luglio 2013

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Il grande Gatsby, Baz Luhrmann 2013

Il grande Gatsby (The Great Gatsby)
di Baz Luhrmann, 2013

Scrivere di un film molte settimane dopo la visione, me ne sto accorgendo in questo periodo di arretrati, è una sorta di esercizio intellettuale parallelo alla scrittura in sé. Faticoso, certo, ma a suo modo utile e stimolante. Una volta tolta ogni possibile pretesa di un’analisi compiuta, resta il recupero discontinuo di particolari estetici e dettagli emotivi. Quanto e cosa mi ha lasciato di sé, questo film, dopo due mesi e mezzo? La risposta per questo quarto adattamento di Il grande Gatsby, in realtà, non è molto diversa da quella che avrei fornito il mattino successivo: poco, pochissimo. Sono sempre stato un fervente ammiratore, all’occorrenza un difensore, del cinema di Baz Luhrmann, anche o proprio per la sua sfrontatezza, per la tendenza a mettersi davanti a tutto – al suo pubblico, alle sue fonti di ispirazione, ai suoi stessi film. Forse sono i tempi a essere cambiati, forse siamo noi, fatto sta che questo Gatsby è un film tanto luhrmanniano quanto rovinoso. Il fraintendimento alla base del progetto è l’adattabilità di un romanzo tra i più noti della letteratura americana allo stile barocco del regista australiano: non ci sarebbe nulla di male, anzi, ma al di là della scaltra colonna sonora e dei barocchismi della messa in scena, è proprio una sorta di inaspettata, paradossale fedeltà al testo a tagliare le gambe al film. Si nota bene in una lunga e rivelatoria sequenza ambientata in un piccolo appartamento, dove la staticità prende definitivamente il possesso del film, gettando alle ortiche gli spunti del roboante incipit. Luhrmann infatti, come già in passato, carica tutte le sue energie nel primo, travolgente atto. Ma ci vuol poco perché la benzina finisca e il motore si inceppi: da un certo punto in avanti, l’unico motivo per sfuggire alle sbirciate d’orologio (il film dura due ore e mezza, ma sembrano quattro) pare essere il carisma di Leonardo DiCaprio – che è bravo, come sempre, ma che rispetto alla sua prova in Django Unchained qui sembra una figurina pallida e pigra. Non lo aiuta certo il resto del cast: Carey Mulligan, che altrove è un’attrice strabiliante (rivedere Never let me go, poi parlare) è vittima di un tipico caso di miscasting, una Daisy poco convincente che si ricorda in ritardo di dover essere anche sgradevole – e il civettuolo doppiaggio italiano non le viene in aiuto. L’unica, autentica sorpresa di questo film doverosamente sbruffone eppure mortalmente noioso è la pazzesca Elizabeth Debicki, un’australiana di 22 anni che nessuno aveva sentito nominare finora, e che in un ruolo pur marginale come quello di Jordan riesce a portare sullo schermo, in un film tra i più deludenti della stagione sotto quasi ogni aspetto, qualche sporadica vampata di vitalità.

Miele, Valeria Golino 2013

Miele
di Valeria Golino, 2013

A un punto della carriera in cui le sue doti di attrice non sono più in discussione da un pezzo, Valeria Golino ha scelto di prendere una strada differente e inaspettata, oltre che piuttosto scivolosa: esordire come regista e come sceneggiatrice. Lo ha fatto, per fortuna, con un’opera prima bella e a suo modo anche coraggiosa, che sviluppa un originale racconto morale a partire da uno spunto collettivo (i clienti di Irene sono malati terminali, il suo lavoro è aiutarli a morire) allontanandosi però dal “tema” con tutti i suoi azzardi, per concentrarsi sulle sfaccettature di un personaggio in qualche modo repulsivo, sofferente e solitario, in particolare sul rapporto di Irene con un uomo di mezza età, aspirante suicida. Per come è costruito, Miele è un film che si muove all’interno di un recinto ben definito, ma possiede una sensibilità di fronte al dolore che pochi registi possono vantare (la prima sequenza “operativa” è straziante eppure delicatissima) e qua e là ha anche il coraggio di osare – come quando restituisce un grave senso espressivo a un autentico sfondamento della quarta parete, rivolgendosi al pubblico quando il dolore diventa troppo forte per essere sopportato in solitudine. L’aspetto più sorprendente del film è l’equilibrio narrativo del suo sistema di valori, la sua capacità (questa davvero rara) di essere tutt’altro che retorico o predicatorio. E poi c’è Jasmine Trinca, che mostra ancora una volta di saper lavorare bene soprattutto sotto tono e regala un’altra ottima performance, in alcuni momenti davvero formidabile (come la scena in cui seduce e abbandona un ragazzo, il tutto attraverso il vetro di un locale) confermandosi, poco tempo dopo Un giorno devi andare, uno dei volti italiani più espressivi e maturi della sua generazione.

Come un tuono (The place beyond the pines), Derek Cianfrance 2012

Come un tuono (The place beyond the pines)
di Derek Cianfrance, 2012

Chi si occupa di cinema, per passione o per mestiere, entra raramente impreparato in una sala. Le conoscenze pregresse, le informazioni raccolte, i pregiudizi, fanno parte indubbiamente della stessa esperienza cinematografica. Talvolta, però, capita di affrontare un film a mente libera: è un esercizio che può insegnarci molto sul nostro rapporto con il mezzo, se vogliamo anche con il rito. Ci sono film, poi, che sfruttano al meglio quest’idea: a meno di averlo fatto volontariamente, è impossibile anticipare la struttura narrativa di un film come The place beyond the pines, tra i più intensi e originali film americani di questa stagione. La presenza stessa di Ryan Gosling, in un ruolo che nella pubblicistica sembra rimandare a Drive più che a Blue Valentine, è una sorta di depistaggio. Tant’è che il film stesso, da un certo punto in poi, diventa quasi una versione “dirottata” di una storia rimasta in potenza. Come se le dinamiche successive, prese in prestito dalla tradizione tragica, fossero la conseguenza divina di un atto di violenza nei confronti della storia, dei suoi personaggi, di un amore fantasma e di un segreto che aleggiano nell’aria, ma rimangono impressi sui volti, sui muri, sopra fotografie invecchiate. Con scaltrezza ma anche con il fegato di arrivare a forzare la mano, a piegare i destini pur di giungere alla risoluzione desiderata, Cianfrance utilizza questo sorprendente sviluppo per tracciare una profonda, dolente riflessione, sulle responsabilità dei padri, che a volte prende tratti rischiosamente metafisici, avvalorata però da una messa in scena avvolgente, dalle bellissime musiche di Mike Patton e dalla sublime direzione degli attori. Primo tra tutti Bradley Cooper a cui, con buona pace di Gosling, tocca il ruolo moralmente più contorto: forse la prova più difficile della sua carriera, superata in modo eccezionale.

 

La casa (Evil dead), Fede Alvarez 2013

La casa (Evil dead)
di Fede Alvarez, 2013

Il debutto del regista uruguayano Fede Alvarez, già responsabile dello strepitoso corto Ataque de panico!, sembra partire da una domanda ben precisa: è ancora possibile girare un horror americano su un gruppo di giovani isolati nel bosco che cadono come mosche, dopo film come Cabin fever e ancora di più dopo The cabin in the woods? La risposta, Alvarez, va a cercarla alla radice: in uno dei più celebri e amati esemplari del genere, diretto più di trent’anni fa con quattro soldi da Sam Raimi (che qui si limita a produrre, ma con un fervente spirito mecenatesco), un caposaldo in cui però erano ancora pressoché assenti – questo in molti lo scordano – i toni ironici e sopra le righe del secondo capitolo, che culminarono nella commedia fantasy (pronta a far scuola) de L’armata delle tenebre. Infatti, il nuovo Evil Dead rappresenta, escludendo l’intervento dello spettatore, un azzeramento totale dello “scherzo” e delle dinamiche “meta” che caratterizzano molto horror odierno. E se anche il rischio, affrontato con ammirevole ingenuità, è quello di sembrare fuori tempo massimo (i cliché messi in campo dal film paiono il preciso obiettivo di Goddard & Whedon), questo nuovo Evil Dead è, cosa rara, un’esperienza del tutto gratificante: un film horror del 2013 senza sagacia, senza sottotesti, senza strizzatine d’occhio, con attori adeguati al compito, espressamente prevedibile (ma altrettanto spassoso) che verso la conclusione si trasforma (letteralmente) in un rinfrescante acquazzone sanguinario. Sì, è ancora possibile.

Iron Man 3, Shane Black 2013

Iron Man 3
di Shane Black, 2013

Tralasciato il flashback iniziale, che ha una mera funzione narrativa (ma che fa trasalire una generazione di italiani grazie a – o per colpa di - Blue degli Eiffel 65), è una delle sequenze successive in questa terza avventura del personaggio Marvel (la quarta, ovviamente, se includiamo The Avengers) a essere sintomatica dell’atteggiamento che il film prenderà nelle due ore successive: il protagonista, nel suo laboratorio, indossa una delle sue (numerose) armature lanciandosi addosso i pezzi. Nell’universo tecnologico di Iron Man siamo ben disposti ad accettare, come accadrà poi nell’inevitabile, tumultuoso, roboante e spettacolare duello finale, che i pezzi vadano sempre al loro posto con una grazia scientifica che ha, indubbiamente, qualcosa di magico; in questo incipit, invece, si nota subito che qualcosa non quadra. Vale a dire: le parti sembrano ribellarsi, sbattono contro il corpo di Stark, lo feriscono, lo buttano a terra. Causa di questa impasse, ci dice il film con hollywoodiana chiarezza, sono i fatti di New York, quelli raccontati in The Avengers; ma al centro della crisi di Tony, autentico nemico da sconfiggere (ben più della coppia formata da Killian e il Mandarino: non c’è dubbio che la saga di Iron Man abbia un problema con i “cattivi”), c’è la risoluzione del rapporto tra l’uomo in carne e ossa e le sue componenti tecnologiche. In questo senso il film di Black è la chiusura ideale del discorso metamorfico aperto dal primo capitolo: la sua conclusione risponde proprio a questa esigenza, con un punto. Ma la scelta di internalizzare il conflitto, una soluzione che sulla carta non sembra avere nulla di originale, viene eseguita da Black in un modo eccellente, originale, frutto della sua particolare carriera: ai film di Iron Man serviva, dopotutto, proprio uno sceneggiatore. Non tanto per la robustezza dello script (in cui accadono due o tre cose palesemente “sbagliate”) ma per lo stile, l’anima, e per un piglio ancora più legato alla commedia (lo svelamento del Mandarino è soltanto uno dei molti esempi possibili) che nei capitoli precedenti. Così Black è riuscito a liberare la serie dal pantano di un inerme secondo capitolo, restituendole una personalità indebolita, per forza di cose, dal progetto Avengers: rimettendo Tony Stark al centro dell’azione. La parte più riuscita del film, infatti, è quella che lo vede privato della sua armatura, alle prese con crisi di panico oppure con piani d’azione à la McGyver, o con un bambino che arriva dritto sparato da un film di Spielberg e che si becca pure la battuta migliore del film: “Adesso possiamo parlare degli Avengers?”. Ma anche se i punti di forza del film rientrano nella zona più umana del personaggio (merito, anche, di un Robert Downey Jr per il quale bisognerebbe riscrivere i dizionari), ciò non impedisce alla produzione di darsi allo spettacolo più oneroso, spudorato: in fondo, si tratta pur sempre di un film da 200 milioni di dollari. E se si facesse un torneo delle sequenze più clamorose della stagione, quella del volo dall’Air Force One in fiamme, girata per aria da una troupe di paracadutisti, non avrebbe molti rivali.