Lincoln
di Steven Spielberg, 2012
L’immagine che apre il film, di grande impatto e assai familiare per Steven Spielberg, è quella dei soldati della Guerra Civile che si affrontano corpo a corpo. Ma il film abbandona presto il campo di battaglia e non ci tornerà fino al tramonto del conflitto. Lincoln non è infatti un film sulla fine delle ostilità, né un biopic di Lincoln, ma un trattato magistrale sulle regole e sulle prospettive della Democrazia. Lo sceneggiatore Tony Kushner, che aveva già scritto Munich con Eric Roth, sembra far tesoro – come altri hanno già notato – della lezione di The West Wing, non solo per la loquacità del Presidente e la sua tendenza all’aneddoto e alla parabola: in effetti, gran parte del film è costruito su un procedimento burocratico, la caccia a un pugno di voti per far passare un emendamento alla Costituzione, prima che il conflitto finisca. La pulsione ancora attualissima che muove il Presidente (e il regista) è l’idea di una politica che si sforzi di guardare al di là del breve termine, verso l’eredità lasciata alle future generazioni. Il documento, abolendo la schiavitù, cambierà le sorti della nazione: Lincoln accoglie come un martire sul suo corpo le conseguenze della sua scelta (invecchiando di anni in pochi mesi, gli fa notare il Generale Grant verso la fine) e Spielberg riesce a raccontare questa guerra parallela, combattuta tra le stanze del potere con la forza della retorica e con i trucchi che la Democrazia concede, con l’intensità di un thriller. La sequenza decisiva in tal senso è perfetta e trascinante, nonostante siano note a tutti le sue sorti: soltanto un regista come Spielberg, con il suo senso innato dello spettacolo, sarebbe capace di rendere così struggente una seduta del Congresso e una conta di voti. Ai margini e tutto intorno, c’è però anche il ritratto di un Presidente celebrato come nessun altro ma spesso ridotto a un mero simbolo; qui Lincoln viene reso più umano da uno script che sottolinea tanto l’integrità morale quanto l’asprezza della sua vita personale, in particolare il rapporto con la moglie, mai ripresasi dalla morte del figlio: il loro violento litigio nel salotto è uno dei momenti più intensi e drammatici del film. Il contrasto turbolento con il figlio maggiore, interpretato da Joseph Gordon-Levitt, è invece uno dei pochi nei, forse l’unico, di un film pressoché impeccabile: è interessante l’idea che la statura di Lincoln renda impossibile la vita di chi gli sta accanto ma il tema viene affrontato in modo sbrigativo e sembra quasi un’appendice – per quanto assolutamente “spielberghiana”. Per il resto il film, appassionato e malinconico, tutt’altro che polveroso o monocorde, è sostenuto certamente dalla performance, davvero spaventosa, di Daniel Day-Lewis, ma non ne viene mai soffocato. Spielberg gli affianca infatti un cast incredibilmente ricco tra cui spiccano Tommy Lee Jones, a cui è affidata la scena più spudorata e più commovente di tutto il film, e soprattutto una strepitosa, memorabile Sally Field. E sono entrambi in grado di tenergli testa.
basta, datemelo subito, dopo una recensione così non posso aspettare fino al 24!
Hype totale, scalpito nell’attesa. Meno male che Django riempie di brutto la settimana