L’uomo d’acciaio (Man of Steel)
di Zack Snyder, 2013
Sono passati sette anni da quando Bryan Singer prese in mano le sorti di Superman al cinema realizzando un film divertente e sottovalutato, che riuscì comunque nell’impresa di scontentare un po’ tutti, sfracellandosi al botteghino. Sette anni che sembrano settanta: perché nel frattempo il mondo dei supereroi al cinema è cambiato radicalmente. Ci hanno pensato Christopher Nolan, da una parte, con il suo Batman cupo, da gangster movie (le prove generali di Begins erano uscite giusto l’anno prima) e Kevin Feige, dall’altra, con il suo assurdo, titanico progetto, quello di connettere tutti gli eroi della Marvel (o meglio, quelli nelle mani della Disney) e farli puntare tutti su un super crossover finale – diventato poi il maggior incasso di tutti i tempi. Per dare conto del passare del tempo: Iron Man ha soltanto cinque anni.
Intanto, scottato dal flop, l’eroe di Krypton e il suo alter ego hanno continuato con successo a occupare il piccolo schermo (Smallville è durato dieci anni fino al 2011) ma al cinema sono rimasti in un limbo; sempre con la certezza sotterranea, però, che prima o poi la DC avrebbe dovuto prendere una posizione, affrontare la scaramanzia, e tornare in sala. Per riesumarlo, l’hanno affidato alle oscure cure produttive dello stesso Nolan (che a più riprese aveva giurato che nell’universo del “suo” Batman non c’era spazio per alieni umanoidi) e soprattutto a Zack Snyder, che pur con la carriera altalenante aveva dimostrato, quantomeno, di essere in grado di portare sullo schermo in modo eccellente – pur senza riscontro di pubblico – un fumetto impossibile come Watchmen. Le premesse, in una prospettiva storica, erano queste: primo, togliere al personaggio di Superman quell’alone rétro-pop che aveva causato il collasso del film con Brandon Routh, riportarlo in una zona-Nolan (banalizzando) più dark e intimista; secondo, preparare il campo per una tardiva operazione di rilancio del marchio, sulla falsariga del fenomeno Avengers.
È questo, forse, il motivo per cui Man of steel non poteva che essere una origin story di Superman - oltre, ovviamente, alla scaramanzia di cui sopra, visti i risultati di un Returns che ne dava, più coraggiosamente, per scontata l’esistenza: perché questo reboot non può più riguardare soltanto l’area di Metropolis, ma deve gettare le basi per un progetto più ampio – che, infatti, tra due anni comincerà a compiersi con l’incontro tra l’uomo acciaio e l’uomo pipistrello, a quasi tre decenni dall’epocale graphic novel di Frank Miller. Purtroppo, è anche la scelta di raccontare l’arcinota genesi dell’eroe a minare la compiutezza dell’operazione: pur essendo estremamente lungo (più di 140 minuti), il film di Snyder concentra una quantità spropositata di energie a un interminabile duello finale, che coinvolge l’eroe e il Generale Zod, in cui si scatena una violenza catastrofica che vorrebbe essere una risposta alla distruzione di New York di The Avengers, se non fosse che qui, con due personaggi che si danno una montagna di cazzotti tra un mucchio di edicifi in rovina, lo scontro risulta soltanto frastornante e fastidioso.
A Snyder e allo sceneggiatore David S. Goyer (arriva dritto dalla trilogia di Nolan, che insieme a lui firma il soggetto) resta tutta la parte centrale del film per riassumere la storia di Kal-El sulla Terra, il rapporto con il padre (raffazzonato e semplicistico, spesso tirato via con dialoghi di due minuti infarciti di banalità), la fuga da casa, la Fortezza della Solitudine, il costume, la scelta di diventare Superman, e via dicendo – una marea di informazioni, strizzate dalla sintesi, che poi, durante il caos finale, abbiamo tutto il tempo di considerare pretestuose, mentre ci annoiamo a morte tra uno sbatacchiamento e l’altro. In tal senso, procedendo a ritroso, pur se terribilmente sbrigativo (difficile comprendere perché una civiltà destinata alla distruzione totale nel giro di poche ore dovrebbe condannare un pericoloso criminale dandogli pure una palese speranza, fuor di metafora e senza scomodarne la comodità narrativa), è il primo atto la parte più interessante del film – perché è quella in cui Snyder rivela l’interesse per la fantascienza (più che per il fantastico) e perché Krypton è di una bellezza che, nelle prime battute, riesce a lasciare stupefatti.
L’unica ottima intuizione, oltre a una complicata struttura a flashback che riesce perlomeno a rendere più funzionale sequenze abusate come quella dello scuolabus, è quella di dare un maggior peso drammatico (e pizzico di modernità, senza strafare) al personaggio di Lois Lane, affidandola a una delle migliori attrici in circolazione, Amy Adams, che purtroppo rimane spesso ai margini della storia pur avendo il tempo di dare un po’ di lustro al film confusionario in cui si è trovata. Per il resto, Snyder è riuscito a rovinare la festa disattendendo tutte le miracolose premesse, per colpa di una sceneggiatura frettolosa e approssimativa ma anche di una messa in scena fracassona e puerile, senza nemmeno la muscolarità esagitata dei suoi film precedenti. Nonostante tutto, il film è stato un notevole successo di pubblico (650 milioni di dollari già incassati nel mondo) riuscendo già a dare il via al venturo Batman vs Superman, con Ben Affleck nel ruolo del primo. E procedendo, probabilmente, a costruire le radici di un’identità (stilistica e narrativa) a lungo termine, quella di una saga che è ancora tutta da pensare e produrre. Per chi scrive non è la migliore delle notizie, ma la storia, si sa, la fanno i vincitori.