Giappone

Birth

di Jonathan Glazer, USA

Venezia 61 Concorso

Birth è un film che racconta una crisi altoborghese causata dall’avvento del soprannaturale e dell’inspiegabile. Raffinato, perché Glazer sceglie con intelligenza uno stile in qualche modo "autoriale", ovverosia lentissimo, catatonico, fatto di silenzi e spazi vuoti, concentrando l’attenzione sullo sguardo e sul corpo della Kidman, modellando le scelte su riferimenti a Rosemary’s baby e al cinema europeo. Problematico (e piaciuto davvero poco, forse solo a me e a Kezich) perché non si preoccupa per nulla della credibilità del plot o della costruzione dei personaggi, lasciati vagare un po’ insensatamente. La forma è comunque affascinante, e Nicole è straordinaria: quei minuti immobili sul suo volto che si muta in pianto sono impagabili, e bellissimo il finale marino, in cui la forma si sgretola come le certezza di una donna.

Nemmeno il destino

di Daniele Gaglianone, Italia

Giornate degli autori

Il film di Gaglianone ha due facce: la prima parte, con i tre (poi due) ragazzi, è davvero sorprendente, almeno per la posizione che questo piccolo film occupa nel panorama del cinema italiano: stile personalissimo, scelte registiche coraggiose, un montaggio libero e affascinante che pur modernissimo si distacca dallo stile videoclipparo molto in voga di recente. Ad un certo punto, il film cambia rotta, per esplicito volere del regista: e il film perde mordente, ritmo, interesse, per poi innalzarsi di nuovo nel bellissimo finale in bianco e nero, dolcissimo e pieno di speranza. Nonostante questo problema (non oggettivo), un bel film. Massimo merito degli attori non professionisti (tutti ragazzi simpaticissimi, posso dirlo senza false ipocrisie), tra cui spicca Fabrizio Nicastro: mostruosamente bravo nell’affrontare la difficoltà del suo personaggio e alcune "prove" affidategli da Gaglianone (come un doloroso monologo di fronte a un bicchiere).

Vital

di Tsukamoto Shinya, Giappone

Venezia Orizzonti

E’ incredibile la qualità dei film orientali presenti a Venezia (anche se non li ho visti tutti, sono troppi…). E non è una mia deformazione maniacale, questo fatto è sulla bocca di molti, se non di tutti. Ed è incredibile come sia cambiato lo stile di Tsukamoto dalle sue opere precedenti: se un più deciso apporto formare era già in A snake of june, ma con molti rimandi al suo cinema precedente (la mutazione, il bianco e nero), Vital comporta un un deciso cambio di rotta. Ed è un bene, perché Vital è il suo capolavoro: un film sul corpo, e sul suo rapporto con la mente e la memoria, con il cuore e il sentimento. Visivamente curatissimo ma molto eclettico, fotografato e montato in modo semplicemente geniale, con vette impensabili di poesia, e una malinconia diffusa e disperata. Che si scioglie però nel meraviglioso finale, un funerale e un ricordo: si gioca con il film di Kim Ki-Duk il premio per la "chiusa" più bella del Festival.

Some gossip…

Sarò telegrafico. Ho fatto una foto con Tsukamoto (ora mi mancherebbe Wong Kar-Wai…). Ho sbattuto letteralmente contro Raul Bova all’Excelsior (bell’uomo, barba incolta compresa). Nicole Kidman mi ha fatto ciao-con-la-manina (giuro giuro giuro). E ho fatto una mezza figuraccia con Guido Bagatta (ahah).

Nota

Mi scuso con tutti i fan di Amelio, ma non scrivo del suo film, perché ho dormito per almeno tre quarti d’ora nella seconda parte, svegliandomi sui titoli di coda. Non dipende da lui, il film era bello, ma ero stanco morto. Mi rifarò.

Ferro 3 (Bin-jip)

di Kim Ki-Duk

Venezia 61 Concorso

Ho visto solo 4 film in concorso, ma ho trovato il mio Leone d’oro. Sa essere allo stesso tempo una dolcissima storia d’amore fatta di silenzio e sguardi, un’opera sulla ricerca dell’identità e sulla sua assenza, uno sguardo sospeso e ipnotico sullo stupore del mondo, un film sul visibile e sull’invisibile, sulla parola e sul silenzio. E bellissimo, anche esteticamente, con una fotografia splendida fatta di toni blu e bianchi. Una geniale soggettiva di un occhio dipinto, e un finale incredibile. Probabilmente il miglior film a Venezia quest’anno.

Izo

di Takashi Miike, Giappone

Venezia Orizzonti

Izo è una vera e propria esperienza, più fisica che visiva. Ci vuole pazienza, e stomaco. Ma quello che ne viene fuori, il discorso sull’irrazionalità umana, sulla guerra, è davvero straordinario. Il tutto inserito in una storia che mescola tradizione samurai (con rimandi a Kurosawa), cinema sperimentale (i filmati di repertorio a far da contrappunto) e soprattutto la mitografia nipponica (il rancore, i demoni). A tratti un po’ faticoso, e insostenibilmente violento: ma portatore di una visionarietà geniale, davvero unica e importante nel cinema mondiale.

Palindromes

di Todd Solondz, USA

Venezia 61 Concorso

Sinceramente mi aspettavo di più, da un autore come Solondz: Palindromi non è Happiness, il discorso è più diretto, la provocazione forzata e ricercata. Ma il cinismo coglie nel segno (e diverte) molto spesso, e il regista si conferma uno dei pochi cantori degli orrori americani, uno dei pochi ad avere il coraggio di sparare a zero su tutto e tutti, abortisti e antiabortisti, senza preoccuparsi del buon gusto (che non c’è), con insolito amore per gli inetti e i reietti della società. La Barkin era uno dei miei idoli sexy da giovanissimo: ieri sera l’ho vista, un po’ invecchiata, ma sempre bellissima.

Famiglia Rodante

di Pablo Trapero, Argentina

Venezia orizzonti

Poche parole: un film piccolo piccolo, divertente anche se un po’ scontato. Il bello di Trapero è che sa cogliere piccoli dettagli, regala perle sorridenti di cinema on the road. Affastella le sue storie corali, voci che si sovrappongono sotto l’effetto di una sceneggiatura-canovaccio: niente male.

Some gossip…

Mi sono fatto fare una foto con Takashi Miike e una con Kim Ki-Duk. Emotional.

Vista la molteplicità, dedico questo post a un solo film. E che film!

Three… extremes

di Fruit Chan, Park Chan-Wook, Takashi Miike

Venezia Mezzanotte

Il film collettivo dei tre grandi registi orientali (hongkonghese, coreano, giapponese) è un bellissimo, sorprendente, entusiasmante esercizio di stile.

Dumplings, l’episodio di Chan, è un’operetta cinica sottilmente misogina sulla mercificazione della bellezza, fotografata da dio dal grandissimo Doyle (il fotografo di Wong Kar-Wai).

Cut è l’episodio di Park, che prende il suo tema favorito, la vendetta, e lo butta inizialmente sul ridere, per poi terminare in modo davvero estremo e granguignolesco, ma con uno stile ineccepibile, virtuosistico, sopra le righe ma mai fastidioso, e spesso divertentissimo.

Box, l’episodio di Miike, è il migliore dei tre: un sublime pezzo di cinema, formalista fino allo spasmo estetico, un mediometraggio sul sogno e sul senso di colpa, che mette in crisi, con attese silenzi visioni e deja-vu, lo spettatore, per poi stupirlo inevitabilmente nel finale. Un piccolo capolavoro.