gennaio 2012

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The Innkeepers, Ti West 2011

The Innkeepers
di Ti West, 2011

Dopo il formidabile The House of the Devil, con cui un paio di anni prima si è guadagnato (meritevolmente) un buon numero di fan, Ti West conferma il suo talento scrivendo, dirigendo e montando un nuovo horror “d’altri tempi”: questa volta non si tratta di una replica citazionista dello stile del passato, ma si respira ugualmente un’aria piacevolmente retrò, dall’ambientazione in un hotel infestato dai fantasmi al personaggio della sensitiva interpretato da Kelly McGillis. Difficile immaginare due film più distanti (ardito paragone: dal Tobe Hooper di Non aprite quella porta al Tobe Hooper di Poltergeist?) ma la mano è la stessa e si vede: West alleggerisce moltissimo la materia, rinunciando alla violenza e dirigendo i due attori protagonisti quasi come in una commedia (Sara Paxton è perfetta, una bellissima scoperta), ma ancora una volta si diverte come un matto a giocare con le pause e con le attese (di fatto, non facendo succedere quasi nulla per gran parte del film) e a usare come perno anche narrativo della tensione l’audio, i rumori e gli scricchiolii dell’albergo stregato. Una scelta che sembrerebbe quasi in linea con le recenti tendenze finto-amatoriali, se non fosse che West non lascia nulla al caso ed è davvero bravo da paura: nella scelta delle inquadrature, dei movimenti di macchina, nella gestione dell’unità di luogo e tempo, mostra una grazia e una precisione inaspettate. Si perde forse l’impatto del precedente, e forse non accade nulla che non abbiate visto decine di volte in decine di film, ma The Innkeepers non ha nulla da rimproverarsi: è un film di fantasmi piccolo ma impeccabile, divertentissimo ma crudele, in ogni caso una bella spanna sopra la media del cinema horror odierno.

Il film esce in sala negli states con una distribuzione “limited” il prossimo weekend, ma è stato disponibile online on demand già a partire da dicembre 2011.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana in sala.

La Talpa, Tomas Alfredson 2011

La Talpa (Tinker Tailor Soldier Spy)
di Tomas Alfredson, 2011

Sembra fin troppo facile dire che Tomas Alfredson, al suo esordio in lingua inglese, fresco del successo del meraviglioso Let The Right One In, porta nel cinema britannico la sommessa freddezza del cinema svedese – ma è una banalità non così lontana dal vero: La Talpa è sì un film d’atmosfera, costruito anche su una malinconica magia scenografica di insistito perfezionismo, ma impone al racconto un ritmo e una prospettiva del tutto originale, che restituisce al cinema di spionaggio un passo decadente e grave che sembra davvero appartenere alle corde del regista. Meno cerebrale di quanto possa sembrare e meno intricato di come ve lo raccontano, il film di Alfredson è una spy story inusuale ma a suo modo entusiasmante, in cui la vera differenza è data, in definitiva, dal modo in cui riesce ad aprire squarci sulle singole vite dei suoi personaggi – ciascuno con il suo spazio d’azione, la sua storia necessaria, la sua pulsione, la sua motivazione e – per gli attori – la possibilità di mettere alla prova la propria abilità (in particolare, Benedict Cumberbatch e Tom Hardy sono due splendide conferme). Ma pur essendo popolato da un fenomenale cast di attori inglesi, La Talpa è letteralmente dominato dall’interpretazione gigantesca eppure priva di giogionerie, sempre volutamente sottotono eppure di impressionante, di Gary Oldman: già uno dei ruoli più memorabili della sua carriera.

The Unjust, Ryoo Seung-wan 2010

The Unjust (Bu-dang-geo-rae)
di Ryoo Seung-wan, 2010

La polizia è a caccia di un serial killer di bambini che terrorizza la popolazione coreana, ma dopo che il maggior sospettato viene ucciso per sbaglio durante un inseguimento i piani alti della polizia di Stato (per conto del Presidente in persona) decidono di affidare al durissimo (e non proprio integerrimo) Capitano Choi un compito ingrato, in cambio di una promozione a lungo agognata: dovrà scegliere un altro individuo sospetto, attribuirgli i delitti e arrestarlo, per placare l’opinione pubblica. Per farlo si avvale dell’aiuto di un boss, ma a mettergli i bastoni tra le ruote c’è l’ambizioso (e nemmeno lui proprio integerrimo) procuratore cui viene stato affidato il caso.

Se nei suoi suoi più noti film precedenti si era in qualche modo specializzato sullo scontro fisico (le botte di No Blood No Tears, il super-eroismo con arti marziali di Arahan, la street boxe di Crying Fist, le risse coreografate di The City of Violence), con il suo ultimo film Ryoo Seung-Wan sembra voler iniziare un capitolo del tutto distinto della sua carriera, lasciando quasi del tutto da parte l’azione e le botte (anche se Choi è un judoka spaventoso) con un film più adulto e dai contorni quasi politici: The Unjust è infatti un’opera definitivamente cinica e disillusa, che a partire da meccanismi del noir poliziesco metropolitano, rappresenta un mondo in cui le distinzioni tra buoni e cattivi non hanno quasi più senso, in cui ciascuno fa esclusivamente il suo interesse – con conseguenze letali, non soltanto per i pochi malcapitati che si trovano a difendere gli ultimi residui di onestà, ma per l’intero sistema della giustizia.

La sceneggiatura (di Park Hoon-Jung, lo stesso di I Saw the Devil: è il primo film di Ryoo scritto da qualcun altro) incespica e si avvolge un po’ su se stessa nel raccontare il funzionamento dei rapporti politici e burocratici tra polizia, mondo degli affari e mafia, finendo per impallare spesso il film, che a tratti risulta troppo complicato e persino noioso, ma che si riprende alla grande nel rendere i conti della corruzione e dell’amoralità diffusa. E se l’assenza di un riferimento rende in qualche modo disturbante l’esperienza del film (Ryoo ci prova gusto, utilizzando tra l’altro in modo spregiudicato l’enfatica ed esagerata colonna sonora) l’intervento tardivo del Caso beffardo e una parte finale violentissima e infine (a suo modo) catartica chiudono in modo esemplare la sua nerissima e crudele parabola.

Il film è uscito in patria nell’ottobre 2010, ed è stato presentato l’anno scorso a Berlino nella sezione Panorama, prima di fare un giro di festival tra cui il Far East Film di Udine.

Per il momento il film è disponibile in dvd nell’edizione coreana (Regione 3).

Buddha Mountain, Li Yu 2010

Buddha Mountain (Guan yin shan)
di Li Yu, 2010

Tre spiantati amici per la pelle tirano a campare nella provincia del Sichuan, qualche tempo dopo il terremoto che ha colpito la regione nel 2008: la prima canta in un locale e finisce nei guai dopo aver ferito accidentalmente un cliente; il secondo è simpatico ma in sovrappeso e viene puntualmente vessato e derubato dai coetanei; il terzo fa consegne a domicilio illegali e deve affrontare l’incombente matrimonio del padre vedovo. A causa della demolizione della casa che condividono, trovano alloggio nell’appartamento di una cantante d’Opera di Pechino di mezza età, rimasta sola dopo la morte del figlio in un incidente stradale. Il ritorno alla regia della regista cinese Li Yu dopo l’acclamato e discusso Lost in Beijing, ancora una volta con una piccola produzione indipendente, è un dramma intimo e delicato che riesce a raccontare le sue storie con sensibilità e impagabile leggerezza pur sullo sfondo di un evento che ha cambiato radicalmente la faccia della regione: e se l’impatto si riflette profondamente nelle vicende, Li Yu sceglie di non spiegare troppo a fondo le correlazioni, delegando semmai le immagini a comunicare quei sentimenti che i personaggi non riescono più ad esprimere. Visivamente semplicissimo eppure sorprendente, non sempre travolgente ma a tratti folgorante, Buddha Mountain si avvale della commovente prova della veterana Sylvia Chang, anche se è la bellissima Fan Bingbing (premiata a Tokyo, insieme alla regista) a rubare la scena a tutti: davvero formidabile.

Il film è stato presentato nel corso del 2011 in moltissimi festival in tutto il mondo, tra cui il Far East Film di Udine e l’Asian Film Festival di Reggio Emilia.

Il dvd è disponibile nell’edizione di Hong Kong: purtroppo è Regione 3.

The Yellow Sea, Na Hong-jin 2010

The Yellow Sea (Hwanghae)
di Na Hong-jin, 2010

Ku-Nam è un tassista col vizio del gioco che vive nel Yanbian, prefettura cinese al confine con la Russia in cui vivono moltissimi cittadini di origine o etnia coreana. Indebitatosi per far ottenere un visto per la Corea del Sud alla moglie, sparita poi da diversi mesi senza farsi viva, si vede costretto ad accettare un incarico per conto di un boss locale: dovrà recarsi illegalmente proprio in Corea del Sud per uccidere un uomo. Ma le cose si complicano quando scopre la verità sulla scomparsa della moglie e, soprattutto, di non essere l’unico assoldato per quell’omicidio.

The Chaser è stato uno degli esordi più sorprendenti del cinema coreano recente, e non solo dal punto di vista commerciale. Nella sua opera seconda, Na Hong-jin alza decisamente il tiro: rimettendo in campo gli stessi due attori del primo film (Yun-seok Kim e Ha Jung-woo) ma a ruoli invertiti, mette in scena un altro noir tesissimo e violento, basato non soltanto sul suo ormai noto talento per le fughe a piedi ma su una visione del mondo ancora più cupa e disperata. Che questa volta esplode in una moltiplicazione di personaggi (la lotta per la sopravvivenza di Ku-Nam finisce presto sullo sfondo di una vera e propria guerra tra bande e tra “mondi” enormemente distanti quali sono il Yanbian e la moderna città coreana) e di trame che Na si diverte a mescolare selvaggiamente, confondendo le acque, ribaltando le aspettative fino alla drammatica risoluzione finale.

L’ambizione del film non va del tutto a suo vantaggio: costruito in capitoli ben distinti, The Yellow Sea è un film molto lungo e denso (anche se i 157 minuti originali sono stati saggiamente ridotti ai 140 del director’s cut) che forse non riesce a bilanciare alla perfezione la complessità dell’intreccio con la capacità di tirarne le fila, e così il finale può persino portare lo spettatore a interrogarsi sulla comprensione stessa della trama. Ma sono difetti che passano in secondo piano rispetto alla bravura del regista, che riesce a compensare una certa confusione – ma solo nella seconda metà – con una furia davvero irresistibile, spingendo senza troppi pudori sul pedale sulla violenza (sopra la media locale: i colpi d’ascia non si contano, letteralmente) senza preoccuparsi troppo di stemperarla, finendo per azzeccare qualche sequenza davvero da antologia – il montaggio della fuga in Corea di Ku-Nam, la preparazione dell’omicidio, la sequenza in cui l’incredibile Kim Yun-seok si fa strada tra i nemici massacrando crani con un osso di bue – e, più in generale, uno stile che fa impallidire gran parte dell’action occidentale.

Il film è stato presentato a Cannes 2011 nella sezione Un Certain Regard. L’edizione britannica in dvd esce alla fine di marzo. Sul mercato internazionale viene distribuita la versione “director’s cut”, ovvero la stessa che ho visto io.

Per il momento non mi risulta sia prevista un’uscita italiana in sala.

La pelle che abito, Pedro Almodóvar 2011

La pelle che abito (La piel que habito)
di Pedro Almodóvar, 2011

In linea di massima, ho una conoscenza abbastanza approfondita dei miei gusti (e dei miei pregiudizi), ma nel caso dell’ultimo film di Almodóvar diverse reazioni particolarmente accese (di segno negativo, si intende) mi avevano convinto a tralasciarlo, a rimandarne la visione a tempo indeterminato. Fortunatamente ho deciso di tornare sui passi del mio (positivo) pregiudizio iniziale: La piel que habito è un film acceso e sorprendente, sregolato eppure terribilmente coerente, divertito e altrettanto divertente. Certo, è assai facile da disprezzare: scombinato, fallace (il finale moscio, alcune lungaggini, personaggi secondari abbozzati), esibizionista, e pressoché assurdo – che forse è anche un altro modo per dire passionale, sfrontato, provocatorio e vivo come sono i migliori film del regista. Che qui affronta temi a lui cari intrecciando ossessione amorosa e identità di genere ma filtrandoli attraverso un racconto che mescola il cinema horror d’autore con un melò fuori controllo; Almodóvar usa la splendida Elena Anaya come un’arma e sfida gli spettatori, le loro aspettative e le loro abitudini (soprattutto quelle legate alla narrazione e al transfert del desiderio sessuale) con perfidia e con ironia, con consapevolezza di sé (incluso il proprio stile e la propria filmografia) ma anche con una faccia tosta che può comprensibilmente attirare l’antipatia del pubblico: La piel que habito è un gioco che vive di un suo dettame interno che ha poco a che fare con il raziocinio e col rigore – ha tutto a che fare con la mania, la malattia, il tormento e – va da sé – con il cinema. Abbracciate senza troppe inibizioni le sue istanze, e accettato il fatto che non tutti i film di un regista amato debbano essere per forza intoccabili capolavori, La piel que habito è uno spettacolo follemente appassionante.

Our Idiot Brother, Jesse Peretz 2011

Our Idiot Brother
di Jesse Peretz, 2011

“You’ve got to get up every morning with a smile on your face, and show the world all the love in your heart, then people gonna treat you better: you’re gonna find that you’re beautiful as you feel” (Carole King, Beautiful)

Quello dell’individuo “alieno” che si inserisce all’interno delle rigide dinamiche di una comunità ristretta (spesso e volentieri una famiglia) sottolineandone le ipocrisie e poi facendone esplodere i meccanismi, è un modello oliatissimo e utilizzato assai spesso sia nella commedia che dramma, non solo nel cinema americano. Il film diretto da Jesse Peretz, regista noto soprattutto per i suoi videoclip (come Learn to fly dei Foo Fighters), ha la buona trovata – anche se non originalissima – di sostituire l’esogeno con l’endogeno: l’alieno in questione, interpretato da Paul Rudd, è infatti parte della famiglia ma concepisce la vita in modo totalmente opposto; è un fratello la cui “idiozia” non è patologica e non riguarda solo il suo look, ma piuttosto il rifiuto (parte inconscio e parte ingenuo) di conformarsi alle norme delle relazioni sociali – non a caso finisce puntualmente in galera, così come puntualmente viene scaricato a causa degli effetti disastrosi del suo candore. La sua famiglia, esattamente all’opposto, è infatti composta da tre sorelle con personalità ben distinte, ciascuna con il suo blocco emotivo: Elizabeth Banks è così impegnata nella carriera da non accorgersi di essere innamorata del suo vicino di casa Adam Scott, Emily Mortimer è la moglie succube di un regista di documentari (Steve Coogan) che la tradisce, Zooey Deschanel attraversa qualche indecisione sulla sua sessualità dopo aver tradito la sua fidanzata Rashida Jones con un uomo. Inutile dire quale sia il ruolo di Rudd, né cosa comporterà la sua candida e irruenta presenza nelle loro vite: il film è talmente schematico che si spiega da solo dall’inizio alla fine, la sua forza è altrove, nei dialoghi intelligenti e nelle interpretazioni del ricco cast (bravissimi soprattutto Rudd, la Banks, Coogan, la Jones e Scott) ma anche nell’idea di allontanare per un attimo la commedia dai territori demenziali, riavvicinandola al cuore dei personaggi in modo convincente, e senza risultare (troppo) stucchevole nella risoluzione della sua “lezione”. La voce di Carole King corre in aiuto sul finale, e non poteva esserci scelta più azzeccata: il film è tutto lì.

Il film dovrebbe essere nel listino Videa-Cde e potrebbe uscire (in sala? in dvd?) la prossima primavera, forse con il titolo Quell’idiota di nostro fratello.

Sleeping beauty, Julia Leigh 2011

Sleeping beauty
di Julia Leigh, 2011

Dovendo stilare una lista delle maggiori delusioni del 2011, ai primi posti potrebbe esserci Emily Browning, giovane australiana dal volto angelico che, dopo una breve carriera da child actress, aveva colpito tutti nel ruolo di Violet Baudelaire in Una serie di sfortunati eventi. Ai tempi era forse tutta presenza scenica, pure fotogenia, ma la promessa per il futuro era notevole.

Ma la colpa non è del tutto sua, povera ragazza: i due film a cui ha partecipato quest’anno come protagonista, sulla carta, erano occasioni preziose: come si può dire di no al nuovo film del regista di Watchmen, anche se accettare significa vestirsi come il cliché soft-porno della scolaretta sexy per buona parte del film? E come si può dire di no a un film che può vantare il beneplacito dell’illustre conterranea Jane Campion, anche se accettare significa non vestirsi affatto per una buona parte del film? Sul bruttissimo Sucker Punch si è già detto più del necessario; Sleeping Beauty, d’altra parte, è un film che va in una direzione completamente opposta con il suo stile asciutto ed essenziale (camera fissa, ripetitività nelle inquadrature e nelle scene, fotografia nitida e calligrafica), nel raccontare la storia di una studentessa-prostituta che finisce a lavorare per una professionale maîtresse, la cui specialità è proporre a ricchi anziani ormai impotenti delle “belle addormentate” (chimicamente) con cui giacere, e solo giacere, per una notte.

Ma al di là della messa in scena (raramente davvero funzionale e interessante) Julia Leigh si invischia tra velleità psicologiche, digressioni massacranti, un ritratto affettato dei personaggi (le tre cose insieme nel caso del pesantissimo monolog0 del primo cliente) e nel ritrarre questo inquietante ribaltamento dei meccanismi della passione resta vittima del proprio disgusto – spesso molto esplicito – nei confronti di un decadimento quasi apocalittico delle leggi del desiderio. Vorrebbe essere una riflessione sul possesso (e sul potere) della (e sulla) bellezza, ma finisce per essere tanto confuso quanto compiaciuto. E mortalmente noioso.

Una delusione, quindi? Il film lo è senza dubbio. Emily Browning, invece, non fa che stare al gioco, mettendocisi del resto con una devozione impavida che la Leigh non merita. E la sua performance, dimessa, quasi distratta, è l’altra faccia di quella compiuta ripetutamente dal personaggio: la sua esplosione finale, corrotta da un finale che tronca un film proprio nel momento in cui ottiene un’anima finora assente, lo mostra con precisione. Così come mostra che, al di là della sua bellezza, c’è davvero del talento. Ora serve soltanto qualcuno che, da dietro la macchina da presa, sia in grado di metterlo a frutto.

Warrior, Gavin O’Connor 2011

Warrior
di Gavin O’Connor, 2011

Il colpo da maestro di Warrior è aver messo in parallelo due storie costruite su un uso abile quanto smaccato dei cliché del film sportivo rappresentandone una sorta di elevazione alla seconda: l’audacia dell’operazione si rispecchia nella notevole durata del film (circa 140 minuti) che include di fatto due progetti narrativi distinti – quello dell’eroico ex soldato che si iscrive al torneo per dare i soldi alla vedova dell’amico e commilitone, e quello del professore che torna sul ring per salvare la sua casa e la sua famiglia dalla bancarotta. Incidentalmente, i due sono fratelli: ma fino a metà del film è un’informazione quasi irrilevante, perché la prima parte è costruita su una densa ma calma costruzione dei personaggi, di pari passo all’allenamento per il torneo che occupa l’ultima, lunghissima parte.

A quel punto il lavoro è stato fatto con tale abilità che è letteralmente impossibile tifare per l’uno contro l’altro, e qui sta la scaltrezza maggiore ma anche la chiave più immediata del successo di Warrior: perché si capisce, regole alla mano, che uno vincerà e l’altro perderà. E visto che il film carica per due ore sulle spalle possenti dei due protagonisti (Joel Edgerton e un sempre più incredibile Tom Hardy, enorme in tutti i sensi) un peso massacrante di sentimenti e risentimenti, senso di responsabilità, orgoglio personale, e via dicendo, con il perno robusto del conflitto paterno irrisolto (vedi alla voce Nick Nolte), l’esplosione sarà inevitabile. Moltiplicata per due, per mille.

Tutt’altro che un film di bruti sudati che si picchiano, quindi: Warrior è in verità un film terribilmente intimo, ma le catarsi familiari vengono risolte spaccandosi uno contro l’altro, vengono sussurrate tra le lacrime di dolore mentre intorno non si sente che il boato della folla. Sarà pure naif, non sarà sempre raffinatissimo, e i trucchetti del mestiere verranno pure sfruttati uno per uno senza esclusione di colpi (anche bassi), ma il risultato è davvero travolgente – e spudoratamente struggente. Ciliegina sulla torta: due magnifici pezzi dei National a incorniciare il film. Whatever went away, I’ll get it over now. I’ll get money, I’ll get funny again. Walk away now and you’re gonna start a war.

Ho otto anni! Ho otto anni!

Questo blog ha otto anni, ieri.