Miele
di Valeria Golino, 2013
A un punto della carriera in cui le sue doti di attrice non sono più in discussione da un pezzo, Valeria Golino ha scelto di prendere una strada differente e inaspettata, oltre che piuttosto scivolosa: esordire come regista e come sceneggiatrice. Lo ha fatto, per fortuna, con un’opera prima bella e a suo modo anche coraggiosa, che sviluppa un originale racconto morale a partire da uno spunto collettivo (i clienti di Irene sono malati terminali, il suo lavoro è aiutarli a morire) allontanandosi però dal “tema” con tutti i suoi azzardi, per concentrarsi sulle sfaccettature di un personaggio in qualche modo repulsivo, sofferente e solitario, in particolare sul rapporto di Irene con un uomo di mezza età, aspirante suicida. Per come è costruito, Miele è un film che si muove all’interno di un recinto ben definito, ma possiede una sensibilità di fronte al dolore che pochi registi possono vantare (la prima sequenza “operativa” è straziante eppure delicatissima) e qua e là ha anche il coraggio di osare – come quando restituisce un grave senso espressivo a un autentico sfondamento della quarta parete, rivolgendosi al pubblico quando il dolore diventa troppo forte per essere sopportato in solitudine. L’aspetto più sorprendente del film è l’equilibrio narrativo del suo sistema di valori, la sua capacità (questa davvero rara) di essere tutt’altro che retorico o predicatorio. E poi c’è Jasmine Trinca, che mostra ancora una volta di saper lavorare bene soprattutto sotto tono e regala un’altra ottima performance, in alcuni momenti davvero formidabile (come la scena in cui seduce e abbandona un ragazzo, il tutto attraverso il vetro di un locale) confermandosi, poco tempo dopo Un giorno devi andare, uno dei volti italiani più espressivi e maturi della sua generazione.