Venezia2008

Venezia 65: Dangkou (Plastic city), di Yu Lik-wai

Dangkou (Plastic city), di Yu Lik-wai
Venezia 65, Concorso

Essendo uscito dalla sala dopo 40 minuti, non voglio parlare del film ma della fenomenologia del fughino, argomento che meriterebbe più del brevissimo tempo che gli sto per dedicare. Una delle cose più tipiche alla Mostra del Cinema è infatti il momento in cui decidi che non te ne frega niente, ti alzi, esci dalla sala. Non tutti lo fanno, e la cosa suscita inoltre una serie infinita di sensi di colpa successivi – che spariscono nel tempo in cui trovi un’altra sala in cui entrare. A volte dipende dalla stanchezza, altre volte dipende da impegni alternativi – ma a volte, diciamolo, dipende dal maledetto film: ecco, io dopo 40 minuti di questo tentativo di affresco gangsteristico di cinesi a San Paolo in Brasile (tolti i titoli di testa fichissimi), ho deciso non solo che non ci stavo capendo nulla, ma soprattutto che non mi fregava niente di capirlo – e che quello che capivo non mi piaceva affatto. Fermo restando che il mio giudizio si ferma ai primi pallosissimi 40 minuti che mi hanno messo implacabilmente in fuga (e si sa che io ai cinesi perdono di tutto, soprattutto quando c’è Anthony Wong), alla fine della proiezione mi arriva un SMS di un’amica che lo definisce "la cosa più vicina alla merda che io abbia mai visto", augurando una morte dolorosa a tutte le persone coinvolte. Chapeau. Consolante pensare al numero impressionante di erezioni provocate dalla scena erotica iniziale – quella, ehm, delle uova.

Venezia 65: altre cose #1

Do visivel ao invisivel, Manoel De Oliveira, 7′

Heshang de aiqing (Cry me a river), di Jia Zhang Ke, 19′

Venezia 65: Lønsj, di Eva Sørhaug

Lønsj, di Eva Sørhaug
Venezia 65, Settimana della critica

Scritto da Per Schreiner (lo stesso del bellissimo Den brysomme mannen), il film segue le vicende – in qualche modo intrecciate – di tre personaggi (più una pletora di facce che girano loro attorno), attraverso capitoli che ne restituiscono una sorta di unità strutturale. Da queste parti si è sostenuto più volte, alcune con forza e altre con (auto)ironia, l’impatto e la potenzialità espressiva del cinema norvegese, con l’ormai desueto slogan "norvegia nuova corea". L’opera prima di Eva Sørhaug non fa che confermare questa impressione positiva: si tratta di un film medio e dalle conseguenti ambizioni, d’accordo – e si tratta di un film corale, categoria in cui sembra essere già stato detto tutto e il contrario di tutto. Eppure Lønsj, oltre a essere visivamente davvero stupefacente, e ad azzeccare la durata giusta (immagino che con tutti quei personaggi un film di due ore e un quarto fosse una tentazione suicida), possiede una piacevolezzae un’ironia diffusa che fanno immediatamente dimenticare qualche vezzo stilistico di troppo da parte della regista. Particolarmente intelligente (e divertente) il modo in cui sono costruiti i capitoli – i cui titoli prima seguono l’effettivo svolgimento delle trame, per poi diventarne una sagace negazione, con un cinismo e un pessimismo disilluso tipicamente nordico, che si accompagna perfettamente alla messa in scena: dettagliata, algida, glaciale. Bello e crudele.

Venezia 65: Zero bridge, di Tariq Tapa

Zero bridge, di Tariq Tapa
Venezia 65, Orizzonti

Il film di Tapa, newyorkese di origini kashmir, girato camera a spalla con una troupe composta anche di amici e parenti, racconta di un diciassettenne che ha rubato il passaporto sbagliato, e della ragazza a cui il passaporto appartiene. Il suo esordio, gradevolissimo, è una piccola vicenda ambientata tra le grigie strade del Kashmir occupato, una storia sull’impulso ala libertà individuale che contiene al suo interno sia un bell’approccio ai meccanismi narrativi dell’equivoco sia un impulso politico non indifferente, frustrato da uno status quo in cui i personaggi sembrano soffocare, annegare nelle nebbie e nello smog e nel fango – che però passa in secondo piano rispetto a una lieve e disperata storia d’amore impossibile tra i due protagonisti.

Venezia 65: The burning plain, di Guillermo Arriaga

The burning plain, di Guillermo Arriaga
Venezia 65, Concorso

Dopo il litigio con l’amico Alejandro González Iñárritu (colpevole ai suoi occhi di aver tratto l’orrido Babel da un suo script, o almeno questa è la versione dei fatti che mi piace immaginare), Arriaga non smentisce affatto il suo stile (e il suo grande talento di sceneggiatore: ve lo ricordate Le tre sepolture?) ed esordisce proprio con un film à la Arriaga: storie e personaggi all’apparenza scollegati che si svelano essere legati. Lo sceneggiatore utilizza ancora il procedimento per cui l’inghippo si spiega prima da sé e solo successivamente viene esplicitato dalla sceneggiatura (al 50° minuto). Ma più dei procedimenti strutturali, abbastanza risaputi e oliati, colpisce il film: Arriaga ha estirpato dal cinema del suo ex sodale tutto ciò che di quest’ultimo molti (tra cui il sottoscritto) trovavano stucchevole e irritante, gli eccessi di pathos e, quoto di seconda mano, "gli intellettualismi del cazzo" – e ne è rimasto un film moderatissimo, corretto, appassionante e a tratti commovente, ne è rimasto insomma un film di Guillermo Arriaga. Senza strapparsi i capelli: ma si era entrati in sala senza alcuna aspettativa, e se n’è usciti più che soddisfatti. Quindi, davvero una bella sorpresa. Ottimo il cast: la Theron è misurata e intensa, ma la ex modella Jennifer Lawrence, diciottenne da una manciata di giorni, è di una bellezza e soprattutto di una fotogenia frastornanti – ed è pure brava.

Venezia 65: Encarnação do Demônio, di José Mojica Marins

Encarnação do Demônio, di José Mojica Marins
Venezia 65, Fuori concorso

Il ritorno del regista exploitation brasiliano dopo 20 anni di inattività registica conclude una trilogia iniziata nel 1964 con At Midnight I’ll Take Your Soul, leggendario film in bianco e nero considerato il primo horror brasiliano. Ritroviamo il suo demoniaco Zé do Caixão a 72 anni, ma la voglia di avere una discendenza non è certo scemata. I poliziotti locali e un prete masochista e vendicativo si mettono in mezzo tra lui e il suo piano diabolico, ma non nel modo più brillante. Difficile capire il film senza conoscerne i precedenti (ed è il mio caso, se non per fama), ma José Mojica Marins ci aiuta facendo interagire come flashback alcuni spezzoni dei suoi film degli anni ’60. La cosa più interessante è di sicuro questo rapporto malinconico con quel cinema furioso che ha come cugine le prime opere di Romero e Argento e che ora deve vedersela con i tempi che sono cambiati: eccezionali le visioni delle vittime che si materializzano in sogno al protagonista, e sono ancora in bianco e nero e reclamano la loro vendetta. Per il resto, posto lo stretto rapporto con un senso del ridicolo che Marins affronta senza alcuna vergogna (con una performace attoriale teatrale e sopra le righe, quasi forzatamente dilettantesca), un horror truculento e visionario d’altri tempi: scalpi strappati, natiche affettate, peni strappati a morsi, teste dentro bidoni pieni d’insetti, visioni infernali, topi nelle vagine, robetta così. Alle nove di mattina è una pacchia.

Venezia 65: Inju, la bête dans l’ombre, di Barbet Schroeder

Inju, la bête dans l’ombre, di Barbet Schroeder
Venezia 65, Concorso

Non si può negare che il progetto sia esaltante: un regista francese che reintepreta l’immaginario del romanziere giallo Edogawa Rampo filtrandolo attraverso le suggestioni del noir. Purtroppo il film non si può dire altrettanto esaltante: perché il risultato è di una piattezza sconfortante, estremamente freddo, assolutamente privo di senso dell’umorismo (tanto che, quando ci prova, risulta quasi imbarazzante) e in definitiva tanto noioso quanto ambizioso – e capace di sprecare anche le composizioni più ricercate. Più interessante il film nel film che apre la storia, quasi un cortometraggio, estremamente stilizzato, che omaggia il cinema hard boiled giapponese che fu con una classe e una sottile ironia che poi si perdono completamente dietro a una trama prevedibile e alle faccette da schiaffi di Benoît Magimel.

Venezia 65: Muukalainen, di Jukka-Pekka Valkepää

Muukalainen (The visitor), di Jukka-Pekka Valkepää
Venezia 65, Giornate degli Autori

Come si sa, guardo con un certo interesse al cinema dei paesi nordici, e quella finlandese è forse la cinematografia su cui in questo periodo sono puntate meno luci: in questo caso però si rimane del tutto insoddisfatti. Il film di Valkepää è, a scanso di equivoci dovuti a un panino al tonno troppo pesante e divorato in fretta – perché in sala non si può mangiare, anche se è pieno di francesi con le patatine – la solita fuffa festivaliera di cui sono ricolme, spesso e volentieri, le sezioni collaterali. Di fronte al totale disinteresse del film in sé e alla noia davvero mortale che lo contraddistingue (The Visitor è talmente silenzioso e riflessivo che Tsai Ming-Liang al confronto sembra Bad Boys 2) persino la splendida fotografia – settore in cui lassù hanno sempre parecchie frecce da lanciare – risulta un mero calligrafismo. E ci vuole ben altro che il calligrafismo a tenermi sveglio dopo un panino così.

Venezia 65: Akires to kame, di Takeshi Kitano

Akires to kame (Achilles and the tortoise), di Takeshi Kitano
Venezia 65, Concorso

C’era chi, dopo il magistrale ma complesso e discutibile Takeshis’ e dopo il bruttino Glory to the Filmaker, aveva già dato per spacciato uno dei più grandi registi mondiali degli ultimi decenni. Molti di essi si ricrederanno con Akires, un film semplice e stupefacente che è insieme di una coerenza spaventosa (perché spinge sugli stessi pedali, sulla crisi dell’artista, sul consumo e la produzione dell’arte) ma che ha il coraggio di fare marcia indietro e recuperare una linearità che sembrava non interessare più il regista giapponese. Ma solo in apparenza: perché seguendo il percorso del suo protagonista, anche il film percorre strade diverse – quella di un dramma, di una commedia malinconica, di un comico buffo (ma non ridicolo) – con un eclettismo che fa impallidire i più audaci sperimentalisti e insieme un grande gusto del racconto, e una confezione eccellente in cui si inscrivono momenti di bellezza folgorante (tutti i tentativi di "fare arte" degli amici del protagonista) che ricordano per intensità la fiammeggiante filmografia kitaniana degli anni ’90. Bello, bellissimo.

Venezia 65: Jay, di Francis Xavier Pasion

Jay, di Francis Xavier Pasion
Venezia 65, Orizzonti

Una delle prime vere sorprese del festival arriva già al secondo giorno: è il film di un giovane e simpatico regista filippino che mette in scena un servizio televisivo di "real drama" (una cosa tipo La vita in diretta) su una madre che ha perso il proprio figlio in un misterioso omicidio, e successivamente ne svela la composizione da parte di un cinico presentatore televisivo. Il film è un’operetta estremamente intelligente e ben costruita, che trova in modo sorprendente il suo posto all’interno di un tema assai sfruttato – quello della manipolazione dei media, e della fascinazione del dolore – e lo fa con un tono che alterna la serietà, momenti grotteschi e persino farseschi, e un’indole di generale sbigottimento nei confronti del mondo e della vanità dell’animo umano. Ci sta pure un meta-finale, ma con garbo. Bravo bravo.

Venezia 65: Girara no gyakushu, di Minoru Kawasaki

Girara no gyakushu / Toyako samitto kiki ippatsu! (Monster X strkes back: attack of the G8 summit!), di Minoru Kawasaki
Venezia 65, Fuori concorso

Il primo dei due film presentati a Venezia dai ragazzi del Far East Film è insieme un recupero della tradizione dei film giapponesi con i mostri, e una specie di satira degli equilibri mondiali. Quest’ultima cosa purtroppo funziona poco, anche perché il film dopo un po’ diventa una serie interminabile di sequenze in cui delle versioni assai romanzate (uno spasso il presidente italiano) degli otto leader mondiali cercano, uno alla volta, di distruggere il mostro in questione – rivelando debolezze dei singoli paesi che si rifanno a cliché vecchi e noiosetti. La parte più propriamente sci-fi invece è piuttosto divertente, così come il duellone finale. Comunque, il tipo di film per cui bisogna trovarsi in sintonia con un certo tipo di umorismo nipponico: senza quest’armonia, possiamo dire senza troppi giri di parole che è una cazzatona?

Venezia 65: Burn After Reading, di Joel & Ethan Coen

Burn after reading, di Joel & Ethan Coen
Venezia 65, Fuori Concorso

Presentata approssimativamente come una commedia di transizione tra opere più serie, come poteva essere Intolerable cruelty, il nuovo film dei fratelli Coen è invece una magistrale black comedy che seppure all’interno dei binari già tracciati del genere, e anche già dai registi stessi (con una soggetto che sembra scritto con un manuale di coenismo, ma senza mai nemmeno sfiorare la maniera) ne rappresenta l’eccellenza – mostrando ancora una volta il distacco tra i Coen e chi cerca di imitarli da sempre. Qualunque cosa in più rischierebbe di rovinare le sorprese che la trama riserva: abbiate pazienza, che ripaga. Colonna sonora percussiva e frastornante, un Brad Pitt perfetto, un crescendo implacabile. E un finale da applausi. Ma davvero.

Venezia 65: PA-RA-DA, Marco Pontecorvo

PA-RA-DA di Marco Pontecorvo
Venezia 65, Orizzonti

L’apertura della promettente sezione Orizzonti di quest’anno è anche l’esordio di Marco Pontecorvo, figlio d’arte che dimostra con la sua opera prima uno spiccato talento nell’applicare a modo suo le regole del cosiddetto realismo sociale. E una freschezza inaspettata, se si considera che si parla (storia vera) di ragazzini rumeni dodicenni che passano le loro giornate a sniffare colla a bordo treno, e che vivono sottoterra sopraffatti dall’odore della propria urina. Un clown franco-algerino si dannerà l’anima per salvarli, per riportarli in superficie: è Jalil Lespert, fichissimo e bravo come pochi. Bella rivelazione anche la controparte femminile Evita Ciri. Un film che picchia duro ma che, fatti i patti con qualche ridondanza patetica qui e là (ma poca roba: è perlopiù corretto) colpisce nel segno.