Rabbit Hole
di John Cameron Mitchell, 2010
“Does it ever go away?”
“No, I don’t think it does. Not for me, it has gone on for eleven years. But it changes though.”
“How?”
“I don’t know. The weight of it, I guess. At some point, it becomes bearable. It turns into something that you can crawl out from under and carry around like a brick in your pocket. And you even forget it, for a while. But then you reach in for whatever reason and there it is. Oh right, that. Which could be aweful. Not all the time. It’s kinda… not that you’d like it exactly, but it’s what you’ve got instead of your son. So, you carry it around. And uh, it doesn’t go away. Which is…
“Which is what?”
“Fine, actually.”
Per me Rabbit Hole ha significato in primo luogo un riavvicinamento a un’attrice che in passato, come spero molti di voi, ho amato tantissimo, ma che negli ultimi anni era diventata quasi irriconoscibile e, soprattutto, su cui nessun regista ha più osato buttare l’intero peso di un film – direi dai tempi del sottovalutato Birth di Jonathan Glazer. Intendiamoci: Nicole Kidman non ha mai smesso di essere brava, ma per un po’ ha smesso di essere grande. Questo è il film del suo ritorno, una sorta di consacrazione tardiva rallentata dal botox e dal miscasting: non è quasi mai stata splendida e perfetta come in questo film, e il lavoro di John Cameron Mitchell si muove di conseguenza, con una regia impensabilmente distante dai suoi film precedenti che costruisce un vero tempio intorno alla performance della sua diva, che come il film è sfaccettata, dolente, ma anche buffa e straordinariamente misurata, e inevitabilmente commovente. Guidato dalla Kidman, dalla fotografia quieta e rigorosa, e dal talento e dalla vivacità del cast di contorno, Rabbit Hole traccia una strada da percorrere che passa attraverso l’accettazione del dolore e la convivenza con l’assenza, parla dei nostri modesti e vani tentativi di liberarci dei mattoni che ci portiamo nelle tasche e della paura di non ritrovare l’indecifrabile consolazione di quel peso: è il racconto dell’elaborazione di un lutto più leggiadro che si possa immaginare, ma questo non lo rende meno struggente – semmai lo avvicina alla semplice e implacabile assurdità della vita.
Nei cinema dall’11 febbraio 2011
Sbavo. Ma non attenderò molto stavolta.
Quel dialogo tra lei e la madre è straziante e bellissimo, e sia la Kidman che Dianne Wiest sono meravigliose.
L’ho visto nel week end, assieme a Never let me go. Ne sono uscito devastato.
che bella notizia, voglio tanto vederlo mi sono sciroppata Nicole che lo presentava in diversi show e la sensazione era ottima…
son d’accordo su tutto, però… insomma, io mi sforzo, ma non riesco a guardare la bocca di nicole kidman. non ce la faccio, rischia di distrarmi anche dalle scene migliori. è una tragedia extradiegetica.
assolutamente d’accordo: la rinascita di un’attrice splendida e un film davvero toccante per come riesce a essere misurato e onesto, ma non morboso nel descrivere l’elaborazione del lutto
dalla prima frase della kidman nel trailer già merita.
Che lei sia splendida è fuor di dubbio, ma non mi unirò al coro delle lodi anche per il film. Sono arrivato a vederlo perché avevo sentito di quanto fosse brava lei, ma non avevo idea di cosa parlasse. Dovrebbero mettere un disclaimer ad inizio film: “Attenzione, la seguente pellicola parla di un momento di grande difficoltà per una coppia medio-borghese”. A quel punto quelli come me ringrazierebbero, direbbero “Be’, grazie Nicole, sono sicuro che tu sia sublime lo stesso” e spegnerebbero il tv.
Ho apprezzato la Kidman in questo film soltanto come l’ho apprezzata in Dogville… Divina!
Per il resto, anche il film è ben fatto, ben interpretato, ben “dialogato”…
RECENSIONE RABBIT HOLE
E’ vero è un piacere doppio: un bel film, delicato eppure commovente su un tema difficile e il gran ritorno della Kidman, a patto di vederlo in originale ovviamente.
il film mi incuriosisce per come è descritto, anche se la kidman mi sta un po sulle pelotas ultimamente. A me Dogville ad esempio non è piaciuto, per dirne una. La pesante chirurgia estetica (accompagnata da una sua indubbia topaggine) ha influito molto sulla sua espressività, tuttavia voglio concederle un’ultima chance dato che sembra valerne la pena.
mi è piaciuto molto soprattutto per la straordinaria semplicità con cui il regista riesce a raccontare l’impossibilità, anche per una coppia molto unita, di poter condividere il dolore per una perdita così grande. la sofferenza ci allontana molto dagli altri, rebecca la impone alle persone che ama, howi sembra subirla e preferisce cercare conforto nel passato. sono modo di reagire diversi ma che porteranno alla stessa consapevolezza (quella che si concretizza poi nel toccante dialogo con la madre): non si riesce a dimenticare si può soltanto aspettare che il tempo renda il peso che ci portiamo dentro sopportabile.
uscita di sala mi è parso come di aver visto un film che sostanzialmente non raccontava “nulla” eppure ho avuto come la sensazione che avrei potuto stare lì a parlarne per ore.
E’ un film condensato.Male.
Anche se il film non è scritto da Cameron Mitchell, indubbiamente gli è congeniale questa storia di tentitivi di dialogo tra le persone, di avvicinamento di corpi (di teste, verrebbe da dire vedendo il finale della storia a fumetti che Jason consegna a Becca) che tentano di parlarsi raccontandosi, solitudini nei gruppi, essendo il dolore talmente personale che l’elaborazione non può che essere una cosa a due (magari tenendosi per mano in un giardino in cui risuonano le voci della vita che si sta riprendendo in mano).
In questo si avvicina per certi versi a Shortbus.
E il paradosso è che entrambi hanno la spinta a uscire dall’immobilismo attraverso una fuga dalla “realtà” (lui con l’erba, lei con un comic book). Gli universi paralleli sono una realtà più credibile della religione della madre.
La cantina, dove sentiamo il dialogo tra lei e sua madre che hai messo all’inizio della tua bella recensione, è la tana del coniglio, dove si tenta di capire come fare in modo che il proprio dolore divenga, col tempo, un sasso da conservare e portare in giro. Solo più piccolo del macigno che ci impedisce di muoverci.