Man on wire
di James Marsh, 2008
Il documentario di James Marsh ha fatto molto parlare di sé nella rete negli ultimi mesi, dalla sua uscita nelle sale statunitensi nel Luglio scorso, soprattutto per un dato del tutto particolare: secondo i paradigmi del sito Rotten Tomatoes, che raccoglie e cataloga le recensioni cinematografiche delle testate anglofone (dividendole in pomodori freschi oppure marci), Man on wire sarebbe niente meno che il film meglio accolto dalla critica di sempre: se non è l’unico film ad avere una percentuale del 100%, la differenza la fa ovviamente il numero di recensioni: 135, tutte positive, senza eccezioni.
Non c’è dubbio che questa curiosità, freddamente numerica, nasconda in realtà un’entusiasmo del tutto inedito nel panorama del cinema recente, e che fa realmente impressione: prima di tutto, perché il fatto che un film simile sia "quello" in grado di mettere d’accordo tutti la dice lunga sullo sdoganamento ormai definitivo del documentario anche presso il grande pubblico. Verrebbe quasi la tentazione di pensare che il successo smisurato del film inglese presso la critica valga simbolicamente più del film in sé. Fortunatamente, c’è il film a dimostrare il contrario – e cioè, che non sono tutti impazziti per una bolla d’aria.
Infatti Man on wire è un vero e proprio gioiello, un film dalla bellezza raramente ipnotica e realmente conturbante, che lavora sui canoni del documentario (ma anche su quelli della docufiction, in molte sequenze) senza negali i canoni né cercando in alcun modo di ribaltarli (il film è tutto sommato costruito su un’alternanza piuttosto tradizionale di interviste ai protagonisti e di immagini di repertorio – o appunto "ricostruite" – con il commento musicale delle notissime musiche di Michael Nyman), ma coltivando nel cuore di questi linguaggi un’energia insperata, e traendone una passione travolgente che fa vibrare lo schermo con un crescendo che arriva a far commuovere semplicemente proiettando sullo schermo delle fotografie – tra l’altro arcinote, ma che a quel punto del film fungono ormai da sfogo.
Il film racconta infatti dell’impresa del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 riuscì a tirare un cavo tra le due torri di New York e a camminarci sopra. E il film, oltre ad avere tutta la tensione di un film su una rapina in banca o su un attentato terroristico, gioca su questo contrasto tra l’illegalità del gesto – e sul procedimento, affontato proprio come tale – e sul suo effetto gioiosamente catartico, sa trasformare un "atto artistico" situazionista in un simbolo di anarchia e di libertà, slegato dai condizionamenti della logica razionale (Petit trova ridicolo che i giornalisti non facessero che chiedergli il perché), e divenuto – insieme alle torri stesse, in antitesi all’architettura prosaica che le ha sollevate – in un eterno gesto di pura contemplazione e bellezza.
Non è ancora prevista un’uscita italiana, ma uscirà senza dubbio, prima o poi. Il DVD inglese invece è in uscita nei prossimi giorni, a Santo Stefano: prenotatelo.
“Il film racconta infatti dell’impresa del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 riuscì a tirare un cavo tra le due torri di New York e a camminarci sopra, diventando un simb.”
un simb? è tipo un super sayan?
Lor
Aha.
Alla faccia della distrazione, comunque: grazie della segnalazione.
Mi consola che almeno qualcuno si è cagato questo post. ^^
Eh già, bellissimo, l’ho visto per caso alla Festa di Roma e sono rimasto di stucco.
Ciaoo Rob
allora consiglio a tutti i Libri di Petit.. dei gioielli
a partire dal classico
“Trattato di Funambolismo” (scritto a 18 anni)
poi “Toccare le nuvole. Tra le Twin Towers”
per finire con l’ultimo uscito:
Cadere nel vuoto, la trascrizione di una conferenza/dialogo tra Petit e Michele Serra
con passione,
balsam