Stoker
di Park Chan-wook, 2013
Quando hai un blog che sta per compiere dieci anni, è inevitabile, talvolta, che si diventi insopportabilmente nostalgici. La trappola è sempre aperta, nascosta dal fogliame dei pretesti. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i (pochi ma buoni) blog italiani di cinema intorno alla metà dello scorso decennio, come autore o come lettore, sa cosa abbia rappresentato Park Chan-wook in quegli anni per noi, piccola inascoltata setta dedita al culto di film come Joint Security Area, Mr Vengeance e – ovviamente - Oldboy. Ma anche se quest’ultimo titolo ha goduto, insieme al suo successivo capolavoro Lady Vendetta, di una popolarità che non avremmo mai immaginato, l’interesse per Park è scemato non appena si sono esaurite le etichette che rendevano facilmente vendibili i suoi film.
Ovviamente Stoker è tutto un altro discorso: è il suo primo film in inglese. Non è, perlomeno, la canonica “svendita americana” dell’autore asiatico di culto (la produzione è anglo-statunitense) e nonostante sia un’opera su commissione o giù di lì (la celebrata sceneggiatura preesistente è firmata da Wentworth Miller, l’attore di Prison Break) nel film si ritrova indubbiamente il gusto visivo del regista, l’incredibile talento di Park nel giocare con gli ambienti, con i colori, e più in particolare con gli oggetti. Il problema è che, sotto al persistente ondeggiare della macchina da presa, c’è il vuoto assoluto: Stoker è un film che ci suggerisce il suo essere ambiguo, inquietante, perverso, ostinandoci a ripertercelo (un po’ come quando un film pensa che per commuovere basti un personaggio che piange) e associando alla raffinatezza della direzione artistica dei dialoghi risibili e una direzione d’attori che al centesimo sguardo intenso sfocia nell’auto-parodia. L’esperienza perlopiù innocua, perdonabile, di Stoker diventa davvero irritante solo a posteriori: il film, infatti, ingrana la marcia negli ultimi dieci minuti, diventando all’improvviso favoloso, interessante – e lasciandoci sui titoli di coda con l’impressione di aver assistito a un lungo, tedioso antefatto. A salvarsi, ancora una volta, è invece Mia Wasikowska, che riempie lo schermo con la sua enigmatica, impenetrabile bellezza, restituendo un po’ di quel senso di stravagante sconcerto che nel resto del film risulta preconfezionato e fasullo.
In definitiva, di questo Park elegante, infido e sostanzialmente pigro da morire, non so che farmene. Chiediamoci, invece, che fine abbiano fatto i suoi due film precedenti, da lui co-sceneggiati come tutte le altre sue regie, minori ma comunque splendidi: I’m a cyborg e Thirst sono due sbalorditive anomalie d’autore che in Italia non hanno trovato un centimetro di spazio, nemmeno tirando in ballo cyborg e vampiri, nemmeno in mercati onnivori e indiscriminati come l’home video e il satellite. Forse senza la fascetta “della vendetta” non sarà così facile, ma è incredibile che, dopo quasi dieci anni, ci si debba ancora lamentare di una cecità, della distribuzione ma anche di parte del pubblico, che nasconde una forma sibillina ma radicata di razzismo. Pensavate che fosse cambiato tutto? Non è cambiato proprio niente.
Completamente d’accordo con te. Su tutto. E aggiungo che oltre che insipido nella scrittura il film è frenatissimo come non mai. Questo gioco di ambiguità che lo è solo in superficie visto che, di fatto, non osa mai. Se il film fosse stato suo al 100% Mia non si sarebbe limitata a sospirare intorno allo zia ma ci avrebbe fatto cose turpi al posto di venire interrotta o frenata tutte le santissime volte. Tutto poteva essere giocato molto meglio, tutto poteva essere più spinto arrivando a pensare, per davvero, che potesse trattarsi di una storia soprannaturale, di vampiri (che non è) con davvero mille spunti e sviluppi molto più forti di queste banalità. Io sono uno che scriveva in quel periodo li (avevo un blog a nome Nion, e ti commentavo parecchio) e sono vittima, come te, di quello che Chan-Wook ha rappresentato per noi. Io un Park Chan-Wook così non lo voglio più vedere, non so davvero cosa farmene,