Cinema Britannico

Questione di tempo (About Time), Richard Curtis 2013

I testi, oppure più nello specifico i film i cui personaggi viaggiano nel tempo si possono dividere, a sentirne il desiderio, in due categorie: ci sono film sul viaggio nel tempo, e poi ci sono film col viaggio nel tempo. La distinzione tra le due sarebbe piuttosto chiara, in verità non è quasi mai marcata; si tratta perlopiù di un’oscillazione percentuale. Nel caso di About time ci troviamo invece di fronte a un caso estremo della seconda: l’artificio del viaggio nel tempo viene utilizzato come pretesto narrativo per sostenere lo sviluppo psicologico dei personaggi, tanto che persino le norme stesse che lo disciplinano vengono piegate, a più riprese, alle esigenze della trama. A dire il vero, About time passa persino troppo tempo a spiegare le regole, visto che poi fa puntualmente di testa sua, ma l’atteggiamento che altrove sarebbe difficile da digerire (infatti il film è mal tollerato dagli amanti del “genere”) nelle mani esperte di Richard Curtis si trasforma in una variazione rinfrescante sul tema, che sorpassa con nonchalance i “buchi” per andare al centro dei sentimenti – che poi sono quello che gli interessa davvero. L’autore di due pilastri della tv inglese degli Anni 80 (Blackadder e Mr Bean), tra i più celebrati sceneggiatori della Working Title per quasi vent’anni, si confronta qui per la prima volta con il fantastico ma si comporta come se nulla fosse, anche perché la sua padronanza della commedia è superiore a qualunque puntualizzazione di genere. Abilissimo a nascondere un film sugli affetti famigliari e sul valore della quotidianità dietro alle parvenze di una storia più banalmente “romantica”, Curtis sa sempre quando farti ridere e quando farti piangere e non ha problemi a comunicartelo apertamente; sa sempre dove piazzare la faccia giusta (Rachel McAdams è fin troppo stupenda per il ruolo un po’ impacciato di Mary, ma è ugualmente incantevole) e la canzone giusta (due esempi di questo caso: Nick Cave e Jimmy Fontana) e la scelta di usare la tenerezza come ago della bilancia tra dramma e farsa si rivela un impeccabile meccanismo emotivo, a patto di gradire l’idea di venire spudoratamente manipolati in questo modo. Da uno così bravo, io mi faccio sempre manipolare volentieri.

La fine del mondo – The World’s End, Edgar Wright 2013

Dentro ogni film di Edgar Wright ci sono almeno tre film. C’è quello che scopri la prima volta, che ti sorprende e ti lascia ammutolito o estasiato. Poi c’è quello della seconda volta, quando ascolti per bene i dialoghi e ti rendi conto che nulla è messo lì per caso, che ogni parola è un suggerimento, oppure una profezia, di quello che sta per accadere. È un procedimento che Wright, tra le più grandi benedizioni del cinema britannico (e non solo) dell’ultimo decennio, ha messo in pratica già nei primi due film di quella che, ormai un po’ per gioco, viene definita “La trilogia del Cornetto”: cresciuto, come tanti suoi colleghi, immerso fino al collo nella bulimia cinefila, Wright è forse l’autore che più di ogni altro ha saputo perfezionare il meccanismo che permette a un film di vivere nel futuro. Ed è proprio lì che vive, per la terza volta, un film di Edgar Wright: nella visione ripetuta che diventa un culto, un tipo di esperienza a cui The world’s end si presta alla perfezione. Dopo il cinema horror con gli zombi di Romero (Shaun of the dead) e gli action movie americani di Bigelow e Michael Bay (Hot fuzz), passata l’entusiasmante parentesi americana del sottovalutato, immenso Scott Pilgrim (uno dei pochi film d’intrattenimento recenti che si possano definire veramente sperimentali), Wright è tornato accanto ai vecchi amici Simon Pegg e Nick Frost, per chiudere un conto aperto e rendere omaggio al terzo polo della sua passione per il cinema, la fantascienza. Ovviamente, anche in questo caso la scaltra ricchezza citazionista, la perfezione assoluta nella costruzione del plot e dei dialoghi, la cura impressionante dei dettagli, la perfetta direzione di un cast favoloso, sono i dispositivi che permettono a Wright di dar vita a un’altra parabola umana, più disillusa e amara delle precedenti, in cui un personaggio decadente, buffo e sgradevole (il Gary King del magnifico Simon Pegg) incarna il tentativo eroico e definitivo di superare la propria (nostra) inesorabile mediocrità. L’epilogo del film, beffardo e feroce, è un capolavoro a sé stante, la degna conclusione di un film che, in ogni caso, mette in primo piano, davanti a tutto questo, il divertimento assoluto, alternando battute serrate a spettacolari combattimenti (dai quali, peraltro, Nick Frost emerge come un’epocale macchina da guerra), l’ennesimo grande film di un regista che in molti si ostineranno a prendere sottogamba (perché è facile prendere poco sul serio il suo avventato, coinvolgente amore per il cinema) quando in realtà Edgar Wright è uno dei più innovativi e geniali autori del cinema pop contemporaneo.

Stoker, Park Chan-wook 2013

Stoker
di Park Chan-wook, 2013

Quando hai un blog che sta per compiere dieci anni, è inevitabile, talvolta, che si diventi insopportabilmente nostalgici. La trappola è sempre aperta, nascosta dal fogliame dei pretesti. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i (pochi ma buoni) blog italiani di cinema intorno alla metà dello scorso decennio, come autore o come lettore, sa cosa abbia rappresentato Park Chan-wook in quegli anni per noi, piccola inascoltata setta dedita al culto di film come Joint Security AreaMr Vengeance e – ovviamente - Oldboy. Ma anche se quest’ultimo titolo ha goduto, insieme al suo successivo capolavoro Lady Vendetta, di una popolarità che non avremmo mai immaginato, l’interesse per Park è scemato non appena si sono esaurite le etichette che rendevano facilmente vendibili i suoi film.

Ovviamente Stoker è tutto un altro discorso: è il suo primo film in inglese. Non è, perlomeno, la canonica “svendita americana” dell’autore asiatico di culto (la produzione è anglo-statunitense) e nonostante sia un’opera su commissione o giù di lì (la celebrata sceneggiatura preesistente è firmata da Wentworth Miller, l’attore di Prison Break) nel film si ritrova indubbiamente il gusto visivo del regista, l’incredibile talento di Park nel giocare con gli ambienti, con i colori, e più in particolare con gli oggetti. Il problema è che, sotto al persistente ondeggiare della macchina da presa, c’è il vuoto assoluto: Stoker è un film che ci suggerisce il suo essere ambiguo, inquietante, perverso, ostinandoci a ripertercelo (un po’ come quando un film pensa che per commuovere basti un personaggio che piange) e associando alla raffinatezza della direzione artistica dei dialoghi risibili e una direzione d’attori che al centesimo sguardo intenso sfocia nell’auto-parodia. L’esperienza perlopiù innocua, perdonabile, di Stoker diventa davvero irritante solo a posteriori: il film, infatti, ingrana la marcia negli ultimi dieci minuti, diventando all’improvviso favoloso, interessante – e lasciandoci sui titoli di coda con l’impressione di aver assistito a un lungo, tedioso antefatto. A salvarsi, ancora una volta, è invece Mia Wasikowska, che riempie lo schermo con la sua enigmatica, impenetrabile bellezza, restituendo un po’ di quel senso di stravagante sconcerto che nel resto del film risulta preconfezionato e fasullo.

In definitiva, di questo Park elegante, infido e sostanzialmente pigro da morire, non so che farmene. Chiediamoci, invece, che fine abbiano fatto i suoi due film precedenti, da lui co-sceneggiati come tutte le altre sue regie, minori ma comunque splendidi: I’m a cyborg e Thirst sono due sbalorditive anomalie d’autore che in Italia non hanno trovato un centimetro di spazio, nemmeno tirando in ballo cyborg e vampiri, nemmeno in mercati onnivori e indiscriminati come l’home video e il satellite. Forse senza la fascetta “della vendetta” non sarà così facile, ma è incredibile che, dopo quasi dieci anni, ci si debba ancora lamentare di una cecità, della distribuzione ma anche di parte del pubblico, che nasconde una forma sibillina ma radicata di razzismo. Pensavate che fosse cambiato tutto? Non è cambiato proprio niente.

Anna Karenina, Joe Wright 2012

Anna Karenina
di Joe Wright, 2012

Da un regista che ha legato il suo nome ai virtuosismi, come ormai l’arcinoto e davvero memorabile piano-sequenza in Espiazione (tutt’altro che un caso isolato, vedasi Hanna), ci si aspetta quantomeno una smania di stupire il pubblico che può essere, a seconda delle occorrenze, entusiasmante o tautologica. Oppure entrambe le cose, dipende dai gusti. Con l’aiuto della sceneggiatura di Tom Stoppard, uno che ha lavorato spesso sul confine tra teatro e cinema (e qui ritroviamo un po’ dell’inventiva del suo capolavoro Rosencrantz e Guildenstern sono morti), Joe Wright fa proprio questo per tutta la prima mezz’ora del film: più che l’idea piuttosto curiosa, quella di ambientare quasi interamente il film all’interno di un teatro, solleticando all’istante le papille di migliaia di tesisti di cinema sparsi per il mondo, è la sua realizzazione, furiosa e magistrale, che lascia a bocca aperta. Da un certo punto in poi,  il film smette di essere elettrizzante come quello spaventoso primo atto: è come se il motore si fosse avviato e non avesse più bisogno di troppa energia per farlo andare avanti, ma Wright ne conserva quanto basta per mantenere viva, pulsante, moderna una storia che è già stata sullo schermo più di dieci volte, con un’attenzione maniacale nella scelta delle luci e delle inquadrature (la fotografia è di Seamus McGarvey, lo stesso di Espiazione) incomparabile con la media del cinema cosiddetto in costume. In ogni caso, questa bizzarra, intellettuale soluzione tutta d’interni è così efficace che la prima “apertura” (letterale, del sipario) su una pianura innevata toglie quasi il respiro.

Joe Wright è anche noto per essere uno dei pochi registi capaci, sul serio, di dirigere Keira Knightley, di tenere a bada un’attrice il cui problema non è tanto la carenza di talento, come dicono ingiustamente in molti, ma la convinzione di averne più di quanto le possiamo riconoscere. Anche qui, il regista inglese porta a compimento il suo lavoro con onesta caparbietà, e comunque Aaron Taylor-Johnson e Jude Law sono entrambi abbastanza fuori parte da non farla sfigurare al confronto.

Les Misérables, Tom Hooper 2012

les_miserables_ver6_xlgLes Misérables
di Tom Hooper, 2012

Si è già affrontato in passato, parlando per esempio di un film fallimentare come Rock of ages, il discorso sulle diverse necessità di un musical e del suo adattamento cinematografico, bisogni di cui un regista e una produzione non possono non farsi carico, tanto più quando ne hanno i mezzi (un grande cast, un budget all’altezza, una trama che rimanda a un inestimabile immaginario storico). È possibile invece, ancora una volta, che un musical magnifico diventi un brutto film, in grado di scontentare persino i fan più accaniti dell’originale? Va detto che Les Misérables sconta una struttura tutt’altro che organica, giocata soprattutto su grandi assoli e duetti. Ma invece di regalare al musical un respiro cinematografico, attraverso l’applicazione di una visione personale d’insieme, Tom Hooper ha deciso di stringere costantemente i personaggi all’interno del quadro, in una serie interminabile di primi piani – tanto che per la maggior parte del tempo il film potrebbe essere ambientato in un set completamente deserto e non coglieremmo la differenza. Ma l’efficacia, la forza espressiva di un primo piano è inversamente proporzionale al suo abuso, e non ci vuole una scuola di cinema per capire che il troppo stroppia. L’idea di cinema di Hooper, comunque, si ferma qui: al di là dei soliti ineleganti cento grandangoli di maniera, Les Misérables è un film sostanzialmente privo di una qualunque direzione, che non sia quella di preparare l’occhio di bue per il successivo pezzo di bravura, senza però avere le spalle coperte dalla professionalità di un cast di Broadway o di West End. Le performance del cast, in tal senso, sono rese certamente più interessanti, per via della loro imperfezione, dalla scelta di utilizzare la presa diretta restituendo al musical una sensazione di realismo piuttosto inusuale per il genere – ma è quel tipo di idea che fa la differenza nelle cartelle stampa più che sullo schermo, e una volta passata la sbornia di I dreamed a dream (dove una straordinaria Anne Hathaway dà tutta se stessa, ricordiamolo, per una risicata manciata di minuti) ci si ritrova a sbadigliare nervosamente in attesa che finiscano le due ore e quaranta più lunghe, massacranti della stagione, buone giusto per riscrivere la definizione di mattone.

 

Una particolare nota di demerito all’edizione italiana: il film, quasi interamente cantato, è stato distribuito in inglese con i sottotitoli (e vorrei ben vedere) ma le pochissime parti parlate sono state doppiate, anche quando si trovano nel bel mezzo delle canzoni. Non ci vuole un genio per capire che l’effetto è tremendo: era davvero impossibile distribuirlo interamente in lingua originale? Vale la pena di domandarsi, in un esempio limite come questo, quale sia il prezzo di un ticket da timbrare per favorire voci che stanno in campo per una decina di minuti al massimo in totale. In ogni caso, una parte la pagano gli spettatori.

7 Psicopatici, Martin McDonagh 2012

7 Psicopatici (Seven Psychopaths)
di Martin McDonagh, 2012

Il secondo film del commediografo inglese dopo il sorprendente, bellissimo In Bruges è accomunato con la sua opera prima dall’assoluta distanza tra il film e l’immagine che vuole dare di sé: ancora una volta, McDonagh parte da una premessa ascrivibile al noir, per così dire, “postmoderno”, ironico e consapevole (due lestofanti che rapiscono cani per incassare le ricompense finiscono per rubare il migliore amico di un pericoloso gangster) e la trasforma di punto in bianco in un’altra opera che sembra guardare più a Samuel Beckett che a Tarantino o Guy Ritchie. Impossibile dire di più senza svelare l’imprevedibile (davvero) svolgimento della trama, ma chi ha visto il precedente è conscio del fatto che questo film non abbia nulla a che fare con la sua pubblicistica. Non si tratta però di un inganno promozionale ai danni del pubblico: Seven Psychopaths utilizza la sorpresa e l’autoreferenzialità per riflettere sul cinema dal privilegiato punto di vista di uno scrittore (in crisi personale e professionale) costretto a vivere in prima persona il proprio racconto. Convoluto e ombelicale per sua stessa natura, il film è colmo di performance clamorose (Christopher Walken è uno spettacolo) e non si può negare che il suo autore abbia un talento raro per i dialoghi, intelligenti ed efficaci. Ma con Seven Psychopaths McDonagh spinge troppo sul pedale cerebrale: terribilmente compiaciuto della sua stessa arguzia, finisce per allontanarci dai suoi personaggi, trasformati in pagine da voltare per le quali è difficile provare davvero qualcosa di autentico.

Dredd, Pete Travis 2012

Dredd
di Pete Travis, 2012

“Negotiation is over. Sentence is death.”

C’è questo grande palazzo-quartiere, dominato da un villain che vive nei piani più alti. L’eroe entra nell’edificio, il villain invita apertamente gli abitanti a trasformarsi in armi, a ucciderlo prima che possa risalire. Suona familiare? Bastava il trailer a intuirlo, ma la visione del film lo conferma: il meccanismo narrativo, nella sua semplicità, è pressoché ricalcato da The Raid: Redemption, travolgente film indonesiano di Gareth Evans che è divenuto uno dei nuovi punti di riferimento del cinema action mondiale – e, immagino, uno dei più invidiati dai colleghi. Purtroppo il film del regista britannico Pete Travis, girato interamente in Sudafrica, non possiede la medesima forza rivoluzionaria, ma si difende bene: forte di un confronto piuttosto facile da vincere (quello con il Dredd del ’95 con Stallone), la pellicola fotografata da Anthony Dod Mantle (collaboratore fisso di Danny Boyle) possiede una sua personalità e una sua inflessibile coerenza che si manifesta bene nell’idea di non levare mai il casco dalla testa di Karl Urban, che infatti recita tutto il film solo con la bocca e un vocione tra Eastwood e Batman.

Violentissimo e fracassone (gli effetti speciali più sanguinari sono spesso pensati per la visione in 3D), Dredd è stato un autentico flop al box office americano. Ma è un peccato, perché le idee non mancano: il design di una città di centinaia di milioni di abitanti, costretta quindi a svilupparsi in verticale, è inquietante e suggestivo; la droga di turno si chiama “slo-mo” ed è un’ingegnosa giustificazione per ridare un senso diegetico all’abuso dei ralenti; lo script di Alex Garland (quello di Never let me go) mette un po’ da parte il potenziale satirico ma è divertito, pieno di “one-liner” vecchio stile, e ha la dote di non prendersi mai troppo sul serio; infine, quello che Urban toglie con la sua voluta assenza di espressività, backstory o scavo psicologico, il film lo riprende grazie ai due personaggi femminili: la deliziosa Olivia Thirlby nei panni di una fragile recluta con poteri psichici che deve imparare a diventare cazzuta come il mandibolato collega, ma soprattutto Lena Headey nel ruolo di Ma-Ma. Quest’ultima, ex prostituta sfregiata che si è vendicata del suo torturatore strappandoglielo a morsi (esatto) e diventando così temuta e rispettata, è un cattivo feroce e davvero memorabile: come motivo per vedere il film, lei basta e avanza.

Skyfall, Sam Mendes 2012

Skyfall
di Sam Mendes, 2012

Uno degli argomenti più discussi dall’uscita di Skyfall, titolo numero 23 del franchise “ufficiale” di 007, è l’influenza sul film portata dalla trilogia del Cavaliere Oscuro diretta da Christopher Nolan. Uno degli articoli più divertenti sul tema, con tanto di esempi, è apparso per esempio su Underwire, ma l’impressione al di là del confronto specifico (che fa sorridere, ma lascia il tempo che trova) è che si tratti più che altro di una tendenza generale. Della risposta a una domanda che, finalmente, qualcuno ha cominciato a farsi anche ai piani alti: cosa succede a un marchio consolidato, abitualmente affidato a onesti professionisti disposti a nascondersi nella sua ombra, se viene dato in mano (sintetizziamo per amor di brevità) a un “autore”? L’idea di mettere Sam Mendes alla regia con uno script di questo tipo va in realtà a braccetto con la ricorrenza del 50° anniversario di Licenza di uccidere: più che un film di Bond in linea con la tradizione, Skyfall sembra più una riflessione sul suo stesso mito, sulla sua fondazione e rifondazione (non a caso si parte dall’ennesima morte/risurrezione di Bond), una pausa alla ricerca di una mappa tematica in un mondo in cui le regole (e la posta in gioco) sono radicalmente mutate, senza paura di scardinare qualche certezza divenuta forse un po’ rigida per il mercato odierno – si osa addirittura un accenno a una “origin story” – mettendo in scena un Bond più umano e fragile, che comincia a sentire il peso dei 44 anni dell’attore che lo interpreta. Per fortuna, però, Mendes non affronta il compito da primo della classe ma da vero fan: il film è pieno di ammiccamenti e citazioni, è costruito a “blocchi” che si muovono con lo spostamento da una location all’altra, e anche affrontato come un “normale” film di 007, mettendo da parte la dimensione autoriflessiva, Skyfall ne esce a testa altissima, come uno dei migliori esemplari della saga da molti anni a questa parte – forse meno sorprendente, brutale e tragico di Casino Royale ma infinitamente più compiuto e divertente. Oltre che splendido a vedersi: Mendes ritaglia per sé qualche momento di gloria (la clamorosa entrata in scena di Bardem) e lascia a briglia sciolta Roger Deakins, un grande direttore della fotografia, che se la spassa come un matto, soprattutto nell’isola giapponese e nel gran finale esplosivo in Scozia. L’intelligenza del cast (e la sua direzione) fa il resto del lavoro: se la M di Judi Dench acquista finalmente una tridimensionalità e una centralità narrativa degne della sua interprete e il nuovo Q di Ben Whishaw è un nerd appropriatamente irrispettoso, a colpire sono soprattutto la francese Bérénice Marlohe (avercene, di “bond girl” così) e, ovviamente, Javier Bardem: al di là di discussioni spiritose sull’efficacia del suo piano diabolico, è un villain immediatamente memorabile e diventerà un classico da antologia. Qualcosa di cui, negli ultimi film di 007, si sentiva davvero la mancanza.

Stupendi i titoli di testa firmati da Daniel Kleinman, accompagnati dalla voce di Adele.

Pirati! Briganti da strapazzo, Peter Lord 2012

Pirati! Briganti da strapazzo (The Pirates! In an Adventure with Scientists)
di Peter Lord (e Jeff Newitt), 2012

Non è semplice trasmettere a parole il divertimento, la grazia, l’umorismo e la strabiliante ricchezza di invenzioni del quinto film della Aardman, diretto dal co-fondatore Peter Lord, tornato alla regia 12 anni dopo Galline in fuga. La tentazione è quella di cascare nel gelido elenco: dalla presentazione della ciurma (“and some of you are just fish I’ve just dressed up in a hat”) agli assalti falliti alla nave fantasma e a quella dei lebbrosi, all’ingresso in scena del pirata che spunta dal ventre di una balena. Si potrebbe continuare per ore. Singole gag a parte, la bellezza di The Pirates! è il suo essere un divertimento estremamente colto, pieno di citazioni e battute legate alla storia del Regno Unito e della scienza, oltre che caratterizzato da una sagacia che più british non si può (e il “surprisingly curvaceous pirate” è una citazione piuttosto esplicita di Brian di Nazareth), ma allo stesso tempo un divertimento forsennato e inarrestabile grazie al ritmo furibondo con cui le trovate si susseguono e all’incredibile caratterizzazione di tutti i personaggi. Di cui inevitabilmente il re è Bobo, la scimmia di Charles Darwin che si esprime con i cartelli come Wile Coyote, a cui sono affidati alcuni dei maggiori colpi di genio del film – come quando si ritrova all’improvviso a suonare i timbani di Also Sprach Zarathustra e fa spallucce al suo padrone – ma anche la Regina Vittoria doppiata da Imelda Staunton, con il suo segreto steampunk, è davvero ingegnosa. Uno spasso indemoniato, tutt’altro che freddo e calcolatore, che fa scolorire per contrasto gran parte dell’animazione d’oltreoceano. E con un terzo del budget.

Il pescatore di sogni (Salmon fishing in the Yemen), Lasse Hallström 2011

Il pescatore di sogni (Salmon fishing in the Yemen)
di Lasse Hallström, 2011

Emily Blunt è una di quelle attrici che possono far passare facilmente in secondo piano i limiti dei film in cui recitano: questione di innegabile bravura ma anche di presenza scenica, di talento comico come di intensità drammatica. Quando c’è Emily Blunt sullo schermo, è difficile distogliere lo sguardo. Purtroppo, non sempre i film da lei scelti sono alla sua altezza. Ed è un peccato che questa commedia romantica diretta (senza particolari sforzi) da Lasse Hallström e scritta (con qualche buona idea) da Simon Beaufoy risulti così ordinaria pur essendo tratta da un libro così improbabile e bizzarro: messa da parte l’ispirazione blandamente satirica con cui è ritratto il grigio burocrate di Ewan McGregor e le suggestioni surreali che la trama potrebbe ispirare, il film prende presto la strada indicata dallo sceicco illuminato Muhammad di Amr Waked, che però in relazione ai protagonisti non è altro che una variante del magical negro e che contribuisce a portare a più riprese la pellicola sull’orlo del ridicolo involontario, abbandonando l’ironia british e finendo per prendere troppo sul serio i suoi banalotti vaneggiamenti sulla ricerca del proprio posto del mondo, metafore con salmoni incluse. Il film poi è tempestato di paesaggi che sfumano nella cartolina turistica, ma in verità, come previsto, è la bravura di Blunt e McGregor (senza dimenticare Kristin Scott Thomas: la tenace e cinica ufficio stampa del primo ministro inglese sarà un semplice comic relief ma è anche la cosa migliore del film) a tenerlo in piedi fino alla fine, non senza una gran faticaccia.