Complici del silenzio
di Stefano Incerti, 2009
Che qualcosa sta per andare per il verso sbagliato nel sesto film di Stefano Incerti lo si capisce dalle primissime battute, quando i due personaggi sono in volo sopra l’Argentina. Ma non riguarda ciò che accadrà ai due una volta atterrati, bensì quello che accadrà al film da lì in avanti. I primi minuti sono infatti un esempio quasi manualistico di come non si dovrebbe aprire una sceneggiatura, di qualunque film, un modo che invece è utilizzato da molto cinema italiano (e non solo) proprio, appunto, come se fosse un manuale.
Per spiegarci con l’esempio pratico, c’è davvero bisogno che i due personaggi si dicano nel giro di pochi secondi "ciao siamo due giornalisti sportivi, è il 1978, e quindi ci sono i Mondiali in Argentina, e noi stiamo andando in Argentina, io sono quello bello e tu sei quello simpatico, che bello andiamo in Argentina, non ti preoccupare perché adesso andiamo da questi parenti e te lo spiego proprio adesso che stiamo per atterrare così che tu mi chiedi anche se tra i miei parenti c’è da trombare, che sei pur sempre Battiston, tanto tranquillo che alla fine trombo io"? Non è che io pretenda per forza un approccio realista ai dialoghi: ma mettiamo in campo almeno un livello minimo di credibilità che permetta almeno al pubblico di non pensare ai prati fioriti finché qualcuno sullo schermo non viene massacrato di botte? L’alternativa era la voce fuori campo, probabilmente: faceva paura? Capisco, ma questa soluzione fa ancora più paura. E un film dovrebbe saper essere in grado di piegare al suo volere una sceneggiatura, soprattutto se debole, e non interpretarla letteralmente.
Per adesso ho parlato soltanto dei primi 3 minuti del film, ma soltanto perché mi sembra tocchino un tasto molto dolente del nostro cinema – e perché comunque nei successivi 97 il problema dell’eccesso di sceneggiatura si ripropone. Soprattutto nella forma del personaggio di Florencia Raggi, tutta sguardi intensi e misteriosi, e in quello di Alessio Boni, che è fondamentalmente uno che non fa niente e non sa fare niente, e subisce la Storia che avviene intorno a sé trascinato, diciamolo pure, più dall’ormone e dal capezzolo turgido della Raggi che dal senso civile che a un certo punto lo script cerca di appioppagli con la frase – istantaneamente cult – "l’unico servizio che voglio fare è su queste persone che scompaiono".
Dopo tutto questo cianciare, messo lì un po’ per sfogo di fronte alle potenzialità sprecate di una buona metà, ammettiamo anche però che il film sfoggia una seconda metà di tutto rispetto. Motivi? Primo, Alessio Boni si leva dalle palle per un po’, lasciando il campo libero a Jorge Marrale. Secondo, perché si affronta il contesto storico con un piglio finalmente forte e deciso, violento e inquietante, cupo e angosciante, come è giusto che sia secondo i dettami – rispettati alla lettera – di predecessori come Garage Olimpo. Non basta per farsi perdonare una prima metà imbarazzante, né Alessio Boni che in cella ha i flashback del super-capezzolo, né il finale un po’ piagnone (comprensibile e corretto, ma ancora da manuale) ma qualcosa di buono c’è, a cercarlo.
Il punto è: a noi va di cercarlo quel qualcosa di buono?
Indovina la risposta.
intrigante però questo super-capezzolo…
Ma mai quanto l’ubercapezzolo della Capotondi (trovo un po’ triste l’essere l’unico risultato su google per l’ubercapezzolo).
secondo me ti sei fatto trascinare dal capezzolo… si sei fatto prendere il capezzolo dall’entusiasmo o l’entusiasmo per il capezzolo…