Stati Uniti

21 Jump Street, Phil Lord & Chris Miller 2012

21 Jump Street
di Phil Lord & Chris Miller, 2012

“Teenage the fuck up!”

Negli ultimi anni, molti film hanno cercato di riportare sullo schermo la migliore tradizione dei buddy movie polizieschi. Il tentativo è sempre più o meno lo stesso: fare una commedia che non sia una parodia ma dove funzioni anche il lato puramente action. I risultati sono alterni: ha fallito Kevin Smith con il suo Cop Out, è andata decisamente meglio ad Adam McKay e Will Ferrell in The Other Guys. Ma se Hot Fuzz di Edgar Wright rimane un modello insuperato da imitare, 21 Jump Street è forse il film che si avvicina di più al suo equilibratissimo miscuglio di omaggio affettuoso e divertimento puro.

Chi avrebbe mai scommesso su un film come 21 Jump Street? Un lungometraggio tratto da una serie tv conclusa più di vent’anni fa e che solitamente viene ricordata per aver lanciato Johnny Depp? Peraltro un film comedy tratto da una serie drama? E tutto ciò dopo il disastro (artistico, si intende) dello Starsky & Hutch di Todd Phillips? Per fortuna a scrivere il film c’è Michael Bacall, che viene – guarda il caso – da Scott Pilgrim di Wright, e per fortuna a dirigere ci sono Phil Lord e Chris Miller, ex ragazzi-prodigio della tv, responsabili del sorprendente film d’animato Piovono Polpette. Insomma, poteva essere l’ennesima sciocchezza ridanciana prodotta in un clima di zero creatività in cui finisce a scavare nei fondi di magazzino della cultura televisiva americana (vedi alla voce Land of the Lost); invece, a sorpresa, 21 Jump Street è uno dei film più esilaranti della stagione.

In parte anche perché è completamente consapevole del tipo di operazione che rappresenta, lo fa presente fin dalle primissime battute, e se non perde l’occasione per sottolineare ogni cliché (un esempio per tutti, il capitano della squadra degli infiltrati che si presenta dicendo “I know what you’re all thinking: Angry Black Captain!”) non li ridicolizza mai fino in fondo ma in qualche modo li abbraccia, come si fa con un vecchio amico a cui si vuole bene nonostante tutto. L’arrivo dei due poliziotti infiltrati nella high school è poi l’occasione per ribaltare in modo geniale gli stereotipi del liceo americano: leggere fumetti è diventato popolare, essere un jock manesco ti condanna all’emarginazione sociale. Cos’è successo nel frattempo? ”Fuck you, Glee!” risponde Channing Tatum.

Uno dei meriti maggiori di 21 Jump Street è stato proprio intuire, portare alla luce e sfruttare fino in fondo il potenziale comico di “COLLO” Tatum, tutt’altro che mera spalla dell’ormai navigato e qui dimagritissimo Jonah Hill: i due formano una coppia comica perfetta e capace di autentiche meraviglie – con il supporto di un ricco cast di contorno tra cui spiccano Dave Franco, Ice Cube, Ellie Kemper, Rob Riggle e l’adorabile Brie Larson. Bacall e il duo di registi ci mettono tutto il resto: da una parte una lista interminabile di dialoghi incredibilmente spassosi e immediatamente citabili (“stop fuckin’ with Korean Jesus! He’s busy with korean shit!”), dall’altra una cura superiore alla media delle sequenze più movimentate (che siano inseguimenti, sparatorie o viaggi lisergici sotto effetto di droghe sintetiche) che a tratti  ricordano proprio il mondo cartoonesco dentro cui Lord & Miller si sono fatti le ossa.

Una gran bella sorpresa.

Chronicle, Josh Trank 2012

Chronicle
di Josh Trank, 2012

Negli ultimi anni, si è diffusa in modo capillare, soprattutto nel cinema fantastico e nel cinema horror, la moda del cosiddetto found footage; un artificio tecnico e narrativo al tempo stesso attraverso il quale si possono anche compensare, magari in modo autoriflessivo, le proprie ristrettezze di budget. Sono però pochi (e quasi tutti usciti anni fa, per esempio Cloverfield, Redacted, Rec) i film che hanno saputo utilizzarlo in modo intelligente, sensato. Chronicle in tal senso rappresenta una svolta quasi epocale.

In una nuvolosa e suggestiva Seattle ricreata tra Vancouver e Cape Town, tre studenti delle superiori (tra cui uno solitario ed emarginato, con una tragica situazione famigliare e una fresca ossessione per la sua telecamera) scoprono per caso in un bosco fuori città una profonda cavità, il cui misterioso contenuto dona loro straordinari poteri telecinetici – e non solo, come vedremo in seguito. Chronicle è di fatto costruito come una origin story, ma quella che dalla distanza potrebbe sembrare l’ennesima variazione del tema super-eroico declinato nel mondo delle high school americane diventa nel suo implacabile e cupissimo sviluppo uno dei più originali e trascinanti romanzi di formazione degli ultimi tempi.

La sceneggiatura brillante e colta, solidissima anche se non sempre sottile, del 25enne figlio d’arte Max Landis accorpa noti contrasti sociali dell’immaginario high school, riferimenti geek, implicazioni filosofiche, ma partendo di base da una domanda ben chiara, che suona all’incirca: cosa succederebbe davvero se un adolescente ottenesse dei superpoteri? Tutti spunti che l’esordiente Josh Trank sfrutta con dedizione e passione, ma anche con innegabile fiuto; perché tra i grandi punti di forza, al di là dello stratagemma filmico in sé, è infatti l’uso che ne viene fatto e la sua centralità nel racconto. Dopotutto il film si chiama Chronicle e si apre sulla decisione di Andrew di “filmare tutto”: non si tratta di un pretesto ma di un concetto saldato alla psicologia dei personaggi, e quella della telecinesi come direzione della fotografia è un’idea autenticamente geniale che contribuisce a cambiare le regole del gioco dall’interno.

Ma al di là delle considerazioni necessarie sull’intelligenza, sulla scaltrezza e sulle implicazioni metanarrative di un film come Chronicle, da un certo punto in poi il talento artistico in campo e il gusto per lo spettacolo puro prendono totalmente il sopravvento. E fanno terra bruciata. Grazie alla bravura (ma anche al casting perfetto) degli semisconosciuti attori principali e a uno spirito strenuamente apocalittico, la seconda metà di Chronicle mette gradualmente da parte il tono più ironico e scanzonato dei dialoghi di Landis e si lancia in un crescendo drammatico, esplosivo, irresistibile che a molti ha ricordato quello di Akira e in cui la moltiplicazione degli strumenti di ripresa non fa che amplificare le notevoli ambizioni di tragica grandezza del film.

Chronicle fa molto di più che “spendere poco e guadagnare molto” (costato 12 milioni, ne ha già incassati più di 60 in Nord America e il doppio in totale) né si limita a percorrere strade già percorse dai suoi predecessori. Al contrario: ci riporta alla centralità delle idee, della bravura, della cura del racconto, dei personaggi. E ci lascia senza fiato in gola.

Nei cinema dal 9 maggio 2012

Hunger Games, Gary Ross 2012

Hunger Games (The Hunger Games)
di Gary Ross, 2012

Aver letto il libro da cui è stato tratto un film non è affatto necessario per giudicare o comprendere quest’ultimo; anzi, spesso può portare fuori strada. Ma in alcuni casi può essere utile per inquadrarlo, quantomeno per avere un punto da cui partire, soprattutto se si parla di un imponente successo letterario come quello del libro di Suzanne Collins, che io stesso mi sono sorpreso a divorare in poco tempo. Pur trascinandosi dietro l’etichetta “young adult”, è un libro fluido e lucido, immaginifico e incalzante, in cui l’autrice mostra un’abilità notevole nell’applicare il gusto per il sincretismo culturale (dai miti greci ai reality show, passando per i classici della fantascienza distopica) senza limitarsi, come nel caso di Twilight, ad applicare una “cornice” di genere a convenzioni reazionarie.

Molto fedele al suo testo originario fino a dove è narrativamente plausibile (adattato dalla stessa Collins insieme al regista e al Billy Ray di Breach, risponde in modo agile al passaggio dal racconto in prima persona), il film trova a sorpresa nel Gary Ross di Pleasantville una guida intelligente e non banale (vedi la prima parte ambientata nel Distretto 12, tutta camera a mano e primissimi piani) e qualche difficoltà si riscontra solo nelle scene più movimentate, a tratti un po’ confuse. Per il resto, Hunger Games è un divertimento solidissimo e appassionante, con alcune scelte di casting incredibilmente azzeccate (Harrelson in primis, ma anche Lenny Kravitz e Stanley Tucci funzionano benissimo) e dominato per tutta la sua durata dalla formidabile presenza scenica della sua protagonista. Tra le attrici più dotate (e più belle, diciamolo) della sua generazione, Jennifer Lawrence riesce a trasmettere tutte le sfumature del personaggio di Katniss Everdeen senza mai forzare la mano, regalando una performance memorabile che sembra quasi un complemento della Ree Dolly di Winter’s Bone.

Due pesi, due misure: Hunger Games, così come il libro, non è un’opera radicale o rivoluzionaria; ma è un film che riesce a bilanciare in modo perfetto le esigenze del target a cui sarebbe dedicato (senza sottovalutarne la maturità o l’intelligenza) con un gusto per il puro racconto che Hollywood spesso trascura, costruendo insieme all’attrice un personaggio femminile autenticamente eroico, coraggioso e indipendente, facendo leva su temi e pulsioni attuali e universali (moltissime le possibili interpretazioni politiche del film, che lasciamo ad altri) e finendo per diventare perfetto per qualunque pubblico – un esempio per il cinema mainstream, fantastico e non. Infatti anche il film ha avuto un enorme successo: quasi 600 milioni di incasso in pochi giorni per “solo” 80 milioni di budget, e in due dimensioni. Se li merita, dal primo all’ultimo dollaro.

The Avengers, Joss Whedon 2012

The Avengers
di Joss Whedon, 2012

In tempi in cui il discorso sul cinema si è ridotto sempre più a un’opposizione tra aspettativa e realizzazione, come era possibile mantenere le promesse di un progetto come The Avengers? Stiamo parlando di un blockbuster su cui è stato puntato così tanto (in tempo e denaro) da trasformare in trailer i blockbuster che l’hanno anticipato e letteralmente annunciato, dal successo di Iron Man in poi. La risposta poteva essere la più banale: bastano più star e più soldi. La vera risposta è stata, invece e fortunatamente, la più inaudita. Ed era la risposta giusta. The Avengers in un certo senso rappresenta per la Marvel quello che The Dark Knight fu per la DC: l’idea di investire un enorme capitale non soltanto sul marchio e sulle proprietà, ma su una firma, su un “autore”, su una personalità forte capace di ottimizzare potenzialità meramente industriali e trasformarle in vero cinema. Questa persona è Joss Whedon, uno degli showrunner televisivi più idolatrati, creatore di serie come BuffyFirefly e Dollhouse.

Ed è proprio Whedon a fare la differenza, non solo per via della passione per il fumetto che trasuda da ogni singola idea e per la sua conoscenza approfondita della materia, superiore a quelli che l’hanno preceduto, ma perché comprende fino in fondo che fare un film-fumetto non può e non deve essere più semplice o automatico della media. Tutto il contrario: ogni singola vignetta richiama un’inquadratura curata e sensata, possibilmente creativa; ogni frase pronunciata in un balloon deve essere significativa, ben misurata, possibilmente irresistibile: il lettore può fermarsi, tornare indietro, rileggerla. Whedon costruisce il suo film così: isolando alcune grandi sequenze spettacolari (e lo sono davvero), ma concentrando tutta la sua attenzione sul resto, sulla sceneggiatura e sulla costruzione dei personaggi, anche a costo di chiuderli in una stanza – facendo scontrare le loro personalità ancor prima delle loro armi. Ma quel che conta è soprattutto l’equilibrio: The Avengers per sua natura trasforma l’egomania dei precedenti in coralità, ed era importante, necessario che tutti i protagonisti avessero qualcosa da dire, oltre che da fare. Whedon ci è riuscito in modo eccezionale, sfruttando al meglio chi aveva già dimostrato di funzionare da solo (come Stark e Thor), perfezionando o ridimensionando chi ne aveva bisogno (lo stesso Stark, Captain America), arricchendo moltissimo il Loki di Tom Hiddleston e costruendo da capo un personaggio finora marginale come Black Widow (una strabiliante Scarlett Johansson, che a questo punto merita un film tutto suo) anche se il suo contributo maggiore è quello sul difficile personaggio di Hulk: bastano pochi minuti per capire quanto sia azzeccata la scelta di Mark Ruffalo nel ruolo di Bruce Banner, e sarà il mostro verde al centro dei migliori momenti della seconda parte. Quando si comincia a spaccare, insomma.

Perché ovviamente la cura dei dialghi (quasi sempre ispirati e divertentissimi che si tratti di scambi veloci o di one-liner, e il film ne è stracolmo) e dell’intreccio narrativo non impedisce al film di tuffarsi nel divertimento puro: le sequenze di “combattimento” sono favolosamente congegnate e realizzate nel corso di tutto il film (e spesso riguardano lo scontro tra gli stessi eroi) ma quella conclusiva, lunghissima e annunciata già dai primi trailer, è un apocalittico royal rumble tra i grattacieli che fa impallidire quasi tutte le più scatenate sequenze d’azione che l’hanno preceduta. E fa letteralmente a pezzi la città di New York con un gusto quasi infantile per la distruzione che lascia senza fiato e a bocca aperta. Insomma, non si tratta più di mettere un cervello al servizio dello spettacolo, obiettivo già raggiunto da Favreau e Branagh, ma di trovare un’armonia perfetta tra intelligenza ed evasione, tra meccanica e passione. Whedon era la risposta giusta. E la sua risposta si è trasformata in qualcosa di bellissimo ed esaltante: di gran lunga il miglior film della Marvel prodotto finora, un punto di arrivo con cui i film a venire dovranno presto confrontarsi.

 

Paradiso Amaro (The Descendants), Alexander Payne 2011

Paradiso Amaro (The Descendants)
di Alexander Payne, 2011

Sono passati dodici anni dal sorprendente Election, ma sembra una vita: dopo SchmidtSideways, Alexander Payne aggiunge un altro tassello a una filmografia furbetta e deprimente che si nasconde dietro una patina indipendente, tra molte virgolette. Il successo – di critica e di pubblico – di un film del genere si spiega da sé (per quanto possa risultare fastidioso e stucchevole, è indubbiamente ben scritto, la conclusione è silenziosa e azzeccata) ma è davvero un peccato che Payne utilizzi l’elemento più interessante del film (gli scenari aperti dal libro di Kaui Hart Hemmings sono davvero originali e inediti per il modo in cui vorrebbero smitizzare l’ambientazione hawaiana) solo come metafora facilona e maschera pretestuale di una storia famigliare risaputa e ruffiana, che punta alla lacrimuccia con spudorata scaltrezza, confondendo l’avvilimento con la commozione. Clooney dal canto suo, come al solito, si sforza di uscire dai panni del sex symbol limitandosi a vestirsi e pettinarsi male, ma è fin troppo affascinante: bravo, certo, ma fuori ruolo.

La migliore in scena, e in generale, è invece la deliziosa Shailene Woodley, già protagonista della serie tv La vita segreta di una teenager americana: intensa senza mai strafare, dotata di una bellezza inusuale ma ipnotica, è protagonista di una delle scene più celebrate del film (quella in cui urla sott’acqua) ed è quasi una rivelazione, in attesa di un film capace di sfruttare meglio il suo talento.

Sherlock Holmes – Gioco di ombre, Guy Ritchie 2011

Sherlock Holmes – Gioco di ombre (Sherlock Holmes: A Game of Shadows)
di Guy Ritchie, 2011

Il primo Sherlock Holmes diretto da Guy Ritchie era stato, oltre che un enorme successo commerciale, una bella sorpresa: il regista inglese dopo qualche intoppo era tornato in piena forma, ripensando in modo personale uno dei personaggi più rappresentati della storia del cinema e della tv senza tradirne lo spirito originario, giocando con gli spettatori senza prendersi mai troppo sul serio e inaugurando una moda o forse, chissà, addirittura un filone. Il “secondo capitolo” non cambia molto le carte in gioco, bilanciando con l’arrivo di Mycroft (interpretato dal grande Stephen Fry, ovviamente spassoso) e della classica nemesi incarnata da Moriarty (un Jared Harris perfettamente in ruolo, lo sa bene chi segue Fringe) l’assenza di carisma di Noomi Rapace (che sostituisce la Irene Adler di Rachel McAdams) anche se, dopotutto, il rapporto di amicizia tra Holmes e Watson è diventato così allusivo e romantico da rendere quasi accessoria una qualsivoglia controparte femminile. Chiunque abbia una minima conoscenza delle storie di Holmes sa bene fin da principio dove andrà a parare lo scontro tra il detective e il professore, ma il problema della trama non sta certo nella sua prevedibilità quanto, al contrario, nell’eccesso di sceneggiatura: firmato dai coniugi Mulroney, lo script confuso e caotico, intricato senza vere giustificazioni. In generale, A Game of Shadows non aggiunge granché ai punti forti del primo capitolo (l’alchimia tra i due protagonisti, il fascino dell’ambientazione curatissima,  il contrasto con la messa in scena ipercinetica, l’idea del talento deduttivo di Holmes come sorta di “macchina del tempo”), ma questo non impedisce certo il divertimento in sé: Downey Jr e Law sono sempre irresistibili, gli scambi screwball tra i due sono ancora i momenti più divertenti, la confezione è sfavillante, e c’è almeno una sequenza d’azione memorabile (la sparatoria nel bosco) in cui Ritchie ha finalmente la possibilità di sfogarsi fino in fondo replicando, ma qui anche potenziando, le idee del primo film.

Knockout (Haywire), Steven Soderbergh 2011

Knockout – Resa dei conti (Haywire)
di Steven Soderbergh, 2011

L’approccio di Soderbergh al cinema d’azione non potrebbe essere più differente da quello dei registi che abitualmente se ne occupano, tanto che questo contrasto che è alla base di Haywire finisce per essere quasi il suo unico fondamento: un film su Soderbergh che gira un film di arti marziali. Il regista dopotutto si è costruito la fama di firma eclettica anche coltivando l’interesse per i canoni, flirtando con essi e violandoli con le sue ossessioni (con risultati assai altalenanti) e anche qui il procedimento è simile: Haywire segue un canonico percorso vendicativo di un’attraente spia mercenaria costretta a difendersi da un complotto costruito alle sue spalle, ma Soderbergh – che oltre a dirigere si occupa personalmente della fotografia e del montaggio, sotto pseudonimi – lo asciuga completamente rendendolo statico, nonostante non manchino ben coreografate scene di lotta o di inseguimento. Questa sorta di ricercato disequilibrio si ritrova già nella lottatrice Gina Carano, volto noto del mondo delle MMA: straordinaria in azione, ovviamente molto meno a suo agio nelle molte sequenze narrative – che finiscono per risultare agli occhi dello spettatore un riempitivo in attesa del prossimo assalto. Soderbergh probabilmente vuole far dialogare un cinema spionistico più “raffinato” – tappeto sonoro di David Holmes incluso - con il vero “cinema di menare”, ma si fa distrarre dalle sue manie e dalla sovrabbondanza del cast (ancora una volta dopo il riuscitissimo Contagion torna il metodo delle performance isolate; ma in questo caso non giova) e finisce per annoiare. Non mancano comunque le buone idee e le buone invenzioni (per esempio la fuga nel bosco in retromarcia, ma anche tutta la parte con il solito carismatico Michael Fassbender) e la Carano quando ci si mette è una gioia a vedersi, ma Haywire è più una curiosità, un singolare esperimento, che un film davvero compiuto.

Link: la stroncatura di Nanni Cobretti sui 400 Calci.

God Bless America, Bobcat Goldthwait 2011

God Bless America
di Bobcat Goldthwait, 2011

“My name is Frank. That’s not important. The important question is: who are you?”

La filmografia di Bobcat Goldthwait sembra avere tra i suoi tratti più caratteristici la provocazione che si inserisce negli addormentati canoni del cinema americano e funge da vera e propria secchiata d’acqua fredda: Sleeping dogs lie era una variazione estrema su un canovaccio da commedia romantica (una coppia affronta la crisi quando lei confessa di aver fatto sesso con un cane al college) e il bellissimo World’s Greatest Dad si impossessava della riconoscibile maschera da commedia di Robin Williams mutandola all’interno di una parabola profondamente amara.

God Bless America invece è provocazione allo stato puro, aggressiva ed esplosiva, asciugata di ogni possibile fraintendimento. L’incipit del film mette subito le cose in chiaro: infastidito dalla rumorosa coppia con bambino urlante nell’appartamento accanto, il frustrato e solitario impiegato Frank sogna di bussare alla loro porta e ucciderli senza esitazioni, e quando la madre lancia il bambino Frank gli spara a mezz’aria. Uno sfogo onirico destinato però a diventare reale, come ogni storia di spree killing insegna: la miccia è la scoperta di un cancro incurabile, ma si accende solo quando Frank sente la figlia di nove anni urlare contro la madre perché ha avuto in regalo un Blackberry invece di un iPhone. A quel punto lo spettatore deve decidere se lasciare o raddoppiare, anche perché il punto di vista sarà sempre e solo quello dell’assassino, da lì alla fine del film.

La più grossa provocazione del film riguarda proprio questo meccanismo empatico: interpretato perfettamente da Joel Murray, il più bravo dei fratelli di Bill, Frank si proclama nemico della cultura televisiva in (quasi) tutte le sue manifestazioni, denuncia in modo cinico ma preciso un’insofferenza nei confronti del trash, della cafonaggine, dell’omofobia e della pedofilia della società americana che ha raggiunto e superato la saturazione. Noi siamo portati a pensarla come Frank, la differenza è che lui prende una pistola e comincia a sparare, e scagliandosi contro un’America che non sa più “essere gentile” ci spinge dalla parte – scomoda e inquietante – del grilletto. Le vittime possono essere le protagoniste viziate e petulanti di un reality show, quelli che parlano al cinema, i membri del Tea Party, fino all’epitome e obiettivo principale della rabbia di Frank: American Idol.

Frank non è solo. Accanto a lui, come una spruzzata di benzina su un fuoco già piuttosto vivo, c’è una sedicenne esagitata chiamata Roxy (interpretata da Tara Lynne Barr, una specie di frullato di Christina Ricci e Anna Faris) che decide di diventare la Bonnie Parker della situazione – ma funge più che altro da controcanto di un monologo crudele e virulento sullo stato dell’America odierna. God Bless America ha infatti questo problema, che schiaccia un freno decisivo e lo rende meno irresistibile: dà l’impressione di essere un film costruito intorno alla routine di uno stand up comedian - e non è un caso che sia proprio quello il mondo da cui proviene Goldthwait. Non soltanto per l’aggressività del linguaggio e per i temi affrontati, ma proprio per la stuttura dei dialoghi, che spesso si tramutano in veri e propri rant sulla decadenza del paese in cui vengono elencati uno per uno i mali della società e le “persone che meritano di morire”.

Tutto sommato però l’operazione va a buon fine: pur sacrificandola in parte per puntare alla pancia dello spettatore, Goldthwait ha comunque una sensibilità cinematografica tutta sua, che ancora una volta cerca il punto d’incontro tra la dolcezza e la pazzia come pochi registi americani hanno il coraggio di fare. Certo, mostra di non avere alcun interesse nelle mezze misure, ogni simbolismo è dichiarato, gli obiettivi degli sproloqui hanno spesso nomi e cognomi (Woody Allen, Lolita, Diablo Cody, Glee) oppure sono parodie conclamate (Fox News, lo stesso American Idol) e non c’è spazio per sottigliezze, ma nonostante utilizzi a man bassa l’assurdo e il grottesco (anche per sottolineare che, appunto, si tratta di una provocazione e non di un’istigazione) questo suo affresco dell’America di oggi e dei piccoli quotidiani orrori da piccolo schermo appare molto più realistico di quanto non sembri – rendendo ancora più efficace la caustica e furiosa furia omicida di Frank e Roxy.

Il film è stato presentato al festival di Toronto e poi al South by Southwest. 

Esce negli states a maggio ma qualche giorno fa è stato distribuito On Demand.

Biancaneve (Mirror Mirror), Tarsem Singh 2012

Biancaneve (Mirror Mirror)
di Tarsem Singh, 2012

Se c’è una cosa che ti puoi aspettare da un film di Tarsem, è l’inventiva scenografica che ha caratterizzato tutta la sua carriera, prima musicale e pubblicitaria e poi cinematografica. In realtà nel suo quarto film, ispirato alla favola dei Grimm, i cui elementi vengono “rimescolati” più che reinventati, questa impronta è limitata a una sola vera invenzione à la Tarsem, violazione delle leggi della fisica inclusa (lo specchio magico) e sostituita perlopiù dal lavoro dell’art department e della straordinaria costumista giapponese Eiko Ishioka, scomparsa da un paio di mesi e a cui il film è doverosamente dedicato.

La differenza sta tutta lì: come ai barocchismi si sostituiscono scenografie sontuose e abiti spettacolari, così la messa in scena è tutt’altro che fiammeggiante e risulta al contrario priva di vita, sterilizzata da fondali asettici e dall’eccessiva importanza del set rispetto alle istanze di regia. Dopotutto, stiamo parlando di un film asciugato di qualunque autentica inquietudine e unicamente volto a un innocuo anche se – ammettiamolo – gradevolissimo divertimento (al di là del giudizio assoluto, come live action cartoon non fa mezza piega), un film per cui vale la pena di estrarre dallo sgabuzzino l’espressione “per tutta la famiglia”: aspetto indiscutibile che se lo rende potenzialmente appetibile per qualunque fascia d’età, allo stesso tempo ne fa un film straordinario per nessuna di esse.

Mirror Mirror è infatti pieno di idee dall’enorme potenziale che però funzionano per poco, o solo fino a un certo punto: come i sette nani, simpatici ma per nulla memorabili, oppure le diverse meta-riflessioni sul mondo delle fiabe che non vanno molto oltre quanto già detto da Shrek e dai suoi innumerevoli epigoni – anche se tutta la riappropriazione dell’indipendenza eroica di Biancaneve, per quanto sbattuta in faccia al pubblico, è decisamente interessante. Il meglio lo darebbe Julia Roberts, ferocemente brava nel ruolo della stronza (un peccato perdersela in lingua originale), se non fosse che tutta la prima parte del film è troppo concentrata su di lei e sulla mansueta perfidia del suo battutario; molto meglio la seconda, in cui la protagonista diventa Lily Collins – che è una gran bella scoperta: deliziosa e perfetta per il ruolo, non le si chiede granché ma lo fa alla grande.

Nei cinema dal 4 aprile 2012

Happythankyoumoreplease, Josh Radnor 2010

Happythankyoumoreplease
di Josh Radnor, 2010

Scritta durante le riprese delle prime due stagioni di How I Met Your Mother e presentata al Sundance nel 2010 (dove ha vinto il premio del pubblico), l’opera prima di Josh Radnor rispecchia una personalità non del tutto dissimile da quella del suo più noto alter ego televisivo Ted Mosby, ed è un’ennesima variazione sul tema dei trentenni in colpevole o involontario ritardo sull’età adulta.

Il protagonista, interpretato ovviamente dallo stesso Radnor, è uno scrittore messo di fronte alle sue responsabilità dopo aver accolto in casa un orfano incontrato in metropolitana e dopo essersi preso una cotta per Mississippi, una barista del Mississippi; la sua migliore amica Annie (Malin Akerman), malata di alopecia, nasconde le sue insicurezze dietro un’ottimistica esuberanza; la cugina Mary Catherine (Zoe Kazan) non riesce a mettere una cornice precisa al suo lungo rapporto col fidanzato Charlie. In sintesi, i personaggi condividono un’inquietudine comune: la difficoltà e la paura di essere amati.

Radnor, regista piuttosto modesto ma sceneggiatore abile e scaltro, modera l’inevitabile banalità che le storie e il contesto newyorkese si portano dietro con un indiscutibile talento per i dialoghi, e bilancia in modo gradevole la sua (ricercata) ingenuità con un pizzico di presunzione che si riscontra in alcune frasi e scene “a effetto”. Ma in fin dei conti la sua fiduciosa e spudorata gentilezza non lascia indifferenti, anche perché può contare sul notevole rinforzo di un ottimo gruppo di attori – tra cui inevitabilmente spicca la Akerman, ma anche la Kazan: due facce così valgono da sole mezzo film.

Il film non è mai arrivato in sala in Italia e non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Update: il film non è uscito in sala né in dvd ma come mi fa gentilmente notare Luca una versione italiana del film esiste eccome, nel listino del canale satellitare Mya. Per la cronaca, dovrebbe andare in onda il prossimo 6 aprile.

L’edizione dvd britannica, d’altro canto, costa pochi euro.

La colonna sonora prodotta dagli stessi curatori di “How I Met Your Mother” include molti brani della cantautrice Jaymay ma anche pezzi di band come Shout Out Louds, Cloud Cult e Blind Pilot. Potete sentirli tutti qui.

Il secondo film scritto, interpretato e diretto da Radnor si intitola “Liberal Arts” ed è stato presentato a gennaio, sempre al Sundance. Accanto a lui stavolta c’è Elizabeth Olsen.


The Myth of the American Sleepover, David Robert Mitchell 2010

The Myth of the American Sleepover
di David Robert Mitchell, 2010

“It’s a myth. Being a teenager. They trick you into giving up your childhood with all these promises of adventure. But once you realize what you lost, it’s too late. You can’t get it back.”

Periferia di Detroit, ultimo weekend estivo prima che inizi la high school. Le ragazze organizzano “sleepover”. I ragazzi pure, ma si vergognano a chiamarli così. Rob incontra una bionda al supermercato e passa tutta la sera a cercarla e schivarla, senza accorgersi che qualcuno è da tempo innamorato di lui. Maggie è improvvisamente sbocciata, a differenza della sua inseparabile amica, e vuole assolutamente baciare qualcuno prima che l’estate finisca. Claudia è arrivata da poco in città e proprio durante uno sleepover scopre un segreto sul conto del suo fidanzato. E poi c’è Scott, un “fratello maggiore” che ha mollato il college dopo una delusione d’amore, e che ritrova una scintilla di speranza in una vecchia foto del liceo.

Lo sleepover, che da noi si chiamerebbe al massimo “pigiama party”, è presentato fin dal titolo come calzante metafora di un momento formativo essenziale e irripetibile, ed è il perno narrativo intorno a cui si danzano le storie di questo racconto corale, vincitore del Premio Speciale della Giuria al SXSW un paio di anni fa. Con questo suo leggiadro, garbato e freschissimo esordio, grazie a piccoli e semplici tratti, spesso senza bisogno nemmeno di aprire bocca (come nella bellissima scena in cui Maggie e la sua amica pedalano per la città accompagnate da Elephant Gun di Beirut), e all’aiuto di una manciata di attori giovani e bravissimi, quasi tutti esordienti o non professionisti, David Robert Mitchell riesce a raccontare molte verità sull’adolescenza, vista come un contrasto evanescente tra la voglia di diventare grandi e la paura che il tempo stesso passi troppo in fretta sfuggendoci tra le mani, come se nell’agognato passaggio all’età adulta fosse già contenuta la malinconica consapevolezza della sua irrevocabilità.

Un bellissimo piccolo film che non ha paura di essere comune pur di essere autentico.

Il film è uscito da tempo in dvd negli USA: ovviamente è Regione 1. C’è anche un’edizione olandese, che è Regione 2 ma purtroppo è priva di sottotitoli inglesi.

Il film è passato anche al Festival di Torino nel 2010. Per il momento non mi risulta sia prevista una distribuzione italiana.

Margin Call, J.C. Chandor 2011

Margin Call
di J.C. Chandor, 2011

“If you’re first out the door, that’s not called panicking.”

Chiedetemi quello che volete, ma non chiedetemi di raccontarvi per bene la trama di Margin Call. Perché non sono del tutto sicuro di aver capito bene cosa diavolo succeda, nel dettaglio, in Margin Call.  Un problema del tutto personale del mio cervello, che ha una profonda idiosincrasia per il lessico economico; e se anche i personaggi invocano spesso il più classico degli “adesso spiegamelo come se fossi un bambino di otto anni” a vantaggio dello spettatore neofita, l’esito del dialogo mi fa sentire come un bambino di quattro. Ciò nonostante, con mia stessa sorpresa, Margin Call è un gran film: in fondo, lo specifico meccanismo che porta l’azienda sull’orlo del baratro (ispirato ufficiosamente al caso Lehman Brothers) non è che un ingranaggio, l’innesto di un dramma feroce e compattissimo (si svolge tutto nel corso di circa 24 ore) che getta un’ombra quasi apocalittica sul mondo della finanza – e per estensione sul mondo del lavoro, di cui la struttura narrativa restituisce la conformazione piramidale – ma che sposta molto presto la sua attenzione sui personaggi, affiancando la storia di una sopravvivenza ai danni dell’etica alle piccole o grandi ossessioni personali dei suoi protagonisti. Loquace ma non verboso, più che sulla messa in scena asciutta e comunque precisa, l’esordio del promettente J.C. Chandor (nominato all’Oscar per il suo script) fa leva soprattutto sulla ricchezza dei dialoghi e sul lavoro di un cast assolutamente eccezionale, con Kevin Spacey e Jeremy Irons in testa e Demi Moore in un ritorno imprevisto e sbalorditivo; la produzione indipendente e il budget ridotto (tre milioni e mezzo di dollari: un’inezia) sono tutto l’opposto di un ostacolo. Un’opera prima davvero notevole. Che voi sappiate o meno cosa diavolo siano i livelli di volatilità.

Nelle sale italiane dal 18 maggio 2012.

Young Adult, Jason Reitman 2011

Young Adult
di Jason Reitman, 2011

Young Adult è un film ricco di conferme. La prima è la bravura di Diablo Cody, che dopo il successo di Juno aveva fatto un mezzo passo falso con lo svagato e inconcludente Jennifer’s Body e con la deludente serie tv United States of Tara. La seconda è la definita statura d’attrice di Charlize Theron: una che ha vinto un Oscar, ma per il film sbagliato, forse troppo presto. La terza, tra le altre, è il valore di Patton Oswalt, non solo uno dei migliori stand up comedian americani né tantomeno solo un doppiatore, bensì un attore bravissimo e “completo” di cui Hollywood dovrebbe cominciare ad accorgersi.

Chi non aveva nemmeno bisogno di conferme è invece Jason Reitman, che continua a non sbagliarne una: dopo il sorprendente esordio di Thank You For Smoking che allontanava ogni possibile accusa di ingiustificato nepotismo, dopo il caso eclatante del sopracitato Juno e le sei (vane) nomination agli Academy Awards di Tra le Nuvole, il regista canadese azzecca in pieno anche il suo quarto film. Quello meno attraente e vendibile (per dire: una sola nomination ai Globes, nessuna agli Oscar) ma forse quello più onesto, maturo, più coraggioso e – prendendo in prestito un termine troppo spesso abusato – più “cattivo”. La trama del film, di suo, si stende su terreni conosciuti, ma Reitman lascia campo libero ai dialoghi appuntiti e spassosi, crudeli e perfetti, e all’interpretazione eccezionalmente sgradevole della Theron, che riesce a risultare bellissima (come non mai, forse) e al tempo stesso ripugnante.

Forse si perde un po’ dell’empatia che estendeva e universalizzava la parabola sociale di Tra le Nuvole, e nella brutale risoluzione di questo film non c’è traccia del “cinismo gentile” di Juno, un dato che rende Young Adult più difficile da digerire, un dramma psicologico doloroso e spietato travestito da commedia indie: si potrebbe pensare che sia una nuova direzione nella filmografia di Reitman, oppure che, in fin dei conti, è un aspetto da sempre presente nei suoi film. La sua acuta professionalità ci fa ipotizzare che, semplicemente, questa storia e questo personaggio non si potessero raccontare in altro modo.

Bisognerebbe scrivere un post a parte sul trattamento inglorioso che i distributori hanno riservato al film per la sua uscita italiana, limitata a una dozzina di sale in tutto il paese: di fatto, è quasi come se non fosse nemmeno uscito. Le spiegazioni sono diverse, e non tutte simpaticissime, non è la prima volta né sarà l’ultima che accade, ma è davvero un peccato.

Game Change, Jay Roach 2012

Game Change
di Jay Roach, 2012

Tra le performance femminili più applaudite della stagione, come spesso accade, ci sono alcune fedeli interpretazioni di personaggi storici di enorme riconoscibilità: la Margaret Thatcher di Meryl Streep, per esempio, o la Marylin Monroe di Michelle Williams, capace di rileggere l’icona pop novecentesca per eccellenza senza incappare nel rischio della sterile imitazione.

Il caso di Game Change è persino più clamoroso: in questo film per la tv trasmesso dalla HBO che racconta l’intensa campagna di Sarah Palin per la vicepresidenza degli Stati Uniti nel “lontano” 2008, Julianne Moore veste i panni dell’ex governatore dell’Alaska calandosi nella parte con una furia mimetica che ha davvero pochi precedenti – o che forse colpisce più del solito a causa della ridotta distanza temporale dal modello – e che rappresenta in qualche modo l’opposto del metodo della Williams: riportandone sullo schermo il look, i tic, il particolarissimo accento, persino dettagli come il ritmo della parlata, l’attrice scompare completamente  in una formidabile quanto inquietante fotocopia.

Una prova mostruosa che però non aiuta il film a decollare, o forse contribuisce a determinarne il fallimento: purtroppo Game Change è un film terribilmente piatto e noioso che tradisce l’origine e la destinazione televisiva molto più di quanto ci si potesse aspettare dalla sua prestigiosa sede. E non sono d’aiuto né l’univocità della prospettiva democratica da cui la campagna repubblicana è narrata, né d’altra parte la scelta di ritrarre John McCain e Steve Schmidt con visibile rispetto – perché toglie al film ogni possibilità di infilare davvero le unghie nelle pieghe della storia. La tracotanza della Moore, invece, la distacca da qualunque tentativo di contenimento: è una specie di organismo autonomo che si muove a prescindere dal film, da cui esce un ritratto spietato, disturbato, umano e tridimensionale, ma che finisce per rosicchiare i pochi motivi di interesse rimasti attorno a lei.

Il meglio sta quasi sempre ai margini o fuori dal testo: non è un caso che l’esito migliore del film sia il video amatoriale che confronta le apparizioni pubbliche della Palin con la “versione” della Moore, o che la sequenza più bella del film sia quella in cui la Sarah Palin di Julianne Moore guarda sconvolta in tv la Sarah Palin di Tina Fey nel celebre episodio del Saturday Night Live. Una fiammata di genio, benché necessaria, all’interno di un film davvero limitatissimo.

John Carter, Andrew Stanton 2012

John Carter
di Andrew Stanton, 2012

È successo qualcosa di curioso, con l’uscita di John Carter: molti l’avevano già condannato – artisticamente ma soprattutto commercialmente – ben prima che uscisse o semplicemente esistesse; un po’ per la peculiarità di condizioni produttive che l’avevano spinto fino a un budget di (si dice) oltre 200 o 250 milioni di dollari, forse perché l’industria ha bisogno, ogni tanto, di un capro espiatorio da trasformare in esempio per registi o produttori troppo ambiziosi.

L’ambizione di Stanton, tra i registi di punta della Pixar, già responsabile infatti della regia di film come Alla ricerca di Nemo e WALL-E, era in verità piuttosto trasparente: portare sullo schermo una storia letteralmente secolare (e sul tavolo di Hollywood più o meno da quando c’è il sonoro) com’è la “saga di Barsoom” di Edgar Rice Borroughs e renderla appetibile a un pubblico che nel frattempo ha divorato e digerito ogni possibile derivazione, clonazione e mutazione di quel tipo di storia.

Il problema maggiore del film non è però, come temevano, uno sfoggio eccessivo di mezzi votati al caos o, peggio ancora, al vuoto, ma ha a che fare con la sua quasi obbligata struttura: John Carter è un film che parte almeno tre o quattro volte prima di partire sul serio, e la revisione di Michael Chabon non sembra alleggerire affatto una prima parte che stenta a ingranare e interessare. Una volta innescato il meccanismo e messo piede a Barsoom, impostate le regole del gioco, ci si comincia a divertire.

E del resto del film, una sua buona parte, è quasi impossibile dire o pensare male: Stanton racconta la storia del soldato disilluso catapultato suo malgrado su un altro pianeta (dove finirà invischiato in un’altro tipo di guerra) cedendo spesso alle angherie degli stereotipi narrativi – non c’è nulla di male se lo fai con questa franchezza – ma il suo tentativo di trasportarvi anche il pubblico si può dire del tutto riuscito: John Carter è un film di avventure ingenuo e appassionante messo in scena con semplicità ed enorme professionalità.

Se c’è un film che questo John Carter mi ha ricordato è Stargate: al di là di una certa assonanza della colonna sonora di Giacchino e della somiglianza del percorso narrativo di Carter con quello del colonnello interpretato da Kurt Russell, parlo dell’idea di un cinema che sceglie di essere naif e puramente avventuroso senza passare, come accade per esempio molto spesso in Spielberg (dai Predatori a War Horse), dall’operazione-nostalgia o dalla malinconia prettamente cinefila, quasi del tutto assente in questo film.

Stanton, dalla sua, ha fatto tesoro della lezione in Pixar e forse più in generale in Disney: lo si vede nella costruzione delle sequenze più movimentate (quasi sempre eccellenti), nell’accenno palese a tematiche generalmente ecologiste, ma anche nel tratteggio delle figure secondarie, assai meglio scritte della media (in primis la Dejah di Lynn Collins) mentre il “cane” Woola sembra in tutto e per tutto uscito da un film d’animazione – non a caso è una delle trovate migliori del film, nonché il suo unico, irrinunciabile comic relief.

Tutt’altro, dunque, che il disastro che molti avevano annunciato e che alcuni hanno pure confermato, forse per ansia da prestazione – o forse più semplicemente perché non è stato di loro gusto. E se il debutto di Stanton non è all’altezza dei suoi risultati animati, ci rimane una sequenza – quella battaglia furiosa alternata al tragico flashback sulle “origini” di John Carter – in cui si vede tutta, ma proprio tutta la sua bravura: una sequenza temeraria, bellissima, commovente, da applausi a scena aperta.

Millennium – Uomini che odiano le donne, David Fincher 2011

Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo)
di David Fincher, 2011

Nonostante un adattamento del best seller di Stieg Larsson, peraltro già avvenuto in Svezia pochi mesi prima, potesse sembrare da una certa distanza un’opera di passaggio, non solo minore ma meramente alimentare, in verità Fincher è riuscito ad appropriarsene, a farlo suo per l’ennesima volta: dopotutto, uno dei massimi pregi del regista è sempre stato quello di saper annullare i confini tra il cinema d’autore e quello commerciale, tra il valore artistico e la commissione, e quest’ultimo lavoro non fa eccezione. Quindi, nonostante non sia certo da annoverare tra i suoi lavori più riusciti in senso assoluto (ma il confronto con The Social Network sarebbe schiacciante per chiunque, o quasi) il primo capitolo della “saga americana” di Millennium è davvero un gran bel film: appassionante, violento e implacabile, permette a Fincher di riprendere il suo lavoro sul thriller d’indagine tornando sul percorso Se7en e Zodiac, e di prendersela ancora una volta con molta calma, superando le due ore e mezza di durata (più del già lungo film di Oplev) per concentrare tutte le energie delle prima metà sulla costruzione dei personaggi con un uso magistrale del montaggio parallelo – un procedimento che molti thriller sono costretti a saltare a pié pari per esigenze di minutaggio. Ma al di là della messa in scena di Fincher, come al solito ossessivamente millimetrica e perfetta, e dell’interessante anche se tutt’altro che rivoluzionaria costruzione narrativa che porta al puntuale svelamento del mistero, è inevitabilmente Lisbeth Salander il fulcro del film, il suo cuore pulsante, fino a divenirne quasi la ragion d’essere. E la spettacolare, bellissima, inquietante  Rooney Mara la rende indimenticabile con un procedimento diametralmente opposto a quello del suo regista: annullando la propria personalità nel personaggio con un’autentica mutazione, fisica e probabilmente in parte anche psicologica. La sua è una prova d’attore impressionante che riesce a dare al pur robusto e riuscito film di Fincher un nuovo significato, una disturbata e disperata anima nera.

I visionari titoli di testa del film sono stati creati da Blur Studio. La canzone è una cover di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin reinterpretata da Trent Reznor e Atticus Ross (autori della bellissima colonna sonora) e cantata da Karen O degil Yeah Yeah Yeahs.

Tiny Furniture, Lena Dunham 2010

Tiny Furniture
di Lena Dunham, 2010

“My horrible secret is that I hate foreign films”

Sentiremo sempre più spesso parlare di Lena Dunham: la 25enne newyorkese è infatti l’autrice, regista e interprete di Girls, serie co-prodotta da Judd Apatow che andrà in onda su HBO a partire dal prossimo aprile. Ma la sua carriera è iniziata con questo piccolo e applaudito film presentato nel 2010 al South by Southwest, dove ha vinto il premio come miglior lungometraggio narrativo. Una vera e propria istantanea autobiografica dell’autrice: per confessare lo stallo emotivo e professionale seguito alla fine degli studi all’Oberlin College, la Dunham mette in scena una versione romanzata ma terribilmente sincera della propria vita, usando la madre (che è davvero una nota fotografa a New York) e la sorella nella parte di loro stesse. Le ossessioni e i patemi sono quelli di una generazione viziata che affronta per la prima volta il vuoto che si cela dietro la cultura velleitaria in cui è stata coccolata, ma la Dunham riesce a superare il potenziale più irritante dell’autoreferenzialità da “first world problems” con un umorismo sottile e imbevuto di citazioni, colto e consapevole della propria arguzia ma spesso ugualmente irresistibile, sopperendo ai tratti più snob con una rigida e intransigente autocritica. Quello che colpisce di più è infatti il modo spietato con cui la Dunham guarda e racconta il proprio senso di inadeguatezza, psicologico ma anche fisico, puntandosi addosso la macchina da presa senza troppi pudori – ma anche tutti i personaggi secondari (soprattutto la Charlotte di Jemima Kirke) sono davvero centrati, rappresentati con un misto di affetto, impotenza e cinismo. Leggerissimo e impalpabile, Tiny Forniture è un film che di fatto non va e non vuole andare da nessuna parte, ma se dalla distanza sembra seguire i dettami improvvisati del mumblecore, nasconde in verità una notevole precisione di messa in scena, un’innata predisposizione per i dialoghi e per il disegno dei personaggi. Se ne tenga a distanza chi ha un’idiosincrasia per il cinema americano cosiddetto indie, di cui sembra possedere tutte quante le caratteristiche; tutti gli altri troveranno nell’esordio di Lena Dunham il seme di un gran bel talento, sicuramente da coltivare. In ogni caso, come dicevo, ne sentiremo parlare sempre più spesso.

Negli states il film è uscito in dvd niente meno che nella Criterion Collection. L’edizione britannica (Regione 2) arriva invece il prossimo maggio.

Nelle nostre sale? Non fatemi ridere.

50 e 50, Jonathan Levine 2011

50 e 50 (50/50)
di  Jonathan Levine, 2011

Un tranquillo giornalista radiofonico 27enne scopre di avere una rara e aggressiva forma di cancro alla spina dorsale e di doversi sottoporre alla chemioterapia: il titolo fa riferimento alle possibilità di sopravvivenza che il protagonista legge su Wikipedia dopo la diagnosi. Ma nonostante la premessa sia potenzialmente deprimente, 50/50 riesce in quello che suona davvero come un piccolo miracolo: un film sulla malattia che non risulta stucchevole né patetico, che utilizza senza problemi i cliché narrativi (il rapporto con la madre, l’amicizia con gli altri malati) a suo vantaggio senza venirne mai schiacciato, e che si allontana dalla più facile pornografia del dolore affrontando l’argomento con toni da commedia – che lo avvicinano alla vita più di quanto il cinema abbia abitualmente il coraggio di ammettere. Un film sulla malattia che fa ridere? Indubbiamente, molto. Ma la forza del film di Levine sta soprattutto nella sua umanità, che include la possibilità che le persone di fronte alla malattia si comportino in modo inadeguato, spaventato, immaturo, egoista, e che poi ci sia qualcuno che ce la mette tutta. Gran parte del merito va alla sceneggiatura lieve e davvero commovente (perché si piange, cosa credete) che Will Reiser ha scritto ispirandosi alla sua esperienza personale, ma anche all’ottimo cast. Joseph Gordon-Levitt è bravissimo, misurato, ironico, fragile, e Anna Kendrick è infinitamente adorabile, ma è Seth Rogen a sorprendere davvero: interpreta l’ennesima versione di se stesso (stavolta letteralmente: lui e Reiser sono grandi amici) ma lascia trasparire dietro lo stampino della sua comicità greve un’imprevista, onesta e persino timida profondità.

Nelle sale dal 2 marzo 2012

Like Crazy, Drake Doremus 2011

Like Crazy
di Drake Doremus, 2011

La bella e giovane londinese Anna incontra Jacob a Los Angeles, si innamora perdutamente (e misteriosamente, ndr), passa con lui l’estate violando la scadenza del suo visto; così, dopo il suo ritorno in Inghilterra, le viene impedito l’accesso negli Stati Uniti. I due dovranno decidere se restare insieme nonostante l’obbligata distanza – e soprattutto a quali patti. Lo scopo di Doremus è quello di restituire spontaneità e naturalezza al cinema romantico con le armi più affilate del cinema indipendente: racconta una storia autobiografica, gira a bassissimo budget con una reflex della Canon da duemila dollari, affida gran parte dei dialoghi all’improvvisazione – conquistando, anche in questo modo, i favori della critica e della giuria del Sundance che gli assegna il Gran Premio. Purtroppo dietro i trucchetti esperti del filmmaker c’è poca, pochissima sostanza: nonostante una conclusione che possiede una sua strana, malinconica quanto deprimente coerenza, Like Crazy è un film di una banalità sconcertante, terribilmente noioso (un’impresa arrivare alla fine dei suoi 90 minuti scarsi), a tratti persino irritante nella sua malcelata presunzione, che fallisce già di partenza nel ritratto dei suoi due innamorati, il cui comportamento totalmente sciocco e irresponsabile ha ben poco a che fare con la cecità amorosa (più con il fatto che sono sciocchi e irresponsabili in prima battuta) e con cui è quindi davvero difficile se non impossibile immedesimarsi. E non basta qualche idea già vecchia buttata qua e là (come i time-lapse) per nascondere il fatto che la regia di Doremus sia completamente assente, nel migliore dei casi. Allo stesso modo, per definizione, gli attori sono lasciati a briglia sciolta; Jennifer Lawrence e tutti i personaggi secondari sono solo figurine abbozzate in funzione dei due protagonisti, Anton Yelchin è spaesato, fuori ruolo e sembra quasi sempre che stia provando la sua parte per la prima volta; Felicity Jones, invece, se la cava piuttosto bene: quasi dispiace vederla in questi panni, sostanzialmente sprecata.

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene), Sean Durkin 2011

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene)
di  Sean Durkin, 2011

Dopo molti mesi passati in una comune-setta tra le montagne dell’Upstate, la giovane Martha riesce a trovare il coraggio di fuggire e trova rifugio nella casa di villeggiatura della benestante sorella Lucy, con cui aveva troncato ogni rapporto prima di partire. Ma liberarsi dei segni lasciati dagli abusi e dal lavaggio del cervello non sarà affatto semplice.

Presentato lo scorso anno al Sundance, dove ha vinto il premio per la miglior regia, l’esordio dell’ottimo Sean Durkin si muove su opposizioni ben note al cinema indipendente americano, ma da un certo punto in poi sembra ispirarsi (anche visivamente) più alla tensione chirurgica di Haneke, trasformando verso la fine in una sorta di thriller in levare quello che sembrava essere solo un dramma psicologico e violento sulla dissoluzione della società borghese. Il film utilizza la narrazione a flashback in modo costante, preciso e molto intelligente, rivelando soltanto gradualmente – e soltanto quando è necessario per lo svolgimento della trama – ciò che è accaduto a Martha durante il suo soggiorno nella casa; peccato che Durkin finisca per segnare con eccessiva chiarezza i confini e le distanze tra i due mondi, osservando la vita nella setta con un distacco che forse ci impedisce di comprenderne del tutto il fascino nella fragile psiche di Martha. Ma si tratta di un limite ben circoscritto all’interno di un’opera prima intensa e dolente, a tratti spietata e terrificante, con una bella fotografia inquietante e un cast perfetto.

E il merito maggiore del film è stato indubbiamente presentare al mondo la bellissima e sorprendente Elizabeth Olsen: sorella minore di due celebri gemelle della tv, illumina il film con un’interpretazione sofferta e davvero memorabile. Una delle più belle rivelazioni del cinema americano dello scorso anno.

Il film esce nelle sale italiane il 25 maggio 2012.

L’edizione in dvd americana (Regione 1) è uscita in questi giorni.