Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo)
di David Fincher, 2011
Nonostante un adattamento del best seller di Stieg Larsson, peraltro già avvenuto in Svezia pochi mesi prima, potesse sembrare da una certa distanza un’opera di passaggio, non solo minore ma meramente alimentare, in verità Fincher è riuscito ad appropriarsene, a farlo suo per l’ennesima volta: dopotutto, uno dei massimi pregi del regista è sempre stato quello di saper annullare i confini tra il cinema d’autore e quello commerciale, tra il valore artistico e la commissione, e quest’ultimo lavoro non fa eccezione. Quindi, nonostante non sia certo da annoverare tra i suoi lavori più riusciti in senso assoluto (ma il confronto con The Social Network sarebbe schiacciante per chiunque, o quasi) il primo capitolo della “saga americana” di Millennium è davvero un gran bel film: appassionante, violento e implacabile, permette a Fincher di riprendere il suo lavoro sul thriller d’indagine tornando sul percorso Se7en e Zodiac, e di prendersela ancora una volta con molta calma, superando le due ore e mezza di durata (più del già lungo film di Oplev) per concentrare tutte le energie delle prima metà sulla costruzione dei personaggi con un uso magistrale del montaggio parallelo – un procedimento che molti thriller sono costretti a saltare a pié pari per esigenze di minutaggio. Ma al di là della messa in scena di Fincher, come al solito ossessivamente millimetrica e perfetta, e dell’interessante anche se tutt’altro che rivoluzionaria costruzione narrativa che porta al puntuale svelamento del mistero, è inevitabilmente Lisbeth Salander il fulcro del film, il suo cuore pulsante, fino a divenirne quasi la ragion d’essere. E la spettacolare, bellissima, inquietante Rooney Mara la rende indimenticabile con un procedimento diametralmente opposto a quello del suo regista: annullando la propria personalità nel personaggio con un’autentica mutazione, fisica e probabilmente in parte anche psicologica. La sua è una prova d’attore impressionante che riesce a dare al pur robusto e riuscito film di Fincher un nuovo significato, una disturbata e disperata anima nera.
I visionari titoli di testa del film sono stati creati da Blur Studio. La canzone è una cover di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin reinterpretata da Trent Reznor e Atticus Ross (autori della bellissima colonna sonora) e cantata da Karen O degil Yeah Yeah Yeahs.