Svezia

Sound of Noise, Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson 2010

Sound of Noise
di Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson, 2010

Amadeus è nato in una famiglia di grandi musicisti, ma è completamente privo d’orecchio e così è stato costretto a diventare un poliziotto. La sua carriera e il suo fastidio nei confronti della musica vengono messi alla prova da una banda di batteristi anarchici la cui missione criminale è trasformare la città (i suoi oggetti e i suoi luoghi, ma non solo) in una performance senza precedenti, allo scopo di liberarla dalla sua bruttura musicale.

Pur essendo tratto da un cortometraggio del 2001, diretto dagli stessi autori, in cui i batteristi “suonavano” le diverse stanze di un appartamento, non si tratta di un  pretestuoso allungamento. Al contrario, con uno stile assolutamente esaltante, un’ironia formidabile e (va da sé) uno spaventoso senso del ritmo, Simonsson e Nilsson sono riusciti a trasformare la brillante ma ovviamente limitata trovata originaria in un vero film, con una vera storia, personaggi autentici e un’idea di cinema tanto precisa quanto allegramente delirante. Il risultato è uno dei film più bizzarri, elettrizzanti e divertenti del cinema europeo recente, un’irresistibile operetta anti-musicale che funzionerebbe anche soltanto come spassosa e irriverente parodia o rilettura del film di rapina se non fosse un vibrante e allucinato manifesto di ribellione surrealista.

Un film talmente anomalo (e talmente figo) che non sono nemmeno sicuro di averlo visto sul serio. L’unica soluzione: vederlo un’altra volta.

Il corto originario di Simonsson e Nilsson si intitola “Music for One Apartment and Six Drummers” e potete vederlo interamente qui su Vimeo.

Presentato alla Semaine di Cannes nel 201o e in Svezia nel Natale dello stesso anno, “Sound Of Noise” è uscito un po’ ovunque. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

L’edizione dvd svedese ha i sottotitoli inglesi.

 

Let the right one in, Tomas Alfredson 2008

Let the right one in (Låt den rätte komma in)
di Tomas Alfredson, 2008

Non è un segreto: molte delle cose scritte da queste parti, che vi piacciano o meno, non sono frutto di particolari ragionamenti o riflessioni. Le ragioni sono molteplici, ma la principale è la più ovvia: ho sempre pochissimo tempo, e spesso e volentieri la voglia è altrettanta. Poi, una tantum, appare un film per il quale vorrei tirare fuori un cartello come Wile Coyote, o luminose insegne provvisorie al neon che urlino va bene però adesso fermatevi e leggete questo. Per una volta, mi sono interrogato persino su quale fosse il momento ideale per scrivere affiché il post su Let the right one in non passasse del tutto inosservato (forse il martedì mattina?) ma poi, come si può evincere da questo primo fallimentare paragrafo, mi sono reso conto che non avevo proprio idea di cosa diavolo dire.

No, davvero. Ricominciamo.

Se la vitalità del cinema nordico non è certo una sorpresa per chi sa guardarsi un po’ in giro, l’apparizione di un film romantico sui vampiri di nazionalità svedese potrebbe esserlo. In realtà, chiunque segua i più letti siti e blog di cinema in lingua inglese – alcuni dei quali hanno fatto della promozione del film una sorta di deliberata e doverosa crociata – ha sentito parlare di Let the right one in ormai fino allo sfinimento. Infatti, fin dalla sua premiere al festival internazionale di Göteborg da dove si è portato a casa miglior film e miglior fotografia, il film di Tomas Alfredson non ha mai smesso di vincere premi principali un po’ ovunque: Tribeca, Neuchâtel, Edimburgo, Woodstock, il Fantasia di Montreal, il Fantastic Fest di Austin, persino il coreano PiFan. Qual è la ragione di questo successo? Semplice: Let the right one in è un film meraviglioso.

E ci ho messo due paragrafi a dirlo. Sarà una cosa lunga. Dunque.

Per raccontare il film di Alfredson userò le parole che sto usando per invogliare tutte le persone che conosco a recuperarlo, a vederlo, oppure anche semplicemente ad aspettarlo: "è una storia d’amore tra due dodicenni: Oskar è tormentato dai suoi compagni bulli, Eli è un vampiro". Raccontato così, però, il film rischia di essere confuso con una cosa alla Angela Sommer-Bodenburg o, peggio ancora, alla Stephenie Meyer – disguido aggravato dall’avvento di Twilight in sala. Ma in realtà, Let the right one in è quanto di più lontano dal cinema per ragazzi nonostante i protagonisti siano preadolescenti, e non fa per nulla leva sull’appeal un po’ modaiolo che il cinema dei vampiri ha recuperato negli ultimi tempi – e di cui la buona serie True Blood è un’esempio calzante.

E oltre a essere un’esperienza visiva assolutamente entusiasmante e ipnotica, tutta giocata – da manuale – sul contrasto tra il bianco delle distese di neve e ghiaccio della periferia di Stoccolma e il colore acceso del sangue, e su un ritmo pacatissimo e quieto fino all’inquietudine spezzato alcune pennellate di violenza che sconvolgono proprio per il loro rifuggire del tutto l’affiliazione a un canone o a uno stile predefinito (almeno, nel campo del cinema horror), Let the right one in è davvero un viaggio affascinante, profondamente morale e a tratti decisamente disturbante, all’interno delle radici stesse della fascinazione del Male. Un film in cui i confini morali che caratterizzano il romanzo di formazione svaniscono spazzati via da una storia d’amore che mescola e intreccia scoperte come la passione, l’autodifesa, la morte.

Ma non dimentichiamo che il film, nonostante sia caratterizzato da una compattezza rara, supportata alla perfezione dalla compassatezza della messa in scena, possiede alcuni pezzi di bravura – già chiacchieratissimi – che lasciano senza parole, quando non senza fiato. Come il primo incontro tra Oskar e Eli, nel giardino di casa. Oppure come i due finali: il primo, che riesce a rileggere – non senza una buona dose di furbizia – l’utilizzo del fuoricampo e del non-mostrato nel cinema del terrore (e terrorizzando come non mai) e il secondo, l’inquadratura finale, stupenda e dolcissima, di grande intelligenza narrativa e disperatamente romantica.

In definitiva, uno dei film più belli e sconvolgenti dell’anno. Ecco tutto.

Il film è uscito in patria alla fine di Ottobre, parteciperà Fuori Concorso al Festival di Torino alla fine del mese di Novembre, e se tutto va bene dovrebbe uscire in Italia all’inizio del prossimo anno. Siete avvertiti fin d’ora.

You, the living (Du levande)
di Roy Andersson, 2007

Sette anni dopo Songs from the second floor, il regista svedese ritorna al suo cinema fatto di pochi e interminabili quadri a camera fissa, e di personaggi fantasma che girovagano tra le ultime vestigia della nostra civiltà.

Questa volta la scelta di Andersson è di rendere il suo discorso più implicito e allo stesso tempo empirico, riaccollandosi sulle spalle il pesante fardello del presente, e facendo fuoriuscire i personaggi da una realtà (altrettanto grigia e funerea) soltanto nella forma del sogno: così, gli unici sfoghi surrealisti sono quelli propriamente onirici. E meravigliosi: uno, il transfert di un senso di colpa sociale (legato forse addirittura ad una visione disincantata della lotta di classe); l’altro, la sublimazione di una delusione amorosa.

Se molta della forza sovversiva del film precedente si acquieta (mancano sequenze che abbiano metà della forza di quella del sacrificio umano in Songs), donando ahinoi al film quell’effetto soporifero da cui il film del 2000 era riuscito del tutto (e miracolosamente) a sfuggire, la scelta di cedere più spesso alla mobilità (che non è affatto horror vacui: anche qui i movimenti della macchina da presa contano sulle dita di una mano) dimostra la capacità di Andersson di penetrare (letteralmente) le sue visioni, mostrando peraltro – e quasi nessuno lo fa più – la portata, non solo teorica ma anche emozionale, di un carrello.

Il cinema di Andersson rimane comunque qualcosa di estremamente prezioso, non solo perché ancora bellissimo a vedersi, anzi ancora impressionante sotto il profilo visivo, ma anche perché è un oggetto assolutamente alieno rispetto al cinema europeo, che nelle sue forme "autoriali" ha solo da imparare dalla strenua coerenza (anti-commerciale di principio: bisogna accettarlo) di Roy Andersson.

Un plauso a Ladyfilm per aver avuto, a modo loro, il coraggio di distribuirne qualche copia nelle nostre sale.

Songs from the second floor (Sånger från andra våningen)
di Roy Andersson, 2000

In una plumbea città in cui un inspiegabile traffico e un interminabile corteo di flagellanti sembra aver bloccato ogni via di fuga, alcuni personaggi, con il passo e il colorito dei cadaveri, si aggirano vittime della catastrofe che essi stessi hanno causato, mentre il mondo affoga nella follia e affida le sue ultime speranze alla pura irrazionalità, e mentre il poeta, che con le parole di César Vallejo è "colui che sta seduto" (come la macchina da presa di Andersson), l’unico ad avere il filtro con cui osservare impassibile questo disperato e grigio armageddon, soffoca la sua impotenza silenziosa nel letto di un ospedale psichiatrico, e guarda l’apocalisse tra le lacrime.

Tra citazioni inaspettate (quella esplicita del pythoniano Senso della vita) e suggestioni simboliste che si rifanno alla satira surrealista di Luis Bunuel, con la sua terrificante coerenza stilistica (il film è un alternarsi di "quadri", a camera fissa – con l’eccezione di un carrello all’indietro sulla banchina di una stazione – e con una profondità di campo prospettico portata spesso al parossismo) e la resa scenografica e fotografica che lascia senza parole, il film dello svedese Andersson è sì un oggetto "strano e curioso": ma non si ferma affatto a compiacersi della propria bizzarria, anzi riesce a trasformare la sua complessa visionarietà in un acceso pamphlet sulla contemporaneità di fronte a cui è difficile rimanere indifferenti.

Comunque la si veda, che si apprezzi o meno il suo spirito caustico, saggiamente sornione nonostante tutto, a suo modo poetico, divertito ma profondamente crudele nei confronti di un’umanità (nordeuropea, ma non specificamente) condannata all’apocalisse dalla loro stessa disumanizzata società capitalistica, Songs from the second floor è un film che va assolutamente recuperato, non fosse altro che per la maestosità visiva, che è quasi ingrato riprodurre sugli schermi casalinghi. Ma c’è molto altro.

Ne parlò poco tempo fa il magnifico Contenebbia in questo post.