2012

You are browsing the site archives by year.

Hara_kiri: Death of a samurai (2011) / Ace Attorney (2012), Takashi Miike

Il cinema di Takashi Miike è sempre stato difficilmente incasellabile ed etichettabile. Da qualche anno, il riconoscimento da parte della critica internazionale e il successo di alcuni suoi film in patria (in particolare Crows Zero) ha portato a una separazione tra anime ben distinte. Semplificando al massimo, da una parte ci sono i film che vengono presentati ai grandi Festival come 13 Assassins a Venezia nel 2010 e Hara-Kiri quest’anno a Cannes, dall’altra i film prodotti per il pubblico locale come Ninja Kids (2011) e Ace Attorney. È davvero strano pensare che i due film di questo post siano usciti a quattro mesi di distanza.

Hara-kiri: Death of a samurai (Ichimei)
di Takashi Miike, 2001

Per il secondo anno di seguito dopo 13 Assassins, Takashi Miike ha deciso di affrontare la tradizione dei chambara girando il remake di un film degli anni sessanta. Ma la sfida qui è moltiplicata: Harakiri di Masaki Kobayashi (in originale Seppuku) è uno dei film di samurai più famosi di sempre (venne persino presentato a Cannes) ed è considerato un classico del suo genere oltre che uno dei titoli più rappresentativi di uno degli autori nipponici più celebrati. E non solo: il remake è in 3D, primo film di questo tipo a essere ammesso a Cannes. Nonostante il rischio di un attrito nell’incontro tra tradizione e modernità, Miike si mostra ancora una volta all’altezza del compito riprendendo – oltre alla complessa struttura narrativa a flashback – molte suggestioni visive già presenti nel film di Kobayashi, ispirandosi all’originale fin dai titoli di testa, replicando la composizione delle inquadrature e in particolare la posizione statica e pittorica dei corpi nello spazio. Quello di Hara-kiri è un Miike diverso da quello che siamo stati abituati a vedere, controllato, preciso, senza una sbavatura, che si concede nella prima metà una scena di seppuku dalla violenza quasi insostenibile, ma che poi si concentra con stile essenziale sul racconto di un abisso tragico che si dipana man mano rivelando l’assurdità e l’ipocrisia dell’onore feudale, fino all’inevitabile duello finale. Che è distante dalla furia di 13 Assassins: qui lo scontro avviene in modo quasi caotico, con i corpi dei samurai che sbattono uno contro l’altro, affaticati e pesanti, privati di ogni codice e senso. Visivamente splendido (il direttore della fotografia è ancora Nobuyasu Kita), Hara-kiri vede anche l’incontro sullo schermo di due grandi attori: Yakusho Kōji è una star del cinema e della tv, mentre il protagonista (il cui vero nome è Takatoshi Horikoshi) è l’attuale e undicesimo Ichikawa Ebizō, ultimo rappresentante di una grande famiglia del teatro Kabuki. Una sfida meravigliosamente vinta.

Ace Attorney (Gyakuten saiban)
di Takashi Miike, 2012

Per chi non frequenta affatto il mondo dei videogame, può sembrare bizzarro che esista una serie adventure per Nintendo DS (nata su Game Boy Advance) ambientata nelle aule dei tribunali, il cui scopo è la vittoria del caso di turno da parte di un avvocato difensore. Ma la serie della Capcom è in realtà un successo enorme, ha superato 4 milioni di copie vendute ed era inevitabile, vista la popolarità in Giappone, l’uscita di un film ispirato alle avventure dell’avvocato Phoenix Wright, più di 10 anni dopo l’uscita del primo capitolo. Per mettere in scena la schematicità dei processi del gioco, si è ambientato il tutto nel futuro (i processi si devono chiudere entro tre giorni, le prove sono presentate come ologrammi) la struttura narrativa riprende quella dell’originale, divisa tra il dibattito in aula e il lavoro di detection vero e proprio. Il film è quindi tutt’altro che un courtroom movie tradizionale, è attraversato da un umorismo nipponico surreale e sopra le righe, sembra piuttosto un anime in carne e ossa fin dall’improbabile look dei suoi personaggi, e non si ferma nemmeno di fronte a suggestioni soprannaturali (il protagonista viene spesso consigliato da un fantasma). La verità è che quasi tutto ciò che accade in Ace Attorney è dedicato ai fan del videogame, pieno com’è di citazioni e ammiccamenti, dai coriandoli che cadono sui personaggi alla chiusura del processo alla catch phrase che è il simbolo stesso del gioco: l’avvocato con il dito puntato che urla “Obiezione!”, cosa che nel film succede in continuazione. A volte il risultato di questo lavoro di adattamento è esilarante, più spesso è bizzarro e sgangherato, altre è quasi incomprensibile. Il grande problema, per i non iniziati, è un’insistita meccanicità: restituendo i procedimenti del gioco in modo fedele, Ace Attorney finisce per diventare freddo e ripetitivo, oltre che ingiustificatamente lungo – diciamo pure interminabile. Per fortuna Miike lavora in modo compiuto e serio su qualunque progetto: il film è prodotto con grande cura visiva e il regista, pur trattenendo molto del suo stile vorticoso (ma i fan riconosceranno marchi di fabbrica come i jump cut nel finale), gestisce con dimestichezza l’alternanza continua dei toni demenziali con quelli drammatici, e con l’aiuto del cast (notevole: Manfred von Karma è il Ryo Ishibashi di Audition, il “robotico” giudice è Akira Emoto, il Dr. Akagi di Imamura) riesce infine nell’impresa di rendere i suoi personaggi credibili, e a suo modo persino umani.

Bella addormentata, Marco Bellocchio / È stato il figlio, Daniele Ciprì 2012

Non amo paragonare tra loro film che non lo richiedano esplicitamente e in linea di massima preferisco considerare ciascuna opera come un oggetto a sé stante, lasciando i confronti in secondo piano, al limite come curiosità. Ciò nonostante, ho deciso di accorpare questi due film in solo post per alcune ragioni. Primo, per pigrizia e anche per brevità, visto che si è detto già tutto e il contrario di tutto (e un sacco di sciocchezze) su questi due film. Secondo, erano entrambi in Concorso al Festival di Venezia, dove il secondo ha vinto l’Osella tecnico. Terzo, i due film condividono molte presenze: in primis Daniele Ciprì (direttore della fotografia del primo, regista del secondo), ma anche il musicista Carlo Crivelli, la montatrice Francesca Calvelli e ben tre attori del cast: Toni Servillo, Fabrizio Falco, Pier Giorgio Bellocchio.

Bella addormentata
di Marco Bellocchio, 2012

Il primo pensiero che ho avuto uscendo dalla proiezione del nuovo film di Marco Bellocchio è quella di un’opera corretta o risistemata in corsa. Complice forse la collaborazione di Stefano Rulli, Bella Addormentata si configura seguendo i dettami del cinema italiano d’autore, serio e impegnato, fin dalla premessa: un racconto corale che ruota intorno a un tema forte (non tanto il caso di Eluana Englaro, quanto il dibattito generico sul diritto a vivere e a morire) inseguendo e intrecciando le vite di molti personaggi e cercando di trarre una complessità di conclusioni dalle loro specifiche vicende. Il cast e la direzione degli attori va nella medesima direzione, ed è proprio qui che il film inciampa, sulla sua stessa convenzionalità: molto esplicito e verboso, lo script lascia tantissimo campo libero agli attori ma non tutti si dimostrano all’altezza del compito. Per fare un esempio, se Rohrwacher e Riondino danno una strana, corporea umanità alla parte più interessante della storia, non si può dire lo stesso di Brenno Placido o di Gian Marco Tognazzi. Sembra una cosa da poco ma questa disorganicità nella direzione degli attori tende a inficiare intere sequenze, anche se Toni Servillo è ancora una volta eccellente: inaspettatamente sotto tono, a lui vanno le battute più felici dei dialoghi come quel “mi avete rotto il cazzo con l’immagine”. Si diceva dunque di un riscatto a posteriori perché è come se Bellocchio avesse preso la materia grezza e, in fase di post-produzione, l’avesse plasmata in qualcosa di molto differente: la splendida colonna sonora di Carlo Crivelli e l’intelligente montaggio di Francesca Calvelli contribuiscono a trasformare un’opera onesta e ambizosa ma zoppicante e ordinaria in un film a tratti intenso e potente. In ogni caso, è senza dubbio ammirevole l’equilibrio con cui Bellocchio mette in scena le sue storie, distaccando il più possibile la propria personale visione del mondo da quella, più complessa e sfaccettata, del mondo stesso. Cercando di porsi, in un atto di straordinaria umiltà almeno per un regista così sicuro di sé, più domande possibili. O meglio: più domande di quante siano quelle a cui lui stesso sappia rispondere.

È stato il figlio
di Daniele Ciprì, 2012

L’elemento più sorprendente dell’esordio in solitaria di Daniele Ciprì è il modo in cui il regista palermitano mostra di aver interiorizzato l’esperienza ventennale al fianco di Franco Maresco per trasferirla in una storia apparentemente più comune: un film ambientato nella Sicilia degli anni settanta che ruota intorno a una famiglia disagiata e alla possibilità. Ma in realtà È stato il figlio è uno dei film italiani più audaci e coscienziosamente folli degli ultimi anni. Incredibile e frastornante il modo in cui Ciprì riesce ad affiancare e dissolvere tra loro intenti e tonalità che non potrebbero essere più distanti, passando dallo sguardo grottesco su una Palermo da freak show (che in alcuni momenti richiama direttamente i tempi di Cinico Tv) a un’intensità drammatica devastante, da una sotterranea comicità caratterizzata da un feroce cinismo fino a una risoluzione che sembra uscita da un film horror, il tutto inserito in una geniale cornice narrativa che verso la fine si fa beffarda e apocalittica. Senza dimenticare l’apporto tecnico e artistico: anche qui un grande lavoro di Crivelli e della Calvelli, ma Ciprì è prima di tutto un direttore della fotografia e non si smentisce curando le immagini del film con un’attenzione e una precisione pittorica ma anche con un vigore e a tratti con una furia visionaria spiazzante. Un film buffo e mostruoso, inquietante e surreale, spassoso e tragico: non c’è nessuno al momento in Italia, pochissimi in tutta Europa, in grado di girare un film così. Avrebbe meritato più attenzione da parte del pubblico e, a monte, da parte dei media.

As One, Moon Hyeon-seong 2012

As One (Korea)
di Moon Hyeon-seong, 2012

Nel 1991 in Giappone si svolge il 41° campionato mondiale di tennis tavolo e per la prima volta dalla scissione, Corea del Nord e Corea del Sud decidono di formare una sola squadra con cui affrontare l’apparentemente imbattibile team cinese. È il primo passo di un accordo che in realtà, lo sappiamo fin dall’inizio, non avrebbe portato lontano: oggi le due nazioni sono ancora divise da una frontiera invalicabile. Ma ai tempi in Corea il torneo travolse l’opinione pubblica con il suo devastante potere simbolico diventando nel corso degli anni uno degli eventi sportivi più noti e celebrati, non senza malinconia, della storia della nazione. Per raccontare un momento storico così radicato nella memoria collettiva, Moon Hyeon-seong (che ha raccolto il testimone del progetto da Kim Ji-woon) ha scelto di seguire le vicende reali (con la consulenza dei veri protagonisti) guardandole attraverso la lente illuminante del cinema popolare: As One segue in tutto e per tutto i precetti del film sportivo, partendo dalla diffidenza tra atleti provenienti da due mondi diversi fino all’amicizia e alla complicità, concentrandosi soprattutto sul rapporto tra le due eroine del torneo, Hyun Jung-hwa per il Sud e Li Bun-Hui per il Nord, raccontato quasi come una storia d’amore messa a dura prova dalle avversità della Storia. Le due attrici (rispettivamente Ha Ji-won e la fantastica, perfetta Bae Du-na) offrono una prova convincente e intensa (un peccato non poter cogliere i frutti del lungo lavoro fatto dal cast sulle differenze linguistiche e di accento) e Moon al suo esordio alla regia mostra un talento davvero magistrale nello sfruttare, sfrontato ma disperatamente nostalgico, i cliché del genere per andare dritto al cuore dello spettatore, senza tirarsi mai indietro di un passo e mescolando con grande abilità la coscienza civile e i sentimenti spezzati dei suoi personaggi. E contravvenendo alle regole soltanto nell’ultimo, devastante, quarto d’ora di film, quando il potere dello sport e del cinema viene annichilito dall’inevitabile crudeltà dei fatti. Il risultato è una pacchia infinita per chiunque vada a nozze con il cinema sportivo, e uno dei film più maledettamente commoventi che io abbia visto negli ultimi tempi.

Il film è stato un discreto ma non enorme successo, per ora è 18° tra gli incassi dell’anno in Corea.

Il dvd al momento sembra essere disponibile solo in edizione coreana (Regione 3) a circa 23 euro.

Compliance, Craig Zobel 2012

Compliance
di Craig Zobel, 2012

Non sorprende che la presentazione di Compliance al Sundance Film Festival abbia suscitato qualche colorita polemica nel pubblico. Succede almeno una volta in ogni Festival che si rispetti e, in molti casi, succede con uno dei titoli più interessanti. Non fa eccezione l’opera seconda di Craig Zobel, ex collaboratore in vesti produttive di David Gordon Green durante il suo periodo indie, che pigia senza girarci troppo intorno sul pedale della provocazione – ma tutt’altro che fine a se stessa. Il film racconta in modo personale e romanzato (ma non così lontano dai fatti) una vicenda realmente accaduta e piuttosto discussa negli Stati Uniti, anche se così assurda da sembrare una leggenda metropolitana: la manager di un fast food riceve la telefonata di un uomo che si presenta come un poliziotto accusando di furto una delle sue dipendenti e spingendola a chiudere la ragazza in uno stanzino in attesa che le indagini procedano. Ovviamente la storia prende la piega più inquietante che riusciate a immaginare, ma pur non andando sul sottile Zobel bilancia la perfidia narrativa e il suo strisciante sarcasmo con un sostanziale rigore, dirigendo con grande precisione e andando dritto al nocciolo della questione, una riflessione sia psicologica che culturale e in qualche modo satirica (non a caso siamo in un fast food, uno dei templi della cultura americana) sulla cieca “compiacenza” di fronte al potere e sui meccanismi della persuasione, in cui la coercizione non soltanto costringe a fare ciò che non avremmo fatto ma può arrivare a spingerci a fare ciò che avremmo desiderato, fungendo da giustificazione morale. La magnifica Ann Dowd, con la sua disturbante performance, è il fiore all’occhiello di un film compattissimo, profondamente sgradevole, terribilmente intelligente.

The Bourne Legacy, Tony Gilroy 2012

The Bourne Legacy
di Tony Gilroy, 2012

La storia del cinema (e della tv) non manca di saghe in cui, a un certo punto, l’attore principale è costretto o sceglie di abbandonare e deve essere sostituito: da James Bond a Doctor Who, i motivi produttivi possono essere diversi, così come le giustificazioni narrative. Il caso di Bourne Legacy è particolare: come si può continuare una serie di film incentrati interamente su un personaggio e su una star senza avere più l’attore che lo interpretava, ma senza rinunciare al marchio che si portava dietro? Tony Gilroy, che ha co-sceneggiato i tre film di Jason Bourne con Matt Damon, ha trovato una soluzione abbastanza sensata: lo svelamento dell’operazione al centro dei precedenti film rischia di coinvolgere un’altra serie di progetti segreti con caratteristiche simili. L’idea ha un duplice effetto: primo, si può fare un film di Bourne senza Bourne, aprendo la strada a un nuovo franchise. Secondo, ci si può ampliare potenzialmente all’infinito – e staremo a vedere se Frank Marshall e Kathleen Kennedy vorranno o sapranno prendere la palla al balzo creando di volta in volta nuove operazioni e nuovi agenti. Tutti questi ragionamenti stanno a monte, ma sono in qualche modo più interessanti del film in sé: va detto però che The Bourne Legacy fa il suo dovere in modo compiuto, è un thriller professionale e divertente, lunghissimo ma per nulla monotono. Visto che Gilroy si trattiene e non vuole strafare, né ha probabilmente le capacità per farlo, il valore aggiunto è sicuramente nel cast: Rachel Weisz e Jeremy Renner sono bravissimi, splendidi a vedersi, e terribilmente convincenti. Ovviamente gran parte del film sembra la fase preparatoria per il puntuale, lunghissimo inseguimento nelle Filippine, che è effettivamente la parte migliore del film, con uno sguardo su Manila tutt’altro che turistico o da cartolina (un’enorme fabbrica operativa tutta notte, tetti di case che sono più che altro baracche, il traffico impressionante della città) ma purtroppo il film si spegne sul più bello con un finale prima troncato e poi aperto al sequel, tutt’altro che soddisfacente. Si sono poste le basi per una nuova saga, e lo si è fatto piuttosto bene: il secondo capitolo richiederà però più senno ed equilibrio. E magari un vero regista.

Ribelle – The Brave, Mark Andrews e Brenda Chapman 2012

Ribelle – The Brave (Brave)
di Mark Andrews e Brenda Chapman, 2012

Mettiamo per un attimo da parte la discussione sulle differenze tra Disney e Pixar, più precisamente quelle sul perché molti (incluso il sottoscritto) abbiano notato un sostanziale, diciamo così, riavvicinamento dei due marchi e delle loro anime: è senza dubbio un argomento interessante, altrimenti non se ne starebbe parlando così tanto da mesi sia qui che oltreoceano (e rimanendo in casa, su Friday Prejudice) ma è un argomento dal fiato piuttosto corto (e che tiene raramente conto del fatto che John Lasseter sta portando molto della sua esperienza Pixar in Disney) ma che sta catalizzando eccessivamente l’attenzione, sacrificando in qualche modo il valore in sé di un film bellissimo come Ribelle. Sarebbe un peccato: il film di Mark Andrews che la Chapman ha concepito per poi venire allontanata poco garbatamente fuori dalla porta, è un’eccezionale variazione sul tema della fiaba tradizionale, aggiornata a tempi – quelli in cui un ragazzina, anche se è una principessa, ha ben altro a cui pensare che metter su famiglia col primo venuto e in cui il proprio orgoglio può fare più danni di una strega malvagia – ma tutt’altro che capovolta o sbeffeggiata. A veder bene, lo schema di Propp calza ancora come un pennello, ma questo senso di continuità dà persino più valore a un film costruito con una sapienza e con una maturità straordinarie, profondamente umano oltre che – va da sé – tecnicamente superbo. Il colpo di genio è stato spostare il fulcro tematico della fiaba, quello che sta tra il “danneggiamento” e il “superamento”, sul rapporto tra la protagonista e la madre, un’idea che rende immediatamente universale e senza tempo un film il cui unico rischio era di risultare in qualche modo anacronistico. Impossibile o quantomeno poco corretto dire di più: la Pixar ha ripetuto un meccanismo promozionale già sperimentato in Wall-E, rivelando nella pubblicistica solo il primo atto del film. Sarà pure una semplice strategia, ma permette agli spettatori di recuperare un senso della sorpresa e della meraviglia che spesso sembra perduto. E nella parte successiva del film ce ne sono davvero tante, di cose per cui meravigliarsi: come le regole di un mondo intero che vengono sovvertite dall’improvviso, folle ed emozionante potere della magia.

Il cavaliere oscuro – Il ritorno, Christopher Nolan 2012

Il cavaliere oscuro – Il ritorno (The Dark Knight Rises)
di Christopher Nolan, 2012

Non è certo la prima volta che il terzo capitolo di una trilogia risulta più debole del secondo, se non di entrambi; restando nel ristretto recinto del cinema che viene dal fumetto, si potrebbero fare facili esempi come gli X-Men di Singer o gli Spider-man di Raimi. Anche il gran finale dell’oscura e serissima saga di Christopher Nolan, iniziata con il fragile e disarmonico ma a suo modo fondamentale Batman Begins e continuata con un inarrivabile (e ora piuttosto ingombrante) capolavoro come Il cavaliere oscuro, subisce in qualche modo i medesimi effetti: l’ansia di dover dire tutto prima che si chiudano i cancelli, la consapevolezza che questa è davvero l’ultima occasione; e finisce così inghiottito dalla sua stessa poderosa ambizione. Che non è, a dirla tutta, vuota presunzione: quello che Nolan ha fatto (e continua a fare anche qui) con il personaggio di Batman e con la città di Gotham, e in seconda battuta con un intero sistema produttivo che prima del suo arrivo sembrava avere prospettive assai meno esaltanti di quelle che possiamo vedere, è assolutamente encomiabile; anche Il Ritorno è un pezzo di cinema straordinariamente vitale, favolosamente anomalo, terribilmente epico e strabordante, quanto e più del suo predecessore. Ma è in qualche modo la sua stessa densità a metterlo in difficoltà: si ha la sensazione di un film troncato (letteralmente, al montaggio) da esigenze contingenti, di un’opera dalle aspirazioni gigantesche rinchiusa tra pareti troppo strette (ed era anche compito di Nolan, calcolare la metratura), e il desiderio di chiudere i conti anche con Begins oltre che con Il cavaliere oscuro rende tutto più confuso e incerto.

Le caratteristiche più peculiari delle sceneggiature dei fratelli Nolan sembrano aumentare gli ostacoli: la verbosità, l’insistita e ricercata gravità, l’ispirazione politica (qui ancora più evidente che in passato, fin troppo) finiscono per trasformare la prima ora e mezza del film in un caos indisciplinato che scambia l’abbondanza con la coralità; per fortuna tutta la parte conclusiva è una battaglia formidabile e sfiancante, che mostra tra l’altro una notevole evoluzione di Nolan sulla gestione delle scene d’azione. Christian Bale, dalla sua, appende il costume al chiodo con la performance meno convincente della serie, ma non è colpa sua: l’attenzione verso i comprimari e il suo ruolo simbolico lo trasformano ancora di più in una figura quasi marginale, come è marginale peraltro (usando un esempio specifico) la deludente parte della prigione rispetto a quella, raccontata in parallelo, dell’occupazione di Gotham. In tal senso, i comprimari qui moltiplicati sono ancora una volta il vero punto di forza del film: Joseph Gordon-Levitt, il migliore in scena, trasmette un senso di eroismo con una naturalità eccezionale, Tom Hardy è prevedibilmente magnifico e possente, Michael Caine regala il terzo memorabile Alfred. La sorpresa maggiore, a scapito di una Marion Cotillard bellissima ma impigrita, è probabilmente Anne Hathaway, al cui personaggio viene spesso data la responsabilità di alleggerire una pellicola pesante come il piombo, e ci riesce alla perfezione.

Alla fine di fronte a Il cavaliere oscuro – Il ritorno sembra ridursi tutto a un contrasto banale e fuorviante dovuto al confronto con l’impaccio di un secondo capitolo troppo bello per essere ripetuto, quello insomma tra potenza e atto: non è il film che, viste le premesse, avrebbe potuto o dovuto essere? D’accordo. Ma è comunque un film esuberante e generosissimo, coraggioso ed entusiasmante. Pur con tutti i suoi limiti e difetti, viene più voglia di ringraziare che di accanirsi.

***

Non mi vorrei soffermare troppo sulla questione del doppiaggio italiano, già sottolineata da chiunque – anche perché è l’obiettivo più facile e, se volete, più divertente – ma contribuisce in modo decisivo alla piacevolezza della visione e quindi vale la pena di citarla. Se in lingua originale la voce di Bane ha creato non pochi problemi in post-produzione costringendo il montaggio del sonoro a fare dei veri salti mortali, in Italia è stata affidata a Filippo Timi, che purtroppo ha trasformato la minacciosa e inquietante performance vocale di Tom Hardy in un teatrino enfatico che spesso sfiora il ridicolo. Un grave errore di valutazione, pagato solo dagli spettatori.

Damsels in distress, Whit Stillman 2011

Damsels in distress
di Whit Stillman, 2011

Distribuito in sole quattro sale in piena estate senza un briciolo di promozione nonostante sia stato il film di chiusura di Venezia lo scorso anno, Damsels in Distress è il film che vede il ritorno di Stillman alla regia 13 anni dopo The Last Days of Disco. Ed è un peccato che pochi abbiano potuto apprezzarlo sul grande schermo, almeno in Italia: è una commedia intelligente e divertentissima, che utilizza con grande libertà (e con un talento visivo notevole) un’ambientazione abusata come quella scolastica senza cercare a tutti i costi di stravolgerla, e spesso incanta con un umorismo che lega con un filo quietamente scombinato e folle (ma che non si fa mai trascinare via dall’ansia surrealista) le arguzie dei brillanti dialoghi a un sincero e coinvolgente sentimentalismo, finendo per risultare quanto di più differente ci sia dalla somma dei suoi fattori.

Il segreto della sua originalità sta probabilmente nell’approccio empatico ai suoi personaggi, che Stillman affronta dal medesimo punto di vista di Lily, interpretata da Analeigh Tipton: ne ritrae la bizzarria, la vanagloria, a volte persino l’ignoranza, ma non li deride mai né li condanna, trovando anzi in ognuno di loro un lampo di genio, capace magari di cambiare in meglio la vita degli altri grazie alla forza di volontà – e senza dubbio la nostra, nel suo piccolo, quantomeno per la durata del film. E il regista che nel suo penultimo film aveva scelto come protagonista Chloë Sevigny, trova un’impareggiabile alleata proprio nell’attrice che secondo molti è la sua equivalente di questi anni, la favolosa Greta Gerwig: la sua Violet Wister è un personaggio inaudito ed eccentrico, eppure profondamente umano.

In attesa dell’uscita italiana in dvd, è già disponibile l’edizione inglese.

Bernie, Richard Linklater 2012

Bernie
di Richard Linklater, 2012

Negli ultimi anni, l’imitazione dei linguaggi del documentario ha avuto molta fortuna, sia al cinema che in tv. Non solo nel mockumentary propriamente detto (cioè dove viene imitata precisamente la metodologia del documentario), ma anche – per esempio – in serie tv come Modern Family in cui i personaggi di tanto in tanto si rivolgono alla macchina da presa, come a un confessionale. Pur essendo costruito su un’alternanza tra fiction tradizionale e interviste, il film di Linklater si discosta per una ragione molto semplice: il film è tratto da una storia vera che quasi tutti gli intervistati hanno realmente vissuto da testimoni, perlopiù passivi. Quasi, appunto: nel momento in cui un membro del cast come Matthew McConaughey (e non solo) diventa oggetto della stessa analisi, indistinguibile rispetto alle interviste con i veri abitanti di Carthage in Texas, appare evidente quanto sia brillante la modalità con cui il regista di A Scanner Darkly è intervenuto a gamba tesa sullo stesso statuto di realtà del film, facendo danzare verità e finzione senza intermediazioni – fino alla totale sovrapposizione, nei titoli di coda. In tal senso, la storia di Bernie e Marge non è quasi nemmeno più il fulcro dell’interesse di Linklater, l’obiettivo è soprattutto raccontare una piccola comunità qualunque della provincia americana, con le sue facce e il “suo” fatto di cronaca, avvicinandosi a una spanna dalla sua personalissima morale senza aver alcuna pretesa di controbatterla. Ma al di là del felicissimo – a tratti illuminante – procedimento narrativo scelto dal regista, Bernie resta comunque anche una bella commedia nera, divertentissima anche se stranamente garbata e gentile, e interpretata splendidamente dai suoi tre protagonisti. E il re del film è indubbiamente Jack Black, che aveva già dato il suo meglio proprio con Linklater in School of Rock: lavora ironicamente sulle sue ossessioni come quella per il canto, misura i toni, si inventa un personaggio candido dalla mimica irresistibile: fenomenale.

Nameless Gangster, Yun Jong-bin 2012

Nameless Gangster (Bumchoiwaui junjaeng)
di Yun Jong-bin, 2012 

Siamo a Busan all’inizio degli anni novanta. Per ordine del Presidente in persona, comincia un’intensa e strategica lotta al crimine organizzato. Una delle persone coinvolte negli arresti è Choi Ik-hyun (interpretato da Choi Min-sik), ma un flashback ci rivela subito la verità sulle sue origini: meno di un decennio prima, Choi è un doganiere dagli incerti confini morali che si ritrova tra le mani un carico di eroina, sul quale cercherà di costruirsi una nuova (mala)vita. Uno dei maggiori incassi di quest’anno in Corea del Sud, svolgendosi tutto nel corso degli anni ottanta, sembra inserirsi in qualche modo nel filone nostalgico che ha avuto così grande successo negli ultimi tempi; in realtà si tratta di un robusto gangster movie, scorsesiano più negli sviluppi narrativi che nella messa in scena onesta e professionale di Yun Jong-bin, costruito quasi interamente sull’ambiguità del protagonista: un personaggio diviso tra talento e vigliaccheria, tra sfrontata arroganza e totale passività di fronte agli eventi. Diretto con mano sicura senza mai strafare, limitando al minimo i guizzi di stile e le scene madri (anche se la sequenza in cui Ik-hyun provoca volontariamente il rivale di Hyung-bae per scatenarne la rappresaglia è magistrale) il film lascia spazio libero ai due attori: buona parte del film è infatti incentrata sul rapporto tra il protagonista e Choi Hyung-bae, un giovane gangster lontano parente (intepretato dal favoloso Ha Jung-woo di The Chaser e The Yellow Sea) con cui Ik-hyun crea un’apparente situazione di co-dipendenza. E quella di Choi Min-sik è, ancora una volta, una performance memorabile: ironica, tagliente e sofferta, il ritratto di uno sgradevole perdente il cui cinismo infettivo si cela dietro una maschera innocua e banale, quasi ridicola. Più pericolosa e resistente di qualunque decaduto codice d’onore.

Per il momento del film, uscito a febbraio in patria, esiste solo un’edizione dvd coreana (Regione 3).

Pirati! Briganti da strapazzo, Peter Lord 2012

Pirati! Briganti da strapazzo (The Pirates! In an Adventure with Scientists)
di Peter Lord (e Jeff Newitt), 2012

Non è semplice trasmettere a parole il divertimento, la grazia, l’umorismo e la strabiliante ricchezza di invenzioni del quinto film della Aardman, diretto dal co-fondatore Peter Lord, tornato alla regia 12 anni dopo Galline in fuga. La tentazione è quella di cascare nel gelido elenco: dalla presentazione della ciurma (“and some of you are just fish I’ve just dressed up in a hat”) agli assalti falliti alla nave fantasma e a quella dei lebbrosi, all’ingresso in scena del pirata che spunta dal ventre di una balena. Si potrebbe continuare per ore. Singole gag a parte, la bellezza di The Pirates! è il suo essere un divertimento estremamente colto, pieno di citazioni e battute legate alla storia del Regno Unito e della scienza, oltre che caratterizzato da una sagacia che più british non si può (e il “surprisingly curvaceous pirate” è una citazione piuttosto esplicita di Brian di Nazareth), ma allo stesso tempo un divertimento forsennato e inarrestabile grazie al ritmo furibondo con cui le trovate si susseguono e all’incredibile caratterizzazione di tutti i personaggi. Di cui inevitabilmente il re è Bobo, la scimmia di Charles Darwin che si esprime con i cartelli come Wile Coyote, a cui sono affidati alcuni dei maggiori colpi di genio del film – come quando si ritrova all’improvviso a suonare i timbani di Also Sprach Zarathustra e fa spallucce al suo padrone – ma anche la Regina Vittoria doppiata da Imelda Staunton, con il suo segreto steampunk, è davvero ingegnosa. Uno spasso indemoniato, tutt’altro che freddo e calcolatore, che fa scolorire per contrasto gran parte dell’animazione d’oltreoceano. E con un terzo del budget.

Take Shelter, Jeff Nichols 2011

Take Shelter
di Jeff Nichols, 2011

La vita di Curtis, tranquillo operaio di una piccola cittadina dell’Ohio, viene sconvolta da sogni apocalittici: inquietanti nuvole nere portano una tempesta di pioggia che sembra miele e tutti gli uomini, anche le persone più vicine a lui, sembrano impazzire. Convintosi che siano una sorta di presagio, Curtis si mette in testa di rimettere in funzione il rifugio antiatomico nel suo giardino. Dopo essere stato “scoperto” dal suo concittadino e compagno di studi David Gordon Green, che nel 2007 produsse il suo esordio Shotgun Stories, Jeff Nichols si è fatto accompagnare ancora una volta dall’incredibile Michael Shannon, assolutamente perfetto per un ruolo simile, e ha confezionato con un budget relativamente ridotto un’opera seconda che pur avendo avuto poca fortuna nelle nostre sale (è stato distribuito, ma in estate e in pochissime copie) ha fatto molto parlare di sé (tra i molti premi, il Grand Prix della Semaine a Cannes) e meritava davvero una sorte migliore. Si tratta infatti di uno dei più sconcertanti e originali film americani dello scorso anno, capace di unire a un ritratto intimo e riflessivo di una famiglia normale travolta dall’imprevisto, e allo scavo ossessivo e spesso doloroso dei personaggi (ottima anche Jessica Chastain nel ruolo della moglie), una visionarietà autenticamente orrorifica e allucinata, facendo piombare il soprannaturale in un mondo che si rifiuta di abdicare ai propri statuti di realtà e realismo, seducendo e disorientando lo spettatore con un abbattimento progressivo dei confini tra il sogno e la veglia, tra la sanità e la follia. Come spesso accade in film in cui si solleva il dubbio sulle facoltà mentali del protagonista, Nichols sembra lasciare fino all’ultimo momento una persistente incertezza ontologica; ma in definitiva il suo è un formidabile crescendo emotivo che punta a riappropriarsi – con risultati stupefacenti – di un’interpretazione univoca, ma terribile e terribilmente affascinante nella sua forza espressiva. Un film prezioso, terrificante e ipnotico, che non vi lascerà andare così facilmente.

Il film è già disponibile in dvd e blu-ray nell’edizione britannica.

R.I.P. Tony Scott (1944-2012)

Tony Scott si è tolto la vita ieri a Los Angeles. Aveva 68 anni.

Friends with Kids, Jennifer Westfeldt 2012

Friends with Kids
di Jennifer Westfeldt, 2012

Il fatto che Friends with Kids abbia buona parte del cast secondario in comune con un film così recente e di così grande successo (in patria) come Bridesmaids può trarre facilmente in inganno: in verità, si tratta di una vera e propria commedia romantica che si appropria di molti canoni del genere (arrivando nel finale a citare quasi esplicitamente un altro esemplare newyorkese come Harry, ti presento Sally) aggiornandola semmai ai linguaggi che proprio Judd Apatow ha imposto alla commedia americana in veste di produttore dal 2005 in avanti, soprattutto nello stile di scrittura e nella direzione degli attori. Nonostante il cast e la pubblicistica suggeriscano un impianto corale, il film ruota principalmente attorno ai personaggi interpretati da Adam Scott e Jennifer Westfeldt, e alla loro scelta di avere un bambino “da amici”, per togliersi il pensiero prima dei quaranta, saltando tutte le conseguenze nefaste del matrimonio e dell’eventuale divorzio; non si rivela granché dicendo che le conclusioni non potranno avanzare in questa stessa direzione, ma la regista presenta il percorso dei personaggi con innegabile freschezza e coerenza, schivando le tentazioni più conservatrici proprio presentando un affresco della vita di coppia che qualche volta scivola nel cliché – il contrasto tra le coppie prima e dopo i figli – ma sa anche affondare la lama, mostrando in definitiva più interesse per il completamento di un percorso narrativo romantico che per l’imposizione di un sistema di pensiero e mantenendo fino all’ultimo secondo la convivenza tra il sentimentalismo e la trivialità dei dialoghi. Ovviamente Jennifer Westfeldt (nota ai più per la sua performance in Kissing Jessica Stein e poco altro) è il cuore del film, essendone produttrice, sceneggiatrice e regista (alla sua opera prima), e oltre a essere una dialoghista a tratti irresistibile riesce a imporre nel film una classe non indifferente che assomiglia al suo stile recitativo; affianca alla commedia pura improvvisi tocchi drammatici gestiti con una sicurezza sufficiente a non far deragliare completamente la storia, e possiede un’umiltà (forse mista a insicurezza: non si può dire che sia tutto al suo posto, ma dopotutto è un’opera prima) che la spinge a mettersi spesso in un angolo lasciando lavorare comprimari più carismatici di lei. In tal senso, l’inusuale rimescolamento tra realtà e finzione (Jon Hamm è il compagno della regista da 15 anni, Adam Scott è loro amico da tempo ed è stato proprio il suo matrimonio la fonte di ispirazione della storia) contribuisce indubbiamente a rendere più affiatato un cast già di per sé straordinario, ma la grande sorpresa è proprio Adam Scott, non solo per il suo collaudato talento comico (chi l’ha già seguito e amato in serie come Party Down e Parks and Recreation lo sa bene) ma per un’inattesa intensità drammatica che spalanca una finestra sui lati più inesplorati della sua bravura.

Il pescatore di sogni (Salmon fishing in the Yemen), Lasse Hallström 2011

Il pescatore di sogni (Salmon fishing in the Yemen)
di Lasse Hallström, 2011

Emily Blunt è una di quelle attrici che possono far passare facilmente in secondo piano i limiti dei film in cui recitano: questione di innegabile bravura ma anche di presenza scenica, di talento comico come di intensità drammatica. Quando c’è Emily Blunt sullo schermo, è difficile distogliere lo sguardo. Purtroppo, non sempre i film da lei scelti sono alla sua altezza. Ed è un peccato che questa commedia romantica diretta (senza particolari sforzi) da Lasse Hallström e scritta (con qualche buona idea) da Simon Beaufoy risulti così ordinaria pur essendo tratta da un libro così improbabile e bizzarro: messa da parte l’ispirazione blandamente satirica con cui è ritratto il grigio burocrate di Ewan McGregor e le suggestioni surreali che la trama potrebbe ispirare, il film prende presto la strada indicata dallo sceicco illuminato Muhammad di Amr Waked, che però in relazione ai protagonisti non è altro che una variante del magical negro e che contribuisce a portare a più riprese la pellicola sull’orlo del ridicolo involontario, abbandonando l’ironia british e finendo per prendere troppo sul serio i suoi banalotti vaneggiamenti sulla ricerca del proprio posto del mondo, metafore con salmoni incluse. Il film poi è tempestato di paesaggi che sfumano nella cartolina turistica, ma in verità, come previsto, è la bravura di Blunt e McGregor (senza dimenticare Kristin Scott Thomas: la tenace e cinica ufficio stampa del primo ministro inglese sarà un semplice comic relief ma è anche la cosa migliore del film) a tenerlo in piedi fino alla fine, non senza una gran faticaccia.

Casa De Mi Padre, Matt Piedmont 2012

Casa De Mi Padre
di Matt Piedmont, 2012

Non è proprio un complimento, si capisce, ma Casa De Mi Padre è un film quasi più divertente da raccontare che da vedere. L’idea dell’ennesimo veicolo di Will Ferrell, suo ritorno alla comicità pura dopo l’esperienza di Everything must go, è piuttosto semplice: il film è girato e realizzato come una telenovela messicana, così filologico da includere anche imprecisioni e tratti amatoriali, che diventano a loro volte spunto di gag “meta” non originalissime ma a volte piuttosto sottili – come l’uso dei manichini sullo sfondo per risparmiare sul cast. La caratteristica più rilevante, e decisamente inusuale, è in verità quella di essere interamente (o quasi) recitato in spagnolo con sottotitoli, e gran parte dell’effetto comico deriva dal fatto che Ferrell è l’unico (o quasi) statunitense del cast – e che probabilmente, a giudicare dall’accento, non sa una parola di spagnolo. Il problema si può intuire: ottimo materiale per uno sketch, forse persino per una webserie; fondamenta un po’ fragili, invece, su cui costruire un lungometraggio. Nonostante il recente ritorno alla sua forma migliore con il buddy movie The Other Guys, qui Ferrell ha commesso due classici errori, forse originati dalla sua formazione televisiva e acuiti dal successo di Funny Or Die: primo, ha fatto un film in cui gli attori (inclusi Gael García Bernal e Diego Luna) sembrano divertirsi più degli spettatori. Secondo, ha fatto un film che esaurisce le energie dopo una ventina di minuti nonostante duri molto meno di un’ora e mezza. Ma il problema alla radice è un altro: non si ride. O almeno, non come si potrebbe. Messe da parte alcune sequenze effettivamente spassose (la scena di sesso, gli intermezzi musicali, le sparatorie al ralenti) e il comunque ottimo cast (Génesis Rodríguez è splendida, Nick Offerman una garanzia), a tratti Casa De Mi Padre sembra quasi prendere sul serio l’insistito melodramma che si era prefigurato di parodiare – ma purtroppo ha soltanto le armi per una goliardata di poco conto che, alla lunga, risulta mortalmente noiosa.

Il film è uscito negli Usa lo scorso marzo in un numero relativamente ridotto di schermi (meno di 400) facendo però un discreto incasso soprattutto grazie al pubblico ispanico. Il dvd americano è già disponibile, quello britannico è in arrivo a ottobre. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana. Un suggerimento all’eventuale distributore: fate i bravi, non doppiatelo.

R.I.P. Chris Marker (1921 – 2012)

È morto il regista francese Chris Marker, poco dopo aver compiuto 91 anni.

Il suo film più noto è il mediometraggio La Jetée: un assoluto capolavoro.

Goon, Michael Dowse 2011

Goon
di Michael Dowse, 2011

Il ruolo della violenza nel canone del film sportivo ha spesso un carattere oppositivo, di contrasto allo spirito del gioco. Goon parte da un presupposto diverso: sul campo da hockey il fallo è un elemento tattico di vitale importanza, capace di ribaltare le sorti di un torneo. Così Doug, pecora nera di una famiglia di medici, ingenuo buttafuori dal cuore d’oro senza alcun talento per i pattini ma capace di spaccare un casco a craniate, viene acquistato da una squadra della minor league per coprire le spalle a un giocatore eccellente ma traumatizzato e autodistruttivo, e ne diventa la star. Ma lo aspetta lo scontro inevitabile con un altro celebre picchiatore sul viale del tramonto. Ispirato alla vera storia di Doug Smith, le cui performance vengono mostrate durante i titoli di coda, e scritto dal co-protagonista Jay Baruchel insieme a Evan Goldberg (entrambi abituali sodali di Seth Rogen) Goon è una sorprendente e furiosa commedia iper-canadese che Michael Dowse, fresco del deludente Take Me Home Tonight, manovra con mano sicura, dirigendo le sequenze sportive con un ritmo forsennato e quelle romantiche (l’oggetto delle attenzioni di Doug è la bravissima Alison Pill) con affettuosa partecipazione, mantenendo sempre però il piglio irresistibilmente scorretto e parolacciaro richiesto dalla sceneggiatura. In ogni caso, ovviamente, il cuore del film è Seann William Scott, un candido antieroe dalla testa dura per cui è impossibile non fare un tifo sfegatato.

Il film è stato presentato a Toronto nel 2011, è uscito in UK lo scorso gennaio, in Canada e negli USA a febbraio. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

C’era una volta in Anatolia, Nuri Bilge Ceylan 2011

C’era una volta in Anatolia – Once upon a time in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu’da)
di Nuri Bilge Ceylan, 2011

Un dottore che viene dalla città, un pubblico ministero con problemi alla prostata, il capo della polizia e alcuni membri delle forze dell’ordine accompagnano nella steppa dell’Anatolia Centrale due fratelli ammanettati, rei confessi, alla ricerca del corpo dell’uomo che hanno ucciso ubriachi. A causa del buio e dei postumi i due però non riescono a riconoscere il luogo dove l’hanno seppellito. Comincia così il film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore del Gran Prix a Cannes (pari merito con i Dardenne), ma è evidente che siamo distanti dai meccanismi del cinema investigativo: le auto si muovono lentamente in uno scenario buio e inospitale, i personaggi si fermano di tappa in tappa parlando di argomenti seri come faceti, fino a quando un dialogo tra il medico e il procuratore spalanca un’inquietante verità sulla vita di quest’ultimo. Aiutato dalla straordinaria fotografia di Gökhan Tiryaki, davvero una delle più ipnotiche e incredibili degli ultimi tempi, Ceylan gira con uno stile formidabile e controllatissimo (un esempio: l’inquadratura che si stringe lentamente sul viso sconvolto dell’omicida, seduto nei posti dietro dell’auto) che a volte sembra avere l’ambizione di avvicinarsi, almeno nei primi due atti, a un’idea di cinema puro: l’ingresso della figlia del sindaco, seguita dagli sguardi increduli dei personaggi quasi catatonici, increduli di fronte alla improvvisa, semplice quanto violenta bellezza, è una delle scene più intense degli ultimi tempi – ma il film è pieno di momenti rivelatori, silenziosi e scioccanti, in cui sono l’immagine e la natura a fare da commento ai turbamenti dell’umanità, come lampi nel buio che rivelano minacciosi volti incisi nella roccia. Nell’ultima parte poi il film si appropria di un punto di vista preciso, quello del medico, concentrandosi sul contrasto tra l’idealismo morente del dottore e la sua graduale, tragica rivelazione di una cecità morale che porta a una duplice perdita dell’innocenza. Un film bellissimo che, nonostante la durata e il ritmo indolente, chiede solo un po’ di impegno – e restituisce dieci volte tanto.

Jeff, Who Lives at Home, Mark e Jay Duplass 2011

Jeff, Who Lives at Home
di Mark e Jay Duplass, 2011

Jeff ha superato i trent’anni ma vive ancora nello scantinato della madre. Non lavora, fuma il bong, guarda le televendite e ha una verace passione per Signs, di cui condivide l’esasperato fatalismo. Pat è il manager di un ristorante, sposato e cieco alle esigenze della moglie: nonostante stiano mettendo via i risparmi per comprare una casa, a colazione le presenta la sua nuova Porsche parcheggiata nel vialetto. Jeff e Pat sono fratelli, anche se non si parlano mai. Anche Mark e Jay Duplass sono fratelli, ma lavorano insieme: sono stati tra i protagonisti del mumblecore, più che un movimento un’etichetta volta a semplificare una pulsione produttiva presente nel cinema americano indipendente lo scorso decennio, di cui vediamo in qualche modo le conseguenze nelle carriere di Greta Gerwig, Lynn Shelton, ma anche di Lena Dunham e dello stesso Mark come attore. L’inevitabile evoluzione commerciale dei due registi non ne ha però compromesso il talento né ha intaccato la semplicità del loro modo di raccontare: come e meglio che in Cyrus, i Duplass utilizzano attori noti (qui Jason Segel, Ed Helms e Susan Sarandon) per parlare di avvenimenti ordinari e sentimenti convenzionali, facendo però un passo in più, ovvero dando loro un respiro epico. Partendo da uno spunto cinefilo quantomeno peculiare (la passione di Jeff per il film di Shyamalan), da un’aderenza alle unità aristoteliche e da un’opposizione trasparente (quella tra la fiducia nel destino di Jeff e lo scetticismo di Pat), il film racconta una trasformazione della banalità in eccezionalità ma senza mai allontanarsi dall’immediatezza con cui sanno raccontare i personaggi, anche in rapporto alla realtà del tessuto urbano (che conoscono bene: qui siamo a Baton Rouge, i due registi sono di New Orleans). Il risultato abbraccia una visione del mondo entusiastica e forse un po’ naïf in cui la volontà è in grado di mutare la prosaicità del mondo: per fortuna il tutto è realizzato con senso della misura (il film non arriva all’ora e mezza di durata), con un’ironia garbata e irresistibile, una messa in scena intelligente e originale, lontana dai vezzi più amatoriali, e ovviamente un impagabile trio di attori. Sette anni dopo The Puffy Chair, per la carriera dei Duplass non potevamo sperare di meglio.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.