L’intendente Sansho (Sanshô dayû)
di Kenji Mizoguchi, 1954
1. Senza la pietà, gli uomini sono come bestie.
2. Sii duro con te stesso, comprensivo con gli altri.
3. Tutti gli uomini sono creati uguali, tutti hanno diritto ad essere felici.
Si chiude così (dopo questo e questo) il "trittico veneziano" del cinema di Mizoguchi. I tre film più "rintracciabili" del grande regista giapponese sono infatti quelli che passarono da Venezia, portandosi puntualmente a casa un premio: due leoni d’argento e un premio speciale "internazionale".
Sanshô dayû è ancora una volta struggente racconto di formazione, e ancora una volta feroce disamina dei rapporti tra potere e individuo. Con qualche differenza rispetto alla Vita di Oharu: c’è un briciolo di speranza in più per l’umanesimo di Mizoguchi, riassunto nelle tre "massime" (sopracitate) che il padre insegna a suo figlio prima di separarsene per sempre.
Ma la speranza è solo storico-collettiva, ed è l’abolizione della schiavitù. L’individuo che la porta a termine deve invece pagare a sue spese: e l’applicazione della giustizia e del diritto dell’essere umano passa attraverso il sacrificio, che per il protagonista Zushiô è la perdita della famiglia, mentre per Anju è l’inevitabile suicidio (nella scena più bella del film).
Forse dei tre è quello che mi ha coinvolto ed emozionato meno; tutto sommato non si può non parlare di capolavoro. Oltre ad una maggiore completezza e chiarezza del discorso umano, contiene al suo interno uno spirito eccellente, una capacità narrativa stupefacente, un grande impatto estetico.
E, se non di più, almeno tre momenti indimenticabili: la sequenza vibrante della separazione dei figli dalla madre; la suddetta scena del suicidio di Anju; e infine, il finale, di un’amarezza e di una dolcezza infinite, in cui Zushiô riabbraccia la madre, tra le lacrime.
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