Vi racconto una storia, ma forse ve la racconto un’altra volta

bad guy

Mi sono dato tre mesi. E adesso sono passati tre mesi. Non ci si scappa.

(Quello che segue serve più a me che a voi. Lo so. Abbiate pazienza.)

Non è mica un piano. Non ci stavo pensando da tempo. Non ero stanco, non ero stufo. Non era previsto, insomma, ma è successo. È cominciata proprio all’inizio dell’anno, quando ho pubblicato il post che mi sono inventato per festeggiare i primi dieci anni di questo blog. L’ho guardato e mi sono detto: non sarebbe, questo, un modo fantastico per chiudere tutto? Not with a whimper but a bang?

A quel punto mi sono dato tre mesi. Avevo cose da fare. Ora ho fatto le cose.

Non ci si scappa.

(A questo punto ci dovrebbe essere un flashback, no? Io, nella mia stanza da letto a Brescia, con mia madre nella stanza accanto, che apro un blog su Splinder promettendo di scrivere qualcosa, pure tre righe, su tutti i film. Perché sì, perché non mi ricordavo niente, perché mi avevano detto “fallo”, perchè mi piaceva scrivere, perché avevo bisogno di mettere nero su bianco, perché era gratis, perché era bellissimo. Ha funzionato? Ha funzionato. Non era mica una promessa fatta a qualcuno, non lo è mai stata, se non a me stesso. Voglio dire, quella promessa l’ho mantenuta per 10 anni. Sono un botto di anni. E poi?)

In questi tre mesi, appunto, ho visto cinquanta film. Secchi.

(Me lo dice un affare che mi sono aperto, sennò non mi ricordo niente, come prima.)

Sono cinquanta film che forse avrebbero meritato un post, ma di cui forse non scriverò mai. Mi correggo: non ne scriverò mai in questo modo, come ho fatto in questi dieci anni. Meglio, dài: non ne scriverò in questo posto, e non scriverò più di tutti i film che vedo. Perché? Se volete ne parliamo davanti a una birra. Offro io.

(Qui ci dovrebbe essere un montaggio veloce in cui io cresco, studio, litigo, mi laureo, cambio casa, vado a un funerale, piango, cambio casa, rido, mi sposo, cambio lavoro, faccio un sacco di roba, e intanto scrivo duemilacinquecento post. Non sarebbe patetico?)

Ho sempre trovato piuttosto ridicoli quelli che chiudono un blog con un post in cui dicono che chiudono il blog. Forse però la mia era più rabbia, perché un blog non si dovrebbe mai chiudere, e tutti quelli che leggevo e che poi hanno chiuso in questi anni, tantissimi, sono colpevoli, mi hanno privato di cose bellissime che non leggerò mai.

Ma tant’è. Oggi Memorie di un giovane cinefilo chiude baracca e sì, mi sento piuttosto ridicolo pure io. Anche perché ero partito volendo scrivere soltanto tre parole, e le tre parole erano grazie a tutti. Ringraziarvi è una figata che non mi stanca mai.

Come dici? Grazie della domanda. No, non vado da nessuna parte. A dirla tutta non cambio nemmeno casa: diciamo che voglio dare una ripitturata. Voglio mettere tutti questi vincoli in lavatrice e ripartire con un bucato fresco e pulito. Non credo – anzi, sono sicuro di non poter smettere di essere un blogger. E infatti ho un piano B. Vedremo.

“Ci vediamo dall’altra parte.”

La grande coppa del decennale: tutti i vincitori

Eccoci qui: negli ultimi sette giorni avete votato e twittato in abbondanza i vostri registi preferiti dei primi dieci anni di questo blog. Francamente mi avete tolto proprio le parole per i prossimi dieci, quindi facciamo che andiamo subito al sodo.

tarantino

Miglior regista americano

Era la categoria con più nomi, ma la gara era poca: per quantità e qualità dei film del decennale, avrei scommesso sui primi tre (cioè quattro) nomi a occhi chiusi e avrei vinto. Ciò nonostante, Tarantino ha sbaragliato la concorrenza dei fratelli Coen e di Wes Anderson. Il quintetto qui sotto stava per diventare un sestetto: infatti Darren Aronofsky ha perso il suo posto tra i primi cinque per solo due preferenze in meno rispetto a Paul Thomas Anderson. Curiosità: il peggiore in gara è stato Sam Raimi, che non ha raggiunto nemmeno l’1%. Ed ecco la Top 5:

1. Quentin Tarantino – 16%
2. Wes Anderson – 9%
3. Joel & Ethan Coen – 8%
4. Clint Eastwood – 8%
5. Paul Thomas Anderson – 6%

nolan

Miglior regista europeo

La presenza di Christopher Nolan tra i registi europei vi ha gettati un po’ in confusione: come fai a non votare Christopher Nolan? Così, il regista si è preso addirittura un quarto delle preferenze, nonostante diverse sue opere siano, a tutti gli effetti, dei film americani. Pace: i registi con opere anglofone erano comunque avvantaggiati. La gara è stata abbastanza equilibrata, ma è chiaro che film come Drive ed Eternal Sunshine hanno fatto la differenza. E vi ringrazio personalmente per aver mandato Edgar Wright sul podio. Il peggiore in gara, invece, è stato Cristian Mungiu. Ecco i primi 5:

1. Christopher Nolan 25%
2. Nicolas Winding Refn 14%
3. Edgar Wright 13%
4. Michel Gondry 10%
5. Michael Haneke 7%

park

Miglior regista asiatico

Il primo posto più combattuto della coppa è stato quello tra il più popolare regista sudcoreano e il maestro assoluto dell’animazione giapponese, due giganti. Io stesso sarei stato in crisi, ma dai e dai avete deciso di premiare Park contro Miyazaki. Dietro di loro ci sono Kim Ki-duk e Ang Lee, mentre Ahsghar Farhadi fa il sorpassone a destra e infila a sorpresa l’Iran nella Top Five. E chi l’avrebbe detto, dieci anni fa? Il peggiore in gara è stato un altro coreano, Lee Chang-dong, il che mi spinge a invitarvi a recuperare presto i film di Lee Chang-dong. Ecco i primi 5:

1. Park Chan-wook 25%
2. Hayao Miyazaki 23%
3. Kim Ki-duk 16%
4. Ang Lee 11%
5. Ahsghar Farhadi 6%

sorrentino

Miglior regista italiano

Il miglior cinema italiano degli ultimi dieci anni viene spesso identificato con Sorrentino e Garrone, diventati quasi il giano bifronte dei film italiani che vorremmo vedere, di fronte a un panorama piuttosto sconsolante. E invece mi avete sorpreso, portando al secondo posto un altro dei registi beniamini di questo blog, ovvero Paolo Virzì, che batte di sostanza Garrone dopo aver gareggiato a poca distanza per i primi giorni. Nanni Moretti fuori dal podio per tre punti percentuali. Ecco il podio con le percentuali:

1. Paolo Sorrentino 42%
2. Paolo Virzì 19%
3. Matteo Garrone 16%

lars

Miglior regista tralasciato

Qui vi siete veramente sbizzarriti: nel form libero avete indicato un botto di registi. Alcuni erano già stati indicati nelle categorie precedenti, ma nella maggior parte dei casi avete segnalato nomi meritori o interessanti, che fossero eleggibili o meno. Anche qui, nessuna gara: Lars Von Trier, con cui io personalmente non ho un buon rapporto, è stato segnalato circa dal 10% di chi ha deciso di compilare il form, a sua volta circa il 15% dei votanti totali. Ok adesso la smetto di dare i numeri: i nomi finiti sul podio li vedete qui sotto.

1. Lars von Trier
2. Aleksander Sokurov
3. Joe Wright / Sofia Coppola

Tra i tanti registi da voi citati vale la pena nominare Rian Johnson, Wong Kar-wai, Jim Jarmusch, James Cameron, Harmony Korine, Steve McQueen, Guy Ritchie, Fatih Akin, David Lynch, Robert Rodriguez, Gareth Evans, Pietro Marcello, Shinya Tsukamoto, Noah Baumbach, John Lasseter, Derek Cianfrance, Martin McDonaugh, Leos Carax, Danny Boyle, Philip Gröning, Daniele Ciprì, Fernando Meirelles, Andrew Stanton, Stephen Frears, François Ozon, Béla Tarr, Giorgos Lanthimos, Shane Carruth, Emanuele Crialese.

Ne approfitto per scusarmi per le dimenticanze: Stephen Chow, Tetsuya Nakashima, Álex de la Iglesia, e chissà quanti altri.

up

Miglior film d’animazione

Qui la parola d’ordine è stata Pixar. È piuttosto evidente la vostra preferenza: quattro dei primi cinque film sono infatti produzioni Pixar, e non saprei nemmeno come o perché darvi torto. Sorprendente invece la vostra preferenza sulla filmografia di Miyazaki: Howl è terzo, mentre Ponyo è finito ampiamente fuori dai primi cinque. Dai ragazzi, su. Anche qui, mi sono dimenticato due titoli fondamentali, Frozen e Paranorman, ma non credo che avrebbero potuto fare granché contro lo strapotere di due capolavori come Up e WALL-E. Ecco i primi cinque:

1. Up – 20%
2. WALL-E – 18%
3. Il castello errante di Howl – 12%
4. Ratatouille – 10%
5. Toy Story 3 – 8%

Bene, io qui ho finito.

È stato bellissimo. Vi ringrazio uno per uno. Vi mando un cestino di natale immaginario pieno di cuori.

Ciao raga.

(Si allontana in lacrime)

Buffy: The Vampire Slayer, Joss Whedon 1997-2003

Come hai passato lo scorso autunno? Ho guardato Buffy. E basta, più o meno.

Non c’è una vera motivazione, ma non avevo mai visto Buffy. E non ne avevo visto nemmeno un episodio, pur essendo circondato da tanti anni (offline, ma soprattutto online) da persone appassionate o addirittura ossessionate dalla serie creata da Joss Whedon, andata in onda per sette stagioni tra il 1997 e il 2003. In verità, era un’intenzione che coltivavo da anni, ma trovalo tu il tempo di guardare 144 episodi di una serie iniziata sedici e terminata più di dieci anni fa. All’inizio di ottobre ho deciso che sì, forse un po’ di tempo ce l’avevo, ho fatto partire il pilot e niente, non ho più smesso per due mesi e mezzo.

Scrivere un post su Buffy, che a tutti gli effetti è la serie tv sulla quale sono state sono spese più battute nella storia di Internet, sembra una sciocchezza inutile e fuori tempo massimo. Ma come ogni prodotto culturale, Buffy può essere visto da prospettive diverse: se alcune forse tendono a prenderlo un po’ troppo sul serio, altre rischiano di sminuirne la spaventosa influenza sulla televisione futura, l’incredibile impatto emotivo, ma prima di tutto la qualità e il livello di sperimentazione dei suoi episodi e (in alcuni casi) di suoi interi archi narrativi. In Italia, fuori dai contesti più sgamati, Buffy è ancora vista (o ricordata, per meglio dire) come una serie un po’ “cheap” su una ragazzina che va a caccia di demoni e si innamora di un vampiro.

Quindi ho pensato, massì, scriviamo quattro righe su Buffy, che male fa. In fondo, non ho fatto altro per tutto l’autunno. Prendetela come una specie di guida alla consultazione: gli spoiler sono minimi, diciamo nei limiti del ragionevole. Chissà, magari riesco a convincervi.

“You were destined to die! It was written!” “What can I say? I flunked the written.”

Una delle prime cose che ho notato, guardando la prima stagione di Buffy, è quanto non sapessi assolutamente nulla di Buffy. Sulla trama delle sette stagioni conoscevo soltanto qualche dettaglio, quelli filtrati attraverso la conoscenza condivisa – quasi tutti riguardanti il personaggio di Willow. Per il resto: tabula rasa. È sorprendente, considerata la notorietà della serie, quanto io sia stato pressoché impermeabile agli spoiler. Fortuna mia.

La prima stagione, ve lo diranno persino i più fervidi fan di Buffy, è piuttosto dimenticabile. Più precisamente, contiene quasi tutti gli episodi più brutti della serie, quelli che le stagioni successive si sono divertite a citare in continuazione (in particolare “Teacher’s pet”, dove una professoressa è una gigantesca mantide religiosa). Ma c’è un aspetto che la rende fondamentale, lo leggerete un po’ dappertutto: la stagione è utile per inquadrare con precisione quello che Buffy non sarà, ma che avrebbe potuto essere. In ogni caso dura poco, visto che Buffy partì come midseason replacement dal destino incerto: dodici episodi e passa la paura. Non si tratta di tempo buttato: è quanto basta per fare conoscenza con Buffy, Willow, Xander, Cordelia, Giles e ovviamente con Angel, fino a un season finale che, con tutte le sue ingenuità, è già un bell’antipasto di quello che ci aspetta.

“From now on, we’re gonna have a little less ritual, and a little more fun around here.”

La seconda stagione di Buffy inizia con un episodio intitolato “When she was bad”, in cui la nostra eroina mostra nel giro di 40 minuti il peggio del suo carattere, per poi ravverdersi. È un segnale dei tempi a venire: non si può più dare per scontato nulla della natura dei personaggi, anche perché la serie ribalterà puntualmente le aspettative in modo sempre più radicale. Ma il momento più significativo della prima parte della stagione è soprattutto “School hard”, dove debuttano i personaggi di Spike e Drusilla. L’episodio, più dark, violento e disturbante della media (grazie alla magnetica presenza di James Marsters e Juliet Landau), non c’entra nulla con quanto abbiamo visto finora e segna un primo, fondamentale momento di svolta per la serie. Che, a dirla tutta, rimane per parecchie settimane sospesa in un limbo, quasi indecisa su quale delle due direzioni prendere, se quella di episodi più sciocchi come “Reptile Boy” oppure del bellissimo “What’s My Line?”, dove scopriamo per la prima volta che anche i buoni possono tirare tranquillamente le cuoia. A ripensarci, è un momento eccitante, in cui Buffy sembra percorsa da una vibrazione che riguarda il suo futuro artistico.

Per nostra fortuna, Buffy prende proprio la direzione giusta. L’episodio in cui le regole del gioco cambiano per sempre è in realtà un vero e proprio two-parter, composto da “Surprise” e soprattutto “Innocence”, uno dei momenti più centrali e importanti della serie, sia per lo sviluppo narrativo del rapporto tra Buffy e Angel (che rischiava di ficcarsi in un vicolo cieco, e invece deflagra all’improvviso) sia per l’evoluzione del personaggio di Buffy – mettendo in chiaro, da un giorno all’altro, che la serie muterà seguendo di pari passo la crescita della sua eroina. E che l’innocenza, appunto. ce la siamo lasciata alle spalle in una notte di pioggia. Da questo momento in avanti, la stagione e l’intera serie cambiano totalmente rotta: il punto più alto è certamente “Passion”, un episodio tragico e inaspettato dove Whedon mette in scena per la prima volta, con spietata precisione, la sua risaputa crudeltà. E se la seconda stagione viene spesso tralasciata, perché effettivamente ancora un po’ immatura, il suo season finale, che è un altro doppio episodio (“Becoming”, diretto da Whedon come quasi tutti gli episodi migliori) è semplicemente fantastico, e le sue ripercussioni segneranno Buffy e compagnia per molto tempo.

“I think I’ve finally figured it out. What my problem is. It’s Buffy Summers.”

Quando ho finito di vedere Buffy, mi sono subito chiesto quale fosse la stagione migliore. La più bella? Probabilmente la quinta. La mia preferita, quella che riguarderei cento volte? Certamente la terza. Perché è quella in cui Whedon e i suoi autori cominciano veramente a divertirsi. Ripercorrere anche soltanto i titoli di questa stagione è elettrizzante. Al terzo episodio, intitolato “Faith, Hope & Trick”, facciamo conoscenza con un nuovo personaggio irresistibile, che cambia con la sua presenza l’intera stagione, e non solo. Poi, che so, c’è “Homecoming”, quello dello “Slayerfest”. E poi c’è “Band Candy”, in cui tutti gli adulti di Sunnydale (inclusi Giles e la mamma di Buffy) si comportano come ragazzini sotto l’effetto di una magia. E poi c’è “Lovers Walk”, in cui Spike torna e si rivela come un assassino inguaribilmente romantico. E siamo a un terzo della stagione: il meglio deve ancora venire.

Il meglio, appunto, è un episodio che non può mancare in ogni Top 10, ma facciamo pure Top 5: “The Wish”, in cui un incantesimo mostra a Cordelia come sarebbe il mondo se Buffy non fosse mai arrivata a Sunnydale, è un episodio enorme che trasforma le premesse da film di Frank Capra in un’entusiasmante distopia horror. Pur essendo uno standalone (e quindi anche uno dei più gustosi da riguardare al di fuori del flusso narrativo) è anche un episodio-cardine in cui Whedon mette bene in chiaro il ruolo della protagonista nell’universo narrativo ed è quello in cui la serie mostra per la prima volta, o meglio per la prima volta con i motori al massimo, una totale consapevolezza di sé. E poi conosciamo Anya, e non è mica una cosa da poco.

L’aspetto autoriflessivo è al centro di moltissimi episodi della stagione, come il fenomenale “The Zeppo”, che regala a Xander il ruolo di protagonista mentre sullo sfondo si svolge una specie di parodia di episodio di Buffy. Oppure “Doppelgangland”, autentico sequel di “The Wish”, dove Whedon, a posteriori, mostra di avere le idee piuttosto chiare sul futuro della sua serie e dei persoanggi, in particolare Willow. Ma anche “Earshot”, in cui Buffy legge suo malgrado nei pensieri dei suoi concittadini: la terza stagione è tutta così, sceglie di guardare dentro se stessa, con una coscienza e un’intelligenza (e un senso dell’umorismo) che, ai tempi, si trovava in pochissimi prodotti televisivi. La stagione, però, è anche quella del “big bad” di turno: la sua storia si chiude con un season finale divertente, anche se più scontato degli altri, ma questo lungo addio ai corridoi della Sunnydale High è davvero esplosivo.

“Veruca was right about something. The wolf is inside me all the time.”

Proprio come Buffy fa fatica a integrarsi al college dopo la fine delle superiori, questa nuova annata delle sue avventure non è propriamente la più soddisfacente. I problemi della quarta stagione hanno a che fare con la costruzione di un nuovo contesto, dovuto anche all’abbandono di Cordelia e di Angel, diventati protagonisti di uno spinoff, con cui Buffy si incrocerà a più riprese. Se il ruolo della prima viene ricoperto sempre di più da Anya, che si conferma uno dei personaggi più azzeccati della serie, Angel resta per molto tempo il convitato di pietra di Buffy. E la questione amorosa diventa ancora una volta un grosso ostacolo per la sua crescita. Prima con il caso di Parker, il ragazzetti dagli occhi blu che seduce e scarica la Nostra, poi con l’arrivo di Riley, un personaggio che avrà anche i suoi bei momenti ma di cui, presto o tardi, vorremo liberarci, e in fretta.

È facile pensare alla quarta stagione di Buffy come “quella con la Initiative” (un’idea che porta un nuovo tipo di spettacolarità nella serie, forse troppo ambiziosa per i mezzi anche se indubbiamente originale: è comunque il terreno su cui Whedon e un futuro sceneggiatore di Buffy, Drew Goddard, molti anni dopo hanno costruito The Cabin in the Woods), ma a me piace ricordarla soprattutto come la stagione in cui Willow prende confidenza con la propria identità. La signorina Summers resta comunque il personaggio principale della serie e la chiave per comprenderne lo sviluppo, ma il cambio della guardia sentimentale che riguarda la signorina Rosenberg, anche grazie alla strepitosa Alyson Hannigan, è a tutti gli effetti ciò che rende memorabile questa stagione, in particolare nell’arco compreso tra due episodi struggenti, “Wild at heart” e “New moon rising”.

Anche in questa annata, però, non mancano episodi memorabili che continuano il percorso “meta” della precedente. In particolare il divertentissimo “Something blue”, che ancora grazie a un incantesimo trasforma per un episodio il rapporto tra Buffy e Spike, mettendo in scena, di fatto, uno dei più clamorosi casi di fanservice dell’intera serie, oppure “Superstar”. Quest’ultimo è un episodio apparentemente sciocco, ma ha due funzioni necessarie sul lungo periodo: reintrodurre il personaggio di Jonathan e soprattutto mostrare (in modo molto più concreto che in “The wish”) come l’intero universo di Buffy possa essere tranquillamente rimodellato – ed è una delle basi fondamentali della stagione successiva. Non è finita: qui troviamo anche il migliore tra gli episodi di Halloween di Buffy (intitolato “Fear itself”), il più divertente tra quelli dedicati a Giles (“A new man”, in cui il “watcher” si ritrova nel corpo di un demone), così come il peggiore episodio, forse, di tutte le stagioni (“”Where the Wild Things Are”). Ma prima di tutto, troviamo “Hush” e “Restless”.

“Hush” è uno dei due-tre episodi più famosi della serie, è il fiore all’occhiello della quarta stagione, e si merita tutta la sua fama. Ideato da Whedon, pare, come reazione piccata a quelli che sostenevano che la forza di Buffy fosse soltanto nella brillantezza dei dialoghi (e non dico altro), è inquietante, spaventoso e divertentissimo, un vero capolavoro dark con una messa in scena degna di un vero film e due “cattivi” indimenticabili – forse il più straordinario standalone della serie, nonostante Whedon ne approfitti, anche stavolta, per far progredire i rapporti tra i personaggi. “Restless”, invece, è un season finale atipico, totalmente onirico, bizzarro e pieno di presagi: inquadra la qualità più transitoria della stagione, altalenante ma in definitiva indispensabile.

“There’s just a body, and I don’t understand why she just can’t get back in it and not be dead anymore.”

Se la quinta stagione di Buffy è veramente la più bella, non è soltanto per “The Body”. È questa la stagione dove troviamo l’equilibrio perfetto (e insuperato) tra le dinamiche di genere e una maggiore maturità delle storie, quella in cui c’è il grande mistero di Dawn (una delle scelte più ardite di Whedon, uno che non si trattiene certo di fronte alle scelte ardite) e in cui c’è Glory, la nemica più bella e spietata di Buffy. È anche l’anno in cui si alza il tiro, dove troviamo Buffy alle prese con una forza incombente che, per una volta, potrebbe non essere in grado di sconfiggere. È la stagione dei grandi sacrifici e degli amori impossibili, quella di Buffybot e di “Fool for love”, dove scopriamo finalmente tutta la verità (o quasi) sulle origini di Spike.

Certo, “The Body” fa la differenza. È difficile spiegare di cosa si tratti senza rivelarne la natura: gli “spoiler alert” forse hanno una data di scadenza minore di 14 anni (andò in onda nel febbraio 2001), ma sarebbe un peccato dire di più, perché rischierei di smorzarne l’effetto emotivo. Mi sono chiesto più volte che razza di impatto possa aver avuto su chi, in quegli anni, seguiva la serie nel modo in cui è stata concepita, dopo aver raggiunto in quattro anni quel livello di confidenza con i personaggi. Quindi non dico altro. È soltanto una delle più incredibili, devastanti ore di tv a cui assisterete, in assoluto. Hai detto niente.

“Bunnies. Bunnies. It must be bunnies!”

Nelle prime cinque stagioni di Buffy, abbiamo potuto vedere più volte come i personaggio potessero avere diverse facce, come la loro simpatia o il loro eroismo potessero trasformarsi, all’occorrenza, in modo scherzoso o minaccioso, rivelando i lati più oscuri delle loro personalità. La sesta stagione di Buffy è quella in cui tutti (tranne Tara, se vogliamo dirla tutta) danno il peggio di sé, persino un personaggio “candido” come Xander. Tanto che l’intero corso non ha nemmeno bisogno di un canonico “cattivo”, sostituito in apparenza da tre nerd (che abbiamo già conosciuto in precedenza) che non sembrano avere granché di pericoloso. La crudeltà di Whedon, ovviamente, ci fa mordere la lingua per averlo soltanto pensato.

La cupezza dell’intera stagione è introdotta fin dai primi episodi, ed è la diretta conseguenza del bellissimo season finale della precedente (“The Gift”: sarebbe un peccato non citarlo, almeno una volta) e delle scelte fatte in seguito dagli amici di Buffy. La sesta è indubbiamente la stagione più adulta di Buffy, la più funebre e forse anche la più faticosa: le sue qualità sono forse meno immediate che in stagioni come la terza o la quinta, ma ha una capacità maggiore di costruirsi e crescere in funzione del finale: dall’inaspettata e tragica chiusa di “Entropy” in poi, tutti gli spunti sollevati nei 18 episodi precedenti esplodono, portando a un quartetto entusiasmante e terribile – forse il migliore, di certo il più emozionante season finale dell’intera serie.

Eccezione meritevole è il geniale “Once more with feeling”, indubbiamente l’episodio più famoso di Buffy, tanto che forse non ha bisogno di presentazioni nemmeno per chi non ha mai visto un minuto della serie: è quello in cui i personaggi cantano come in un musical, per effetto di un incantesimo. Imitatissimo ma impareggiabile, costruito su un pugno di canzoni favolose (scritte dallo stesso Whedon, che teneva così tanto a questo episodio da “cedere” il ruolo di showrunner per scriverlo e che si sfogherà ancora con il sublime Dr. Horrible) è ancora una volta un episodio tutt’altro che “isolato” rispetto alla trama orizzontale. Ed è l’esempio definitivo di quello che Buffy riusciva a essere se stuzzicato nei punti giusti: complesso, incantevole e perfetto.

“A little tale I like to call: Buffy, Slayer of the Vampyrs.”

Inutile girarci troppo intorno: la settima stagione di Buffy è estenuante. Gran parte degli sforzi sono votati a rimediare i danni fatti durante la stagione precedente (invano, visto che se ne fanno di nuovi), per il resto la staticità e l’accumulo di personaggi secondari (non tutti soddisfacenti), oltre all’intangibilità di un “cattivo” che non ha nemmeno un corpo suo, finisce per farla rivoltare su se stessa in una sorta di auto-omaggio – evidente fin dal primo episodio, in cui il “First” si incarna in tutti i “cattivi” delle stagioni precedenti. Buffy è sempre stata, lo si è detto, una serie estremamente consapevole, sia di se stessa che del suo rapporto con l’esterno: qui la differenza la fa la presenza di Andrew ma che ha proprio questa funzione: conscia (ma diciamo pure troppo conscia) di essere arrivata alle battute finali, Buffy ha scelto di invitare in casa Summers un vero fan della serie, per vedere l’effetto che fa. A tratti è ingombrante, è vero, ma ”Storyteller” è l’episodio più divertente della stagione.

Autoriflessione a parte (inclusa quella di un altro bellissimo episodio, “Conversations with Dead People”) per il resto la settima stagione cerca di conservare il più possibile un tono austero, plumbeo e minaccioso. Non c’è tantissimo tempo per scherzare, e l’assenza di ironia (forse anche per via della maggiore assenza di Whedon, che torna per dirigere il gran finale) non aiuta: ma a patto di sopportare gli interminabili monologhi della protagonista ai danni delle sue malcapitate ospiti (una caratteristica della stagione che, da un certo punto in poi, gli autori stessi cominciano a prendere in giro) quest’ultima grande sfida di Buffy nasconde anche alcuni tra i caratteri più maturi e adulti del suo personaggio. E ancora una volta, nulla è mai scontato.

C’è il tempo, ovviamente, per infilare qualche episodio degno di nota, come “Selfless” in cui finalmente anche Anya ottiene una “origin story” degna del suo personaggio, ma la stagione si gioca tutto con ultimi cinque episodi, da quando (in “Dirty girls”) appare il Caleb di Nathan Fillion fino alle ultime battute di un finale spettacolare: dopo aver arrancato e tossicchiato per una ventina di episodi, Buffy si chiude davvero in grande stile. In fondo, i difetti dell’ultima stagione hanno un lato positivo: forse si è chiusa davvero nel momento giusto? Forse aveva dato tutto quello che poteva dare?

Non lo sapremo mai.

“Yeah, Buffy? What are we gonna do now?”

Per me, una delle cose più divertenti di quest’esperienza è stato condividerne dei frammenti in rete, soprattutto su Twitter, raccogliendo di volta in volta gli stimoli di chi ci era passato prima di me, in un modo o nell’altro. Questo è solo la riga in cui vi ringrazio per avermi fatto compagnia.

E sì, prima o poi mi deciderò a iniziare Angel. Ma quella è tutta un’altra storia.

La grande coppa del decennale

Oggi questo blog compie DIECI ANNI.

In questi dieci anni sono cambiate un sacco di cose: per cominciare non siamo più su Splinder, io non ho più 22 anni ma 32 (ed è decaduto da un pezzo il mio diritto a definirmi “giovane cinefilo”), ma sotto a tutto quello che mi accadeva in questi dieci anni correva un blog che è andato avanti quasi di vita propria e che, a parte i cambi di layout, i traslochi, i litigi, è rimasto più o meno sempre uguale a se stesso. Ne ho anche un altro, ma è partito tutto da qui. Molti affrontano il rapporto con i propri blog con una sorta di cinico distacco, io invece so di poter dire che aprire questo blog è stata una delle decisioni più azzeccate che io abbia fatto, ha contribuito a modo suo a cambiarmi la vita, anche radicalmente, un pezzo per volta. Quindi voglio festeggiare, perché essere arrivato fin qui è una figata e basta. E voglio festeggiare con voi, perché c’eravate pure voi.

Quindi ho pensato a un sondaggino nostalgico per fare il punto di questi dieci anni di cinema e dei registi che hanno cambiato la nostra vita in questo periodo assurdamente lungo. Ovviamente è un gioco e va preso come tale, tanto più che la selezione è basata solo sui miei giudizi e sulle mie visioni e, per semplicità, sulle uscite nelle sale italiane. Se il vostro regista del cuore non è presente, in fondo è presente un piccolo form e potete metterci chi vi pare.

Tra parentesi è indicato un massimo di tre titoli per ogni regista: sono questi i film che lo rendono “eleggibile”. Importante: si possono votare più nomi per categoria, le quantità massime sono indicate sopra.

Adesso tocca a voi. UPDATE: LE VOTAZIONI SONO CHIUSE.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: per semplicità, la categoria non contiene solo gli statunitensi, ma l’intero continente americano.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: pur avendo una doppia cittadinanza e lavorando perlopiù in co-produzioni anglo-americane, Christopher Nolan è nato in Inghilterra dove ha studiato e cominciato la sua carriera, per questo motivo è inserito in questa categoria.

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Condizione: due film tra il 2004 e il 2013, di cui almeno uno uscito in sala in Italia.

Nota: Bong Joon-ho e Takeshi Kitano non sono inclusi perché, incredibile a dirsi, nessun loro film è stato distribuito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

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Condizione: almeno due film usciti in sala tra il 2004 e il 2013.

Menzione d’onore per il miglior regista neozelandese:
Peter Jackson (King Kong, Il signore degli anelli: Il ritorno del re)

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Qui puoi scriverci il nome che vuoi.
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Condizioni: il film dev'essere uscito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Avete votato? Cliccate sul bottoncino e dichiarate il voto ai vostri amichetti. Non siate timidi!

Per chi se lo fosse chiesto: le locandine in alto sono quelle dei dieci film che ho messo al primo posto nei miei dieci “classificoni” di fine anno.

Il classificone dei film del 2013

IL CLASSIFICONE - I miei 25 film del 2013, tra quelli usciti in sala in Italia nel corso dell’anno solare.
(In corsivo sono indicati i film usciti in patria nel 2012 e arrivati da noi “in ritardo”.)

1. Gravity di Alfonso Cuarón
2. Django Unchained di Quentin Tarantino

3. The Master di Paul Thomas Anderson
4. Pacific Rim di Guillermo Del Toro
5. Holy Motors di Leos Carax

6. La fine del mondo (The world’s end) di Edgar Wright
7. La grande bellezza di Paolo Sorrentino
8. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
9. Frozen di Chris Buck e Jennifer Lee
10. Blue Jasmine di Woody Allen

11. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
12. Il lato positivo (Silver linings playbook) di David O. Russell

13. Lincoln di Steven Spielberg
14. Looper di Rian Johnson
15. Il passato di Asghar Farhadi

16. Voices (Pitch Perfect) di Jason Moore
17. Cloud Atlas di Lana & Andy Wachowski e Tom Tykwer
18. Spring Breakers di Harmony Korine
19. Il tocco del peccato (A touch of sin) di Jia Zanghke
20. Come un tuono (The place beyond the pines) di Derek Cianfrance

21. Philomena di Stephen Frears
22. Nella casa di François Ozon
23. Miele di Valeria Golino
24. Frankenweenie di Tim Burton
25. No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín
Menzione d’onore: The act of killing di Joshua Oppenheimer

*LA VENTISEIESIMA POSIZIONE - Altri 15 film che avreste dovuto vedere, in ordine alfabetico.

C’era una volta un’estate, Dietro i candelabri, Facciamola finita (This is the end), Fast and Furious 6, Flight, Un giorno devi andare, Hunger Games: la ragazza di fuoco, The Impossible, Iron Man 3, La madre, La moglie del poliziotto, Monsters University, Noi siamo infinito, Questione di tempo, Rush.

*I RITARDATARI - I film più belli usciti in Italia nel 2013 in ritardo di diversi anni.

1. Confessions (2010) di Tetsuya Nakashima
2. Kiki Consegne a Domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

*GLI INVISIBILI - I film più belli visti (da me) quest’anno, usciti in patria, ancora inediti in Italia.

1. The wind rises di Hayao Miyazaki
2. Frances Ha di Noah Baumbach
3. Upstream color di Shane Carruth
4. Drug War di Johnnie To
5. Much Ado About Nothing di Joss Whedon
6. Sleepwalk with me di Mike Birbiglia
7. Mud di Jeff Nichols
8. Prince Avalanche di David Gordon Green
9. Your sister’s sister di Lynn Shelton / Drinking buddies di Joe Swanberg
10. Antiviral di Brandon Cronenberg
Menzione d’onoreSmashed di James Ponsoldt (uscito in Italia, ma soltanto in dvd).

*L’ANGOLO DEL PREGIUDIZIO - I film usciti in Italia nel 2013 che sarebbero in classifica se solo li avessi visti.

Before midnight, Bellas mariposas, Blancanieves, Captain Phillips, The Grandmaster, Jiro e l’arte del sushi, La mafia uccide solo d’estate, Moebius, Mood Indigo, Sacro GRA, Lo sconosciuto del lago, I sogni segreti di Walter Mitty, Still life.

*L’ANGOLO DELLA POLEMICA - I film del 2013 che sarebbero in classifica se solo non uscissero nel 2014.

American Hustle (1° gennaio), The Immigrant (9/1), Nebraska (16/1), The Wolf of Wall Street (23/1), Dallas Buyers Club (30/1), All is lost (6/2), 12 years a slave, Inside Llewyn Davis (20/2), Her (13/3).

Eccoci. Il 10° anno di questo blog è stato anche uno dei più difficili, qualcuno l’avrà pure intuito, ma siamo qui, come ogni fine anno, ad alzare i calici. Non è bellissimo? Lo è! Le solite noiose osservazioni sul classificone ve le risparmio, punto tutto sul vostro buon senso. “È solo un gioco, è solo il mio, vale tanto così, bla bla bla”. Quindi niente, buon anno a tutti. Qui ci si rivede il primo gennaio, con una piccola sorpresa. 

The act of killing, Joshua Oppenheimer 2013

Anwar Congo è un anziano signore della Sumatra settentrionale, è riverito da tutti nella regione, ha un sorriso contagioso, e ha ucciso centinaia di persone strangolandole con un filo di metallo. The act of killing è a tutti gli effetti un documentario, ma non assomiglia a niente che abbiate visto, nella realtà o nella finzione. Il regista Joshua Oppenheimer, americano di base a Copenhagen, che aveva conosciuto Congo in occasione di un precedente lavoro girato proprio in Indonesia, ha convinto l’ex boss delle “squadre della morte”, insieme a diversi suoi collaboratori, a diventare star di un film. Anwar, che prima del colpo di stato del 1965 era un piccolo gangster che spacciava biglietti del cinema di contrabbando (non nascondendo un verace amore per il cinema hollywoodiano), non si limita a raccontare con nostalgia la metodologia dei suoi omicidi, ma li mette letteralmente in scena – ispirandosi ai film di genere, proprio come faceva quando uccideva a sangue freddo i comunisti, veri o presunti, e tutti gli oppositori politici. A rendere The act of killing un’esperienza disturbante è soprattutto il punto di vista, che è unicamente quello di Congo e degli altri aguzzini, convinti in un’ottica di regime di celebrare con questo film (nel film) la grandezza e l’importanza storica del loro gesto: il documentario di Oppenheimer è infatti ambientato in un paese in cui l’atto di uccidere è glorificato, non condannato, dalle istituzioni e dai media (tra le scene più inquietanti, il congresso dell’organizzazione paramilitare Pemuda Pancasila e l’incredibile talk show di una rete tv indonesiana), perché fa parte del linguaggio dei vincitori, con un ribaltamento morale dell’intera società che mette i brividi e manda in frantumi i punti fermi della nostra prospettiva; ci si trova di fronte a una situazione reale che ha i caratteri di un modello fantascientifico, vicino alla distopia, dove il senso di colpa, soffocato dalla complicità del sistema, si rivela soltanto tra le pieghe dell’inconscio. Fino a quando qualcuno non si rovesciano i ruoli di vittima e carnefice, facendo esondare il fiume del rimorso, con il rumore di un conato infernale. Se è l’incastro sbigottito tra realtà e rappresentazione, tra morte e cinema, a fare di The act of killing un film così inusuale, a farne un’esperienza così agghiacciante è soprattutto questa finestra spalancata sui limiti e sulle contraddizioni della nostra morale. Ci vuole fegato per fare un film così, parecchio stomaco per assistervi. Imperdibile.

Questione di tempo (About Time), Richard Curtis 2013

I testi, oppure più nello specifico i film i cui personaggi viaggiano nel tempo si possono dividere, a sentirne il desiderio, in due categorie: ci sono film sul viaggio nel tempo, e poi ci sono film col viaggio nel tempo. La distinzione tra le due sarebbe piuttosto chiara, in verità non è quasi mai marcata; si tratta perlopiù di un’oscillazione percentuale. Nel caso di About time ci troviamo invece di fronte a un caso estremo della seconda: l’artificio del viaggio nel tempo viene utilizzato come pretesto narrativo per sostenere lo sviluppo psicologico dei personaggi, tanto che persino le norme stesse che lo disciplinano vengono piegate, a più riprese, alle esigenze della trama. A dire il vero, About time passa persino troppo tempo a spiegare le regole, visto che poi fa puntualmente di testa sua, ma l’atteggiamento che altrove sarebbe difficile da digerire (infatti il film è mal tollerato dagli amanti del “genere”) nelle mani esperte di Richard Curtis si trasforma in una variazione rinfrescante sul tema, che sorpassa con nonchalance i “buchi” per andare al centro dei sentimenti – che poi sono quello che gli interessa davvero. L’autore di due pilastri della tv inglese degli Anni 80 (Blackadder e Mr Bean), tra i più celebrati sceneggiatori della Working Title per quasi vent’anni, si confronta qui per la prima volta con il fantastico ma si comporta come se nulla fosse, anche perché la sua padronanza della commedia è superiore a qualunque puntualizzazione di genere. Abilissimo a nascondere un film sugli affetti famigliari e sul valore della quotidianità dietro alle parvenze di una storia più banalmente “romantica”, Curtis sa sempre quando farti ridere e quando farti piangere e non ha problemi a comunicartelo apertamente; sa sempre dove piazzare la faccia giusta (Rachel McAdams è fin troppo stupenda per il ruolo un po’ impacciato di Mary, ma è ugualmente incantevole) e la canzone giusta (due esempi di questo caso: Nick Cave e Jimmy Fontana) e la scelta di usare la tenerezza come ago della bilancia tra dramma e farsa si rivela un impeccabile meccanismo emotivo, a patto di gradire l’idea di venire spudoratamente manipolati in questo modo. Da uno così bravo, io mi faccio sempre manipolare volentieri.

Il tocco del peccato – A touch of sin, Jia Zhangke 2013

Qual è il modo migliore per raccontare le contraddizioni della Cina di oggi? Jia Zhangke, uno dei più riveriti registi della sesta generazione, già premiato a Venezia per il suo bellissimo Still life, non ha alcuna intenzione di farsi imprigionare dalle etichette del cinema d’autore e dirige un film in cui si dissolvono letteralmente i confini che separano abitualmente il cinema di impegno civile dalla tradizione del genere – fin da un titolo suggestivo che rimanda volutamente a uno dei massimi capolavori del wuxiapian. Girati con una personalità spiccata che non teme mai di affiancare, a più riprese, lo stile puro che proviene dal thriller al messaggio doloroso e profondamente contemporaneo che veicolano, i quattro segmenti che compongono A touch of sin, intrecciati tra di loro con un filo a volte sottilissimo, più spesso spiazzante e davvero imprevedibile, non sono semplici episodi separati, né singoli racconti tragici e brutali, ma tasselli di un complesso e affascinante mosaico. Che rappresenta con grande ricchezza il panorama di un paese devastato dalla corruzione e dall’ingiustizia sociale, confuso dalla precarietà dei sentimenti e dalla decadenza dei valori nel nome della prevaricazione e del denaro – usato persino come arma di prepotenza in una delle scene più drammatiche del film. Che è anche un viaggio affascinante e terribile nelle cento facce della Cina odierna: dalle province rurali alle metropoli, passando per le case popolari delle periferie, Jia segue le vicende di personaggi risucchiati dalla violenza, spinti a seguire il richiamo del sangue, tra depressione, vendetta, sopravvivenza e follia. Quattro storie che finiscono per rappresentare un grande affresco, per quanto disperato e accusatorio, dei peccati di un intero paese, vittima di un’incontrollabile esplosione, che rischia di fare a brandelli gli ultimi residui di umanità.

Il passato, Asghar Farhadi 2013

Non siamo più in Iran, ma c’è ancora una separazione al centro dell’ultimo film di Asghar Farhadi: è quella tra la farmacista Marie e l’ex marito Ahmed, che la donna ha fatto arrivare da Teheran alla periferia di Parigi, per firmare le carte del divorzio. Ahmed scopre solo al suo arrivo il motivo dell’urgenza: Marie vuole risposarsi, in terze nozze, con il convivente Samir, che lavora in una lavanderia. Anche quest’ultimo è sposato: sua moglie giace in un letto d’ospedale. Dopo lo straordinario dramma iraniano premiato con un Oscar indiscutibile nel 2012, Farhadi si sposta in Francia, con un cast apolide (su cui spicca una splendida Bérénice Bejo, alle prese con un personaggio umano e difficile) e non perde un briciolo della sua maestria e del suo rigore, confermandosi uno dei più lucidi osservatori del comportamento umano nel cinema di oggi. Costruito su una sceneggiatura di impressionante solidità, Il passato è un film che non ha mai fretta ma che non lascia scampo, svelando gradualmente, come se fossero indizi di un thriller, i dettagli dell’intreccio, le identità dei personaggi, i loro desideri e infine i loro segreti – finendo per rovesciare ancora una volta, in modo chirurgico, le prospettive morali e le aspettative degli spettatori su di esse. Fin dal brillante incipit in cui i due protagonisti non riescono a comunicare attraverso un vetro dell’aeroporto, quello raccontato da Farhadi è un complesso incastro di desideri egoisti, e le incoscienti illusioni di poter cancellare, spazzare via il proprio passato non potranno che scontrarsi l’un l’altra. Ma l’onestà impietosa con cui il regista osserva i personaggi, le loro colpe, i loro rimpianti, non è priva di un’empatia coinvolgente, persino commovente. Se è impossibile fare il tifo per qualcuno, lo è altrettanto non immedesimarsi in quest’umanità ferita, incapace di andare avanti, ma sempre alla ricerca ostinata, afflitta e forse vana di un po’ di felicità.

Frozen, Chris Buck e Jennifer Lee 2013

Fino a poco tempo fa, l’idea che la Disney potesse ancora realizzare il miglior film animato dell’anno era pressoché impensabile, una barzelletta. Troppa la concorrenza, artistica e commerciale, ma soprattutto ancora troppo pesanti le macerie del terremoto che ha squarciato il panorama produttivo negli ultimi due decenni. Adesso finalmente John Lasseter, con un piede nella direzione artistica degli studi di Burbank e l’altro nella Pixar da lui fondata, è riuscito in questa rocambolesca missione: riportare la Disney al vertice dell’animazione americana, con un film così bello da levare il fiato, così perfetto che quasi non ci si crede. Dopo due ottime produzioni che avevano altrettanti compiti ben precisi (riappropriarsi del linguaggio delle fiabe strappandolo agli emuli di Shrek il primo, aprire un dialogo reciproco e più costruttivo con la Pixar di Brave il secondo), il meraviglioso Frozen è un vero punto di arrivo – il più compiuto film del cosiddetto “canone” dai tempi (lontanissimi) de Il re Leone. Sintesi ideale di un approccio che si rifà a una tradizione senza rivali che non rifiuta i contraccolpi della rivoluzione culturale, il film (ispirato a una fiaba di Andersen, non tra le più note) mostra dopo tanto tempo una Disney totalmente a suo agio con se stessa, tanto nell’abbracciare il formato un po’ desueto (ma profondamente rituale) del musical, quanto nel coraggio di fidarsi, una volta tanto, dell’animazione digitale, con risultati abbaglianti. Ma tutto questo, per quanto rappresenti una svolta interna decisiva per la storia della Disney (un momento a cui, tra qualche anno, forse guarderemo come si fa ora a La sirenetta), non basterebbe a farne l’opera incredibile che ci siamo trovati sullo schermo. A rendere Frozen così sublime è soprattutto l’attenzione e il rispetto che gli autori e i registi (tra cui Jennifer Lee che, dettaglio non proprio marginale, è la prima donna di sempre a dirigere un film animato Disney) hanno messo nella costruzione dei loro personaggi, soprattutto femminili, nella modernità delle loro pulsioni, su uno sviluppo narrativo che non rinnega i punti di forza di un rito vecchio di decenni (i sentimenti, l’avventura, la simpatia) ma a un certo punto ne ribalta le consuetudini in modo sorprendente, evoluto e attuale. E poi, fatemelo ripetere, ci sono le musiche, le pazzesche musiche di Frozen. Diventate negli ultimi anni più che altro un obolo da versare, sgradito ai più, qui le canzoni (firmate dai coniugi Lopez) tornano di nuovo al centro della scena: tantissime, orchestrate in modo esuberante, spassose, vibranti, una più bella dell’altra.

Much Ado About Nothing, Joss Whedon 2012

Che il regista del maggior incasso del 2012, il terzo della storia del cinema, parliamo di un film costato 220 milioni di dollari che ne ha incassati un miliardo e mezzo, sia uscito nelle sale a pochi mesi di distanza con un film costato quasi nulla, girato in casa sua in bianco e nero in pochi giorni con un gruppo di amici, è una delle cose più singolari accadute lo scorso anno, e non solo nel cinema americano. Ancora più curioso, però, che siano entrambi bellissimi film. Ma anche che The Avengers e Much ado about nothing non si annullino a vicenda, rappresentino in qualche modo due visioni complementari della sua poetica, meglio ancora: l’alfa e l’omega del suo stile (in particolare nella scrittura dei dialoghi e nell’intreccio dei caratteri dei personaggi) ed è irresistibile, pur se opinabile, immaginare che due film così diversi possano essersi influenzati a vicenda. Da sempre appassionato di Shakespeare (pare che le “letture” collettive siano una un’abitudine di casa Whedon ben precedente alla produzione di questo film), il regista di Serenity ha scelto una delle commedie più brillanti del bardo (già portata sullo schermo da Kenneth Branagh una ventina d’anni fa, in costume, in modo altrettanto sublime) per “prendersi una pausa” tra le riprese del kolossal Marvel e la sua complicata post-produzione; chiamato a raccolta gran parte del nutrito gruppo di amici attori che popola da anni le sue serie tv (Alexis Denisof e Nathan Fillion fin dai tempi di Buffy, Amy Acker da Angel, Sean Maher da Firefly), ha girato questa versione di Molto rumore per nulla in cui l’esattezza del testo originale contrasta con l’ambientazione contemporanea, il look casual e l’accento statunitense del cast. Ma questo piccolo esperimento è tutt’altro che minuscolo, anche perché il rispetto che il registra mostra nei confronti di Shakespeare include il desiderio di giocare con le sue convenzioni (ha scritto persino la musica di due canzoni, sul testo originale) con una professionalità ineccepibile, mescolata a un entusiasmo conviviale veramente contagioso.

Il film è ancora inedito in Italia. Si può acquistare, anche in blu-ray, nell’edizione britannica.

Il grosso grasso raccoglitore dei post in attesa dell’autunno 2013

Nell’impossibilità di dedicare, come da tradizione decennale del blog, un singolo post per ciascuno dei molti film “in attesa” delle ultime settimane, ho deciso di mettere insieme una serie di titoli che forse necessitano di meno spazio. Non è una questione di qualità: qui ci sono film belli, bellissimi, deludenti, brutti e bruttissimi. Ma ho preferito mantenere il singolo post per cose meno “visibili”, raccogliendo qui undici titoli che sono già stati trattati in lungo e in largo da mezzo mondo, e sui quali c’è davvero poco da aggiungere. Sono approssimativamente in ordine sparso.

Now you see me di Louis Leterrier
La vera dote di questo caper con gli illusionisti, curioso quanto sciocchino, che prende a man bassa dalla tradizione del genere e in assenza di una sceneggiatura decente fa soprattutto leva su un buon gruppo di attori (ciascuno con il suo corredo di tic e faccette), è la coscienza della sua stessa pacchianeria. Leterrier è un regista dalle mani pesantissime, cerca di girare scene roboanti facendo girare i dolly a casaccio, mentre il plot è schiavo della sua (non proprio imprevedibile) sorpresa finale, che chiude un po’ troppo comodamente un intreccio complicato fino all’assurdo. Ma, appunto, Now you see me non si prende mai veramente sul serio (lo mostra lo stinger sui titoli di coda, che quantomeno lascia a bocca buona) e le performance del cast lo rendono godibile, con tutti i limiti del caso. Certo, chi si aspetta The Prestige potrebbe rimanere scottato e non c’è dubbio che, visto il fascino dei talenti in campo (e la produzione di Kurtzman & Orci) Now you see me sia stata un’occasione sprecata.

World War Z di Marc Forster
Mettersi ad analizzare le differenze tra il bellissimo libro di Max Brooks e il film di Marc Foster può portare fuori strada, lo sappiamo bene. Dopotutto, i due testi hanno ben poco in comune, giusto il titolo. Per il resto, World War Z è un film ordinariamente spettacolare, ben realizzato nonostante una lunghissima gestazione che ha fatto levitare il budget in modo impressionante, ma è prima di tutto un’opera vittima di un grande fraintendimento culturale: non si può realizzare un film di zombi che non faccia paura. Non è solo una questione di dettagli cruenti, di sangue o di budella, né tantomeno di zombi che corrono o che vanno lenti: a sparire del tutto è l’angoscia che il genere romeriano si porta dietro da sempre. E l’enorme potenziale di un film di questo tipo, con l’intera umanità messa di fronte alla propria estinzione, pur con l’efficacia di alcune scene di massa, viene trasformata in un film in cui un cinquantenne belloccio si sposta da una location all’altra e gli succedono delle cose, fino alla più scontata delle conclusioni.

In Trance (Trance) di Danny Boyle
Danny Boyle dalle nostre parti è un regista molto maltrattato, spesso a mio avviso ingiustamente, ma stavolta se l’è proprio cercata: In Trance è uno dei più brutti film usciti quest’anno, un thriller psicanalitico presuntuoso e totalmente implausibile, diretto con un abuso di stile sotto al quale si trova il nulla assoluto, con due star (James McAvoy e Vincent Cassel) che fanno a gara a chi recita peggio e un soggetto che vuole apparire scaltro accatastando un colpo di scena sopra l’altro e dando l’impressione di prendere lo spettatore per cretino. Terribile.

Monsters University di Dan Scanlon
Ricordiamo tutti perfettamente il momento in cui ci siamo resi conto che la Pixar non era infallibile: l’uscita di Cars 2 nel 2011. Ora che abbiamo avuto il tempo di metterci il cuore in pace, possiamo affrontare con più serenità l’idea di un sequel, anzi un prequel, di un altro dei loro capolavori. La buona notizia è che Monsters University è un film veramente divertente, dove lo staff della Pixar si può veramente sbizzarrire (in un mondo popolato di mostri, le possibilità sono infinite) sfruttando i passi da gigante fatti dalla tecnologia in una dozzina d’anni. Quella cattiva è che, al di là delle innumerevoli trovate della sceneggiatura, il film non riserva alcuna vera sorpresa, è gentile e innocuo, e non aiuta il fatto che, di questa avventura, conosciamo a menadito il seguito.

Facciamola finita (This is the end) di Evan Goldberg e Seth Rogen
Originato da un cortometraggio di parecchi anni fa in cui Seth Rogen e Jay Baruchel (amici di vecchia data anche nella vita reale) sono sopravvissuti alla fine del mondo, il film diretto dallo stesso Rogen con il sodale Goldberg è una delle più originali varianti dell’ossessione apocalittica che ha investito la cultura pop negli ultimi anni. Gli attori del cast, quasi tutti appartenenti alla cosiddetta “Apatow Mafia”, interpretano loro stessi – o meglio, si sono inventati una versione di loro stessi che si mescola con la percezione degli spettatori, attivando un corto circuito inaudito tra finzione e realtà. Il talento del cast per l’improvvisazione e la bravura di Goldberg e Rogen come dialoghisti ne fanno uno dei film più citabili dell’anno, e senza dubbio uno dei più divertenti: il meglio lo danno Jonah Hill e Danny McBride (e Michael Cera), la sequenza del massacro iniziale è una carneficina esilarante e liberatoria.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
È uno dei film che più ha fatto discutere quest’anno, quasi solo per le ragioni sbagliate: racconto sensuale, tenero, doloroso di un amore che inizia con uno sguardo rubato e termina tra le lacrime e il muco, La vita di Adele racconta la banalità del quotidiano con il vigore di un poema epico. Con l’intransigenza degli autori sperimentali e un’intensità a tratti insostenibile, Kechiche sceglie un approccio ossessivo mascherato da naturalismo, sotto al quale c’è l’intenzione di essere disposti a tutto pur di trovare un lampo di verità nelle storie dei suoi personaggi, nella scoperta della propria sessualità e in quella della propria fragilità. Gira tutto a due spanne dal cuore, con lo schermo riempito dai volti enormi come pianeti. Prende tempo, va a cercare le risposte non solo nei momenti di svolta ma anche nei dettagli apparentemente marginali. È l’unico modo per raccontare tutto, non lasciare indietro niente: la delicatezza e il tormento, la gelosia e la furia, la passione e il dolore. Con questo meraviglioso, imperfetto, strabordante film, modellato sull’abbagliante Adèle Exarchopoulos, Kechiche ha trasformato l’impianto di un dramma sentimentale in un’esperienza cinematografica radicale e irripetibile.

Thor: The Dark World di Alan Taylor
Nell’ormai popolatissimo panorama del Marvel Cinematic Universe, il Thor di Kenneth Branagh è stata una delle più belle sorprese: era riuscito a evitare i rischi di un’invasione del fantastico nel mondo tecnologico di Tony Stark con romanticismo, umorismo, e Natalie Portman. Questo sequel, non avendo una vera ragione d’essere (se non quella di rimettere insieme Thor e Jane Foster) cerca in tutti i modi di non buttare tutto quanto alle ortiche trasferendo buona parte dell’azione dalla Terra allo sgargiante fantasy del regno di Asgard. Se ci riesce, lo deve soprattutto al Loki di Tom Hiddleston, che distribuisce pacchi di carisma rubando la scena a tutti – ma facendo, in realtà, più danni al film che altro: di lui, quando non c’è, si sente troppo la mancanza. Per il resto a The dark world manca una messa a fuoco che non sia l’autoironia (a dire il vero, l’elemento più funzionale del film), l’intreccio è poco stimolante (quando si riesce a interpretare un passaggio qualunque del bla bla dei dialoghi) per non parlare del cattivo (sono dovuto andare su Google per ricordarmi il suo nome) ma almeno l’ormai imperativo scontro finale riesce a inventarsi un artificio creativo per rendere meno noiosi i soliti interminabili minuti di botte.

Blue Jasmine di Woody Allen
Dopo la disastrosa debacle di To Rome with love, erano in molti a scommettere sulla fine artistica di Woody Allen. Succede ogni volta, e magari non sarà nemmeno l’ultima. Per fortuna è andata diversamente. E non pago di tornare a dirigere un bellissimo film, Allen ha stupito tutti tirando fuori la sua anima più nera: nonostante sia di fatto una commedia, dall’umorismo acuto e sprezzante indirizzato alla divisione tra le classi (con un’attenzione particolare per l’ipocrisia della borghesia arricchita sulle disgrazie altrui), Blue Jasmine è anche uno dei titoli più cupi della sua intera filmografia. Con l’aiuto di un’incredibile Cate Blanchett, di un ottimo cast di contorno e di una sceneggiatura assolutamente perfetta che utilizza in modo ingegnoso i meccanismi del flashback (in fondo la crisi di Jasmine ha anche a che fare con una trasgressione violenta della linearità del tempo), Allen racconta in modo asciutto e spietato la storia di un devastante decadimento psicologico, svelandone gradualmente le cause, e lasciando al pubblico le conclusioni in un finale di profondissima amarezza, aperto ma tutt’altro che incompiuto. La dimostrazione che Woody è ancora vivo e che i suoi artigli sono affilatissimi.

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe di Tommy Wirkola
Nella sua Norvegia, Tommy Wirkola si era fatto notare per la capacità di giocare con il grottesco, prima in Kill Buljo (un demenziale omaggio a Tarantino) e poi in Dead snow, dove il regista mostrava anche di avere un buon talento per l’horror. Nel suo esordio americano, patrocinato da Will Ferrell e Adam McKay, non si trova purtroppo granché di quella artigianale singolarità e Hansel & Gretel finisce per essere l’ennesima stanca variazione moderna sul tema delle fiabe in cui gli unici motivi di interesse sono la fenomenale presenza scenica di Gemma Arterton e farsi lanciare addosso della roba in 3D.

Prisoners di Denis Villeneuve
Dopo aver diretto il clamoroso La donna che canta, il regista canadese si sposta nei vicini Stati Uniti per raccontare la storia di un rapimento. Costruito su un tema classico del thriller americano, rispetto alla norma Prisoners è un film che accetta molti meno compromessi, da un punto di vista morale ma anche produttivo – ne è indice la durata, che supera le due ore e mezza. Il suo più grande limite risiede proprio in questa scelta, visto che tutta la tensione accumulata nelle prime due ore di film viene mozzata da una sgraziata parte finale, capace di banalizzare il complesso percorso morale dei personaggi, in particolare lo scontro tra Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Tutto ciò che viene prima, comunque, non viene totalmente invalidato: Prisoners resta un film di grande atmosfera, anche grazie alla mano riconoscibilissima di Roger Deakins, uno dei pochi direttori della fotografia capaci di strapparti il cuore dal petto con un carrello in avanti. Se il film ha tanti difetti, alcuni difficili da perdonare, il suo è un lavoro davvero magistrale.

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug di Peter Jackson
La sontuosa trilogia che Peter Jackson ha tratto dal breve libro di Tolkien reinventandolo e trasformandolo in un autentico prequel del Signore degli Anelli supera l’ostacolo del capitolo centrale con le ossa meno rotte rispetto al precedente. La desolazione di Smaug perde meno tempo a inseguire la propria coda, ha personaggi più interessanti (anche se molti “in prestito” dai film precedenti e incollati seguendo un progetto francamente difficile da digerire) e un paio di sequenze davvero spettacolari – quella con i ragni giganti, dove rivediamo finalmente Jackson alle prese con l’horror, e il virtuosistico inseguimento nelle botti – ma non riesce a eliminare la sensazione di minestra allungata senza un vero motivo che non sia l’abitudine dei fan assuefatti alla trilogia dell’Anello. È un film migliore del primo, senza dubbio, ma non è abbastanza.

duemilatredici: i miei dischi dell’anno

Questi sarebbero tipo i miei album stranieri del duemilatredici:

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1. Chvrches 2. Waxahatchee 3. Laura Marling 4. Beyoncé 5. Haim 6. Daft Punk 7. Vampire Weekend 
8. Arcade Fire 9. John Grant 10. Torres 11. Arctic Monkeys 12. Caitlin Rose 13. Goldfrapp 14. Tegan and Sara
15. Janelle Monàe 16. Frightened Rabbit 17. David Bowie 18. Justin Timberlake 19. Lorde 20. James Blake 21. AlunaGeorge
22. The National 23. Charli XCX 24. Nick Cave 25. Kanye West 26. Veronica Falls 27. Miley Cyrus 28. MS MR

E questi sarebbero tipo i miei album italiani del duemilatredici:

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1. Baustelle 2. Amari 3. Paletti 4. I Cani 5. Perturbazione 6. Cosmo 7. Fitness Forever
8. Elio e le Storie Tese 9. Baby K 10. Lava Lava Love 11. Elisa 12. Andrea Nardinocchi 13. Erica Mou 14. Viola 

 

Sleepwalk with me, Mike Birbiglia 2012

Dal volante della sua auto, Matt Pandamiglio ci invita, prima di tutto, a spegnere il telefono durante il film. Negli ottanta minuti successivi, Matt ci racconterà la sua storia d’amore con Abby, sua fidanzata da otto anni che non si è mai deciso a sposare. E i suoi problemi con il sonnambulismo. Proprio come Mike Birbiglia, che oltre a interpretare il ruolo principale scrive e dirige questo atipico e bellissimo piccolo film presentato al Sundance Film Festival nel 2012, Matt è un comico di incerto talento che cerca di farsi strada nel duro mondo dello stand up. E che tra un lavoretto mortificante e l’altro, riuscirà a superare le sue difficoltà di performer soltanto trasformando in monologhi, di nascosto, le bizzarrie e le frustrazioni della sua vita sentimentale. Il primo riferimento che viene in mente guardando Sleepwalk with me è inevitabilmente Io e Annie: il capolavoro di Woody Allen viene richiamato in modi molti diversi (dalla cornice che sfonda la quarta parete fino alla presenza nel cast della favolosa Carol Kane) anche se l’intersezione tra arte e vita ricorda più da vicino Louie, la sublime serie tv del collega Louis CK. E pur essendo tratto da un monologo messo in scena off-Broadway, il film non è affatto limitato dalle sue origini teatrali: Birbiglia è riuscito a trasformare con intelligenza un flusso di coscienza in un’opera cinematografica compiuta, con una personalità notevole per un’opera prima e una struttura narrativa tutt’altro che banale (né lineare), sfruttando la patologia di Matt per una manciata di gustose sequenze oniriche, con l’aiuto di un eccezionale cast di contorno popolato di tantissimi colleghi (Kristen Schaal, Wyatt Cenac, John Lutz, David Wain, Marc Maron in una specie di parodia di se stesso) venuti a dare una mano con piccoli ruoli all’amico Mike. Aiuta molto il fatto che Birbiglia sia, in effetti, un comico divertente, acuto e stralunato, visto che parte del film è effettivamente ambientata sui palchi dei club dove Matt trova gradualmente la sua personalità – ma la forza di Sleepwalk with me sta soprattutto nella sua pervasiva malinconia: in fondo è la storia di un bambinone che per diventare grande, suo malgrado, scopre di dover accogliere in sé un cinismo indispensabile, lasciando alle spalle un pezzo di sé, destinato a diventare un triste e romantico rimpianto.

Il film è inedito in Italia. È disponibile in dvd nell’edizione britannica

Il monologo originale Sleepwalk with me Live si può ascoltare su Deezer o Spotify.

Passion, Brian De Palma 2012

Ci sono diversi momenti, guardando Passion, in cui si ha la netta sensazione di assistere alla parodia più riuscita di sempre di un film di Brian De Palma, un effetto ancora più spiccato che in Femme fatale, uscito più di dieci anni fa e a tutt’oggi il suo ultimo vero capolavoro. L’armamentario del grande regista americano è tutto qui, senza alcuna eccezione, come in un manuale, dalle soggettive alle sghembe, dallo split screen alle musiche di Pino Donaggio; la trama stessa, che è un complicato e insidioso intreccio di gelosie, ricatti, segreti, ossessioni, omidici e colpi di scena, con tanto di accento sul tema del doppio per non sbagliarsi, si inserisce nel flusso della sua filmografia con l’evidenza sfacciata di un emulatore fuori tempo massimo nonostante si tratti di un remake (di Crime d’amour). Eppure, Passion è un film che andrebbe fatto studiare nelle scuole: De Palma, che aveva temporaneamente abbandonato il suo stile più esuberante (il film precedente, è giusto ricordarlo, è Redacted) qui si riappropria del suo arsenale e lo spara con i cannoni sullo schermo, alla massima potenza, in modo a volte strampalato, ma anche con una ricchezza e soprattutto con un’impertinenza nella messa in scena che non ha pari nel cinema americano odierno. Non è una questione di perdonare a De Palma ciò che condannerebbe un altro; la questione qui è che non c’è nessuno che diriga più come De Palma e che forse il cinema ne sente la mancanza. Sensuale, morboso ed stremamente disonesto verso i personaggi e verso gli spettatori (come sono alcuni dei suoi film più belli), Passion è un film spudoratamente ridicolo, incendiario e trionfale.

Il film è inedito in Italia. Si può acquistare in dvd, nell’edizione inglese.

Mud, Jeff Nichols 2012

Qualunque direzione prenda la sua carriera negli anni a venire, sono pochi gli attori nati a metà degli Anni 90 che possono vantare esordi come quelli di Tye Sheridan. Il ragazzo texano, oggi 17enne, è spuntato dal nulla dopo aver passato le rigide selezioni di The tree of life, in cui è finito a interpretare il ruolo del figlio (minore) di Brad Pitt. Dopo un debutto così altisonante, nei due anni successivi ha interpretato il ruolo di vero protagonista per altri due tra i più acclamati registi del cinema indipendente americano. Il secondo l’abbiamo visto a Venezia, è lo strepitoso Joe di David Gordon Green con Nicolas Cage. Il primo, presentato a Cannes nel 2012 e uscito negli Usa la primavera successiva, è proprio Mud, firmato da Jeff Nichols dopo l’enorme successo di critica di Take shelter. Curiosamente, però, Sheridan non è l’unico elemento in comune tra i due titoli: Joe e Mud sembrano quasi due varianti dello stesso canovaccio (l’amicizia tra un ragazzino, Sheridan appunto, e un “fuorilegge”) e giocano in modo simile con l’immaginario del Sud (il Texas in Joe e l’Arkansas in Mud), dipinto come un paesaggio trascurato, squallido, violento e “sporco”, e finendo per risultare un inaspettato e irripetibile duetto. Il confronto, aiutato da quello più mediatico tra le “star” (due attori in stato di grazia, nonché bisognosi di una redenzione agli occhi della critica) è fin troppo facile, quasi evidente per chi abbia visto i due film, ma rischia di sminuire il valore di entrambi: perché sia Joe che Mud sono i formidabili eredi di un film come Winter’s Bone, affreschi di un’America ai margini e alla ricerca di una salvezza.

E il film di Nichols, a dire il vero, ha un vantaggio competitivo: è arrivato primo. Dopo essersi addentrato con Take Shelter in un territorio insolito ed eccitante che stava tra la disgregazione psicanalitica e il fantastico-apocalittico, il regista affronta la storia di “Mud”, delinquente romantico auto-esiliatosi su una piccola isola, con un piglio meno oscuro e inquietante e con un andamento decisamente più classico (lasciando anche un po’ di respiro, ma chiamiamola pure speranza, agli spettatori), affidandosi sì all’interpretazione del “solito”, sbalorditivo Matthew McConaughey (andrebbe scritto un trattato a parte su come sia diventato uno dei migliori in circolazione nell’arco di un pugno di film) ma accogliendo il punto di vista del giovane Ellis come unica prospettiva sul mondo e sui personaggi che lo popolano. Questa non è tanto la storia di un criminale che vuole fuggire con la donna che ama (citiamola: è una bravissima Reese Witherspoon) con l’aiuto di un ragazzino, quanto prima di tutto quella di un adolescente abbandonato a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta che vede il suo piccolo universo crollare intorno a sé (letteralmente, e qui la metafora “politica” è ancora più marcata) e si aggrappa all’amicizia con un uomo che sostituisce (anche qui, come in Joe) l’assenza marcata di una figura paterna (tema centrale in un film disseminato di padri, figli, patrigni e figliastri) alla ricerca dell’ultimo miraggio della sua innocenza: qualcuno che gli dica la verità. Quella di Sheridan, che è ancora un emergente, non è una prova da poco, ma le scene più struggenti del film sono tutte sue, ed già più che la promessa di un attore. Dopotutto, con quella faccia, non poteva fare altro.

“Mud” non è uscito in sala in Italia e non ha una data d’uscita prevista. Il blu-ray Uk è già disponibile a una decina di sterline.

Drug War, Johnnie To 2012

Come ogni regista in grado di plasmare il cinema che gli sta intorno, Johnnie To è stato tanto influente nel panorama del thriller dell’area cinese (e non solo) quanto imitato, con risultati alterni. La sua prolificità, peraltro, gli ha permesso di farsi perdonare, nel corso degli anni, di non essere stato sempre al 100% delle sue possibilità e di aver sfornato, in mezzo ai suoi più grandi film, anche titoli tutt’altro che epocali. Ma ogni tanto, e a dire il vero spesso, arriva un suo film capace di spazzare via tutto il resto e ricordarci che solo Johnnie To può girare un film di Johnnie To.

Capita, in modo piuttosto inequivocabile, con l’enorme Drug War: presentato nel 2012 al Festival di Roma, è uno sconvolgente gangster movie, una missione-sfida tra poliziotti e spacciatori nell’arco di 72 ore in una Cina che ha dichiarato guerra alla droga. Costruito su un meccanismo narrativo oliato ma rigorosissimo e impeccabile, il film non si risparmia autentici pezzi di bravura che a volte sembrano diventare una riflessione sulla  messa in scena (una parte del piano di Sun Honglei lo vede “interpretare” il ruolo del nemico, portando gli spettatori a rivivere la stessa sequenza più volte) e monta gradualmente la sua tensione fino allo straordinario finale. Lunga e sanguinaria, coordinata con la solita ineguagliabile precisione e un gusto estetico maniacale, la conclusione di Drug War conferma l’anima più nera di To e più che al brillante ma catartico citazionismo di Exiled sembra rifarsi al nichilismo totale di un capolavoro della Milkyway come Expect the unexpected di Patrick Yau. Un finale senza vie di scampo che sbatte la porta in faccia agli epigoni, ricordandoci cosa può fare e cosa può essere un maestro del cinema al pieno della sua forma.

La fine del mondo – The World’s End, Edgar Wright 2013

Dentro ogni film di Edgar Wright ci sono almeno tre film. C’è quello che scopri la prima volta, che ti sorprende e ti lascia ammutolito o estasiato. Poi c’è quello della seconda volta, quando ascolti per bene i dialoghi e ti rendi conto che nulla è messo lì per caso, che ogni parola è un suggerimento, oppure una profezia, di quello che sta per accadere. È un procedimento che Wright, tra le più grandi benedizioni del cinema britannico (e non solo) dell’ultimo decennio, ha messo in pratica già nei primi due film di quella che, ormai un po’ per gioco, viene definita “La trilogia del Cornetto”: cresciuto, come tanti suoi colleghi, immerso fino al collo nella bulimia cinefila, Wright è forse l’autore che più di ogni altro ha saputo perfezionare il meccanismo che permette a un film di vivere nel futuro. Ed è proprio lì che vive, per la terza volta, un film di Edgar Wright: nella visione ripetuta che diventa un culto, un tipo di esperienza a cui The world’s end si presta alla perfezione. Dopo il cinema horror con gli zombi di Romero (Shaun of the dead) e gli action movie americani di Bigelow e Michael Bay (Hot fuzz), passata l’entusiasmante parentesi americana del sottovalutato, immenso Scott Pilgrim (uno dei pochi film d’intrattenimento recenti che si possano definire veramente sperimentali), Wright è tornato accanto ai vecchi amici Simon Pegg e Nick Frost, per chiudere un conto aperto e rendere omaggio al terzo polo della sua passione per il cinema, la fantascienza. Ovviamente, anche in questo caso la scaltra ricchezza citazionista, la perfezione assoluta nella costruzione del plot e dei dialoghi, la cura impressionante dei dettagli, la perfetta direzione di un cast favoloso, sono i dispositivi che permettono a Wright di dar vita a un’altra parabola umana, più disillusa e amara delle precedenti, in cui un personaggio decadente, buffo e sgradevole (il Gary King del magnifico Simon Pegg) incarna il tentativo eroico e definitivo di superare la propria (nostra) inesorabile mediocrità. L’epilogo del film, beffardo e feroce, è un capolavoro a sé stante, la degna conclusione di un film che, in ogni caso, mette in primo piano, davanti a tutto questo, il divertimento assoluto, alternando battute serrate a spettacolari combattimenti (dai quali, peraltro, Nick Frost emerge come un’epocale macchina da guerra), l’ennesimo grande film di un regista che in molti si ostineranno a prendere sottogamba (perché è facile prendere poco sul serio il suo avventato, coinvolgente amore per il cinema) quando in realtà Edgar Wright è uno dei più innovativi e geniali autori del cinema pop contemporaneo.

Frances Ha, Noah Baumbach 2013

Frances Halladay ha 27 anni, è una ballerina, vive a New York, e presto non avrà più una casa. La sua migliore amica, Sophie, ha trovato un altro appartamento, un’altra coinquilina con cui dividerlo. Potremmo dire che Frances Ha racconta i suoi tentativi di trovare un posto dove vivere, tra Brooklyn e Washington Heights passando per Sacramento e Parigi, se non fosse che la trama e la struttura vengono meno di fronte alla stravagante libertà con cui Baumbach narra la storia della sua eroina. Ideato e scritto dal grande regista di Il calamaro e la balena e Margot at the wedding a quattro mani con la sua fenomenale protagonista Greta Gerwig (che dopo Greenberg è diventata anche la sua compagna nella vita) e costruito nelle sua grandi linee anche come una storia d’amore (platonico) in assenza, tra la protagonista e l’amica perduta, Frances Ha è uno dei film più belli di quest’anno – un vero gioiello di cinema indipendente, intelligente ed emozionante nella sua impalpabile leggerezza. Una commedia brillante e nostalgica, tenera e caustica al tempo stesso, girata in un suggestivo e sognante bianco e nero digitale che rimanda ai contrasti di Gordon Willis per la Manhattan di Woody Allen, e dotata di una grazia che la rende un oggetto piacevolmente alieno persino nel frastagliato panorama del cinema indie americano. Un film la cui apparente frivolezza, nelle situazioni e nei (perfetti, divertentissimi) dialoghi, nasconde non soltanto un acuto affresco sociale che trascende la dimensione generazionale (lo stile senza tempo sembra rifarsi alla nouvelle vague, citata esplicitamente nella splendida colonna sonora) ma anche e soprattutto uno studio sul personaggio, singolare e inconsueto. Simpatica, stralunata, sventata, sottilmente malinconica, interpretata meravigliosamente da un’attrice che è una delle più stupende sorprese degli ultimi anni, Frances è un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi immediatamente e di cui è lecito innamorarsi perdutamente, una ragazza ancora alla ricerca di un suo posto nel mondo, di un modo di vivere la propria vita senza affrontare la paura di crescere, di un luogo dove poter smettere di volteggiare, dove appoggiare i piedi e sentirsi a casa.

Cattivissimo me 2 (Despicable Me 2), Pierre Coffin e Chris Renaud 2013

Era scontato che il sequel di Cattivissimo Me avrebbe seguito, sopra tutte le altre, una direttiva ben precisa: aumentare la dose di “minions”. I chiassosi e dispettosi aiutanti dell’ex-villain Gru sono infatti una delle più azzeccate invenzioni del cinema d’animazione contemporaneo: graficamente essenziali, minimalisti e infinitamente modificabili, i minions sono stati capaci di trasformare con una perfidia che si rifà alla tradizione dei looney toones e alle comiche del muto, un nuovo franchise divertente ma tutto sommato modesto come Cattivissimo Me in una macchina da soldi in tutto il mondo: il primo incassò 543 milioni di dollari su un budget di 69, questo secondo film è costato poco di più e veleggia già verso il miliardo. Gran parte del merito, soprattutto sui mercati internazionali, è dovuto alla loro immediatezza globale: la cattiveria, la stupidità o la follia dei “minions” si esprimono esclusivamente con la gestualità, oltre che con un idioma inventato che è un miscuglio delle lingue di mezzo mondo, e più in generale con un comportamento che non ha nulla a che fare con la razionalità del mondo adulto. I minions sono una grande trovata, una goccia di anarchia inserita in un progetto di calcolata ragioneria, ed è quindi ovvio che Cattivissimo Me 2 faccia ancora più leva su di loro, mettendoli non più ai margini delle avventure dei “veri protagonisti” e più non solo come spalle ma veramente al centro dell’intreccio, facendone le vittime di un diabolico complotto – e che il film aumenti a dismisura il minutaggio delle loro incredibili fesserie. Il risultato è sinceramente esilarante, anche se l’assoluto spasso del film quando (cioè quasi sempre) ci sono dei minions in scena rischia di rendere ancora più evidente la pochezza del contesto – che già ai tempi era arrivato in enorme ritardo su un capolavoro come Gli Incredibili. A sopperire, stavolta, interviene anche (a patto di vedere il film in lingua originale) la nuova entrata Lucy Wilde, agente schizzata, buffa e romantica che il lavoro impagabile di Kristen Wiig contribuisce a rendere tridimensionale e irresistibile.