The warlords (Tau ming chong)
di Peter Chan, 2007
Quando i cinesi mainland si trovano tra le mani una barca di soldi per soddisfare, almeno una volta l’anno, i bisogni di una nuova e sterminata massa di spettatori, e un mercato estero sempre più ricettivo, sono capaci di notevoli disastri: The promise ne fu un buon esempio, un paio di anni fa. The warlords, con un budget di 40 milioni di dollari (una cifra enorme, se contestualizzata, che ne fa il film più costoso della storia del cinema cinese) è la dimostrazione che anche il cinema di Pechino è ora capace di costruire dei poderosi blockbuster di qualità – senza scomodare capitali esteri o alleanze panasiatiche.
Certo, alla regia c’è Peter Chan, che non è l’ultimo dei cretini. E tra l’altro Chan corregge di parecchio il tiro rispetto al bellissimo (e criticatissimo, ahiloro) Perhaps love, suo ultimo commovente avvicendamento nel cinema "ricco" della Repubblica Popolare. Qui infatti la personalità del regista viene messa del tutto in secondo piano rispetto ad un racconto che, si capisce quasi subito, è costruito per essere il più possibile masticabile e consono a un gusto di massa – che assomiglia però sempre di più a un gusto globale che a quello di un pubblico come quello cinese. Niente pippe cromoterapiche, niente grandangoloni impazziti, niente svolazzi magici.
Questo potrà sembrare un male: ed effettivamente ha i suoi risvolti inquietanti. Perché se leviamo alcune suggestioni tipicamente locali, tra cui una ruvida brutalità che in occidente si sognano di rappresentare (la scena della decapitazione, i dettagli cruenti in battaglia) e soprattutto il gusto del melò che non togli anche se gli strappi via di mano con la forza i personaggi femminili (Chan ha dichiarato di aver rinunciato alle sue storie d’amore per ispirarsi piuttosto all’amicizia virile che fece grande il cinema di Hong Kong), con le sue scene di massa e la voce fuori campo (di Kaneshiro) e il suo ritmo pomposo e ineffabile, The warlords è un film che non ci saremmo sorpresi di vedere diretto da un regista "straniero", o (ancora di più) con ingenti investimenti americani. E sembra che questo sia il trend per il cinema cinese dei prossimi anni: fateci il callo.
Però, pur con tutte le aggravanti del caso, di fronte a cui non si può storcere un po’ il naso, soprattutto se si è degli snob fighetti come il sottoscritto, il film di Chan è anche un notevole e innegabile divertimento: neanche una lira è stata spesa a caso, è realizzato con grandissima cura, ci sono centinaia e centinaia di cavalli, le scene di battaglia fanno davvero impressione per complessità e precisione nella composizione, pur nel furore che le contraddistingue, e poi un terzetto di protagonisti come Jet Li (invecchiatissimo ma fascinoso e ambiguo), Andy Lau e Takeshi Kaneshiro (sempre e comunque l’uomo più bello di questo pianeta) possono bastare come ragione per sedervi in poltrona due ore a vedere questo piovosissimo e violento triangolo battagliero di amicizia, fedeltà, potere e morte. Insomma, non ci si strappa le vesti ma ci si diverte, e non poco. Chiamatelo pure guilty pleasure.
Xu Jinglei, l’unica donna del cast, intorno a cui ruotano i destini dei tre personaggi maschili, dotata di un carisma notevole e di una bellezza insieme semplice e altera, non è (ancora) molto conosciuta da noi, ma è una delle star più luminose della Cina contemporanea, un’affermatissima e raffinata regista, e pure una delle blogger più lette in Cina (il che equivale a dire, al mondo), e io l’ho pure conosciuta*, tiè.
*vabbè, "conosciuta" è dir troppo, ma insomma, ho passato un’intera mattinata al suo cospetto, avrò bene tutto il diritto di bullarmene.
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