprie ossessioni con una tale spavalda baldanza può anche suscitare una certa simpatia, è difficile negare che Kelly se la sia cercata, eccome. E per tutta la parte centrale, prima del finale esplosivo e (doverosamente) eccessivo, l’impressione è quasi che l’abbia fatto apposta – con una self confidence al limite del masochismo. La parola che mi sento di usare, e che credo renda bene l’idea, è "fallimentare". Southland tales è uno dei film più palesemente e vergognosamente fallimentari del cinema americano di questo decennio. Non significa mica, per nulla, che sia uno dei peggiori. Anzi. Ma insomma, ci siamo capiti.

Dopo un lungo tira e molla, il film non è uscito nelle sale italiane: lo trovate da qualche settimana, in vendita in DVD.

Hancock, Peter Berg 2008

Hancock
di Peter Berg, 2008

Se c’è una cosa che ancora mi tiene ancorato all’interesse nei confronti dei blockbuster statunitensi – e Hancock ne è un esempio calzante, essendo il "film del 4 Luglio" di quest’anno – è la capacità dell’industria del cinema, più che di un singolo autore in sé, se non di stravolgere le mie aspettative, comunque di rimescolare le carte, di stupirmi un po’, o almeno di confondermi. Come è successo di recente con Iron Man, per fare un esempio. Dopotutto, quando hai a disposizione 150 milioni di dollari e un Re Mida come Will Smith, ti puoi concedere qualche colpo di testa – e pure qualche piccolo eccesso.

Peter Berg, attore ormai riconvertitosi alla regia e dall’innato (e un po’ paraculo) talento nel saltellare allegramente da un genere all’altro, di eccessi ne sa qualcosina – ce n’eravamo accorti già in Cose molto cattive, il suo esordio politically uncorrect di 10 anni fa. Altra cosa è vestirlo di abiti autoriali che gli starebbero assai larghi, ma non c’è dubbio che Hancock sia venuto così (cioè, proprio benino) anche grazie al suo ottimo mestiere, e a questo substrato di irresponsabilità cafona che lo contraddistingue. Un film che partendo da basi ben stabilite, quelle dell’action infarcito di ironia su cui ha costruito la carriera Will Smith – e anche autoriflessive, vista l’impressionante rinascita recente del cinema superomistico: in questo la sceneggiatura di Vince Gilligan e Vincent Ngo è nerd al punto giusto – riesce a un certo punto anche a prendere una sua strada.

E in questa strada si immette a 50 minuti suonati dall’inizio – lungi da me scrivere come e perché. Una delle cose più interessanti di Hancock sta infatti al di fuori del film, ed è una riflessione potenziale sul rapporto che intraprende l’opera con il suo trailer. Più precisamente, quello che intercorre tra l’anticipazione (hype) e il fatto compiuto (il film). Per intenderci: dal trailer tutti sanno che Hancock è la commedia action-fantastica che il film smette in realtà di essere dopo i primi tre quarti d’ora. Poi (dopo una svolta in realtà "annunciata" all’interno del film, niente di davvero inatteso arrivati a quel punto) diventa tutta un’altra cosa. Diventa esagitato, esagerato, persino tragico – nei limiti dello slot commerciale in cui è inserito – poderosamente sfacciato nel suo buttare alle ortiche (vivaddio) ogni illusione di credibiiltà, e con una complessa e interessante mitologia sottostante, che purtroppo Berg e gli sceneggiatori hanno troppa fretta a descrivere – ma che in alcuni momenti è persino convincente.

Per questa sua sfacciataggine e irrispetto nei confronti dello spettatore "basso", pur all’interno di un binario di un racconto visto e stravisto, e per questo dichiarato amore per un afflato melodrammatico che qualche anno fa (prima dello sdoganamento definitivo di Hong Kong, per dire) gli avrebbero risbattuto in faccia, Hancock farà probabilmente incazzare molti, e divertire molti altri. Ecco, ho già trovato il mio posticino.

Jason Bateman è molto più che un’ottima spalla, Charlize Theron non era così bella da anni. Ma – posto che a me è sempre piaciuto – Will Smith è davvero stupefacente. Sempre più bravo, ogni anno che passa.

Al cinema dal 12 Settembre

Harold & Kumar Escape from Guantanamo Bay, Jon Hurwitz e Hay Schlossberg 2008

Harold & Kumar Escape from Guantanamo Bay
di Jon Hurwitz e Hay Schlossberg, 2008

I motivi per cui mettersi a guardare un film come Harold & Kumar 2 possono essere molteplici, e possono essere veri oppure delle giustificazioni nei confronti di sé stessi. Il primo capitolo negli states è infatti un vero cult movie – divenuto tale, come spesso accade negli ultimi anni, dopo un insuccesso in sala e un rilancio spaventoso in DVD – ma dalle nostre parti, dove è uscito con il bruttissimo titolo American Trip, un sequel così desta molta meno attenzione, sicuramente meno del suo predecessore, persino nel suo precisissimo e ampio target – un esercito di adolescenti e postadolescenti fattissimi e un po’ nerd.

Ma dopotutto, è cosa nota che la stoner comedy sia legata a doppio filo a un certo imbarazzo spettatoriale, se non a un sottile senso di colpa. Qualcosa che suona come: se mi sto divertendo per tutto ciò, devo essere impazzito. A quel punto però vale la pena di sospendere questo insopportabile snobismo (spesso pregiudiziale e dovuto a decenni di ingloriose puttanate), sedersi e godersi il fottuto spettacolo. Harold & Kumar 2 è in fondo tutta una questione di umore: con quale lo si prende, e quale si decide di restituire. E preso di per sé, e appunto con l’umore giusto, almeno nei suoi dettagli più triviali (al di sotto dei quali, gratta gratta, c’è poca carne) ha poco da invidiare a commedie recenti, alcune delle quali più celebrate.

Tolta una sceneggiatura (di Hurwitz e Schlossberg, che stavolta si impadroniscono anche della cabina di regia) che è costruita soprattutto su pretesti, più o meno riusciti, e una confezione che si mantiene sul classico livello di decenza che non faccia sprofondare il tutto anche nel gorgo del cheap – ma la sequenza dei paracaduti è funzionale e divertentissima – il cappello va tolto soprattutto di fronte agli attori. Sono loro, va da sé, a tenere in piedi tutto il film. E se i due protagonisti sono ormai un tutt’uno coi loro personaggi, ed è difficile non affezionarsi al rintronato e puccissimo Kumar Patel di Kal Penn (con il Harold Lee di John Cho ridotto spesso ad una spalla, seppur ottima), il meglio lo dà il cast di contorno. Da una parte, due ex correspondent del Daily Show Rob Corddry e Ed Helms, che fanno un’irresistibile parodia del good cop, bad cop.

E dall’altra, ovviamente, il ritorno di Neil Patrick Harris nella parte di Neil Patrick Harris. Nel primo Harold & Kumar faceva l’ex bambino prodigio (come protagonista di Doogie Howser, M.D.) strafatto di ecstasy, mentre qui aiuta i protagonisti a fuggire sopraffatto da visioni mistiche dovute a funghetti allucinogeni, e poi li porta in un bordello. In questi anni, NPH è stato protagonista dell’adorata serie How I Met Your Mother, ha fatto tempo a fare coming out in diretta, a farsi amare follemente qualunque cosa faccia (vedi il recente e sublime Doctor Horrible’s sing-along blog di Joss Whedon) da milioni di persone – tra cui il sottoscritto – ma la sua "alternate version" di se stesso è ancora assolutamente irresistibile. Da principio, lo ammetto, ho recuperato questo film quasi solo per lui. E posso dire di esser rimasto del tutto soddisfatto.