gennaio 2004

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Chicago


Ho scritto un po’ troppo di Schumacher e del suo Phone Booth, quindi ho perso buona parte dell’ispirazione e della lena per scrivere di Chicago. Un buon punto di partenza potrebbe essere la solita domanda: mi è piaciuto? La risposta è sì. Mi sembra anche ovvio. E’ davvero difficile criticare un film in cui il talento (visivo, fotografico e soprattutto attoriale) esce fuori in modo così ridondante dallo schermo. Insomma, una delizia per gli occhi (e per le orecchie), oltre che un’interessante variazione sul tema realtà/sogno, trasferito sul binomio vita/palcoscenico, rappresentazione del rapporto tra verità e finzione cinematografica. Ciò significa che tutto il film va letto in modo metafilmico? Sinceramente questo livello, se pur esistente, funziona assai meno di quanto funzioni l’alternarsi ritmico e ipnotizzante dei costumi, dei colori, delle musiche, dei corpi danzanti, che ricrea la fantasmagoria che è propria del musical, ma che spesso non riesce a venir fuori.


Certo, che Marshall non sia un super-regista si vede eccome, come in alcune parti un tantino “piattine”: non c’è (perché non vuole esserci, intendiamoci) la geniale destrutturazione di Luhrmann. C’è solo la voglia di raccontare una storia, e di raccontarla come si deve. Insomma, non che la regia sia terribile, ma si tiene comunque su un registro medio (o mediocre), tra un gusto teatrale simpaticamente retrò (mantenendo molti numeri su un palco) e l’ampio sfruttamento delle visioni di scenografi e costumisti. Il mio giudizio è quindi nettamente positivo, ma senza strafare.


Numeri musicali ce n’è in gran quantità, alcuni sono piacevolmente nella media, ma comunque non scendono mai sotto il livello attentivo che causa la noia. Però alcune parti superano maestosamente quel livello. Prima di tutto: la conferenza stampa in cui la Zellweger (bravissima come sempre, ma non che la Zeta-Jones sia da meno) diventa una marionetta nelle mani di Gere è la mia scena preferita, me la sono rivista tre volte. Poi c’è “Mister Cellophane”, in cui John C. Reilly mostra una bravura da brividi. Infine, uno dei primi balletti, quello del “tango delle sei assassine”, è una meraviglia, e possiede una carica erotica e simbolica magistrale.

In linea con l’assas…

In linea con l’assassino


La premessa obbligata è questa: Joel Schumacher è il mio regista (scusate il neologismo infantile) spreferito. Lo detesto. Il perché lo spiegherò nell’ultima parte di questo post.


Quando ho iniziato la visione di questo Phone Booth, con quel prologo presuntuoso e videoclipparo, e con quello schermo postmoderno diviso in parti, ho messo la testa tra le mani e ho detto: “ci risiamo”. Poi mi sono dovuto ricredere, e ammettere che, forse, un po’ di talento Joel ce l’ha (qualcosina di buono c’era in Ragazzi perduti, ma il mio è più un rapporto affettivo che altro). Lo ha tenuto stretto, e lo ha tirato fuori in questo film. Che è infatti, a parte dei tonfi clamorosi nella parte centrale e nel suddetto incipit, un vero gioiellino. La mia stima nei confronti del lavoro del team intorno a Schumacher aumenta con la visione del “making of”: 10 giorni di riprese per questa creaturina. Ragazzi, sono davvero pochi. Soprattutto, visto il risultato. Com’è possibile? Metà del merito va a Colin Farrell, che ha recitato un vero e proprio dramma da camera, con un incredibile talento teatrale (scene girate per minuti senza interruzioni). Poi il concept e lo script (frutto di quel geniaccio di Larry Cohen) è entusiasmante: una vera sfida. Non è eccezionale, non è un capolavoro, però è più che dignitoso, e realizzato con freschezza, soprattutto nella gestione degli attori e delle comparse. Direi che la sfida è stata vinta, quindi.


Ora parliamo di Schumacher. Perché lo detesto? Presto detto. Perché ha rovinato una serie che ho sempre amato moltissimo (Batman), trasformando i due capolavori Burtoniani in due ridicole baracconate indegne del nome di film. Perché è riuscito a trasformare un plot geniale, quello di Un giorno di ordinaria follia, in una schifezza inguardabile. Perché ha preso un film e una tematica dal potenziale cinicamente amorale (8mm) e l’ha fatto diventare uno dei film più moraleggianti (e brutti) degli ultimi anni. Perché ha fatto i due più brutti film giudiziari di ogni tempo: Il cliente e Il momento di uccidere. Credo che basti. Flawless non l’ho nemmeno preso in considerazione, e non credo lo vedrò mai. Grazie a Dio ha fatto Phone Booth e Tigerland (che pare sia molto bello, ma non l’ho visto per le suddette ragioni). Magari si è accorto di aver sbagliato tanto.

Down with love – Abb…

Down with love – Abbasso l’amore


Vado al cinema senza nessuna aspettativa, con la voglia di farmi quattro risate dopo l’imponente esperienza del Ritorno del Re. Guardo il manifesto, abbasso lo sguardo e dico ai miei amici: “che cagata”. Mi sbagliavo.


Premesso che non ci si deve aspettare un saggio di filosofia da un film leggero come una piuma svolazzante, e premesso è quasi automatico che un cinefilo (anche se amateur) gradisca un piattino così riflessivo nei confronti dell’american comedy anni ’60, date queste premesse si può definire tranquillamente un film riuscitissimo. Anzi, un vero spasso.


Una vera e propria “replica”, che con cura certosina mette in campo, più che un periodo cinematografico, un’intera cultura pop: le splendide scenografie, i costumi colorati e kitsch, le musiche perfette e incessanti di Marc Shaiman (che aveva fatto la score Harry ti presento Sally, e si sente). Ewan MacGregor che è un mezzo Sinatra mezzo Rock Hudson. Ma quello che mi ha fatto davvero impazzire (al di là, lo ripeto, dell’infinita leggerezza del progetto) è il riutilizzo degli stilemi: i trasparenti d’epoca che si vedono dietro i finestrini delle macchine, o lo split-screen che si trasforma in una session di phone-sex.


Poi ci sono delle cose davvero geniali: tanto per citarne due, la lunga confessione della Zellweger (bravissima, e terribilmente “nella parte”) su camera fissa senza stacchi, e il finale “favolistico”. Ti lascia una bella sensazione in bocca.

Bloscar – post tauto…

Bloscar - post tautologico


Marquant l’ha buttata lì. Io ci sto. Mi piacciono queste cose inutili. Che poi è una specie di replica del mio post sui Golden Globes.


Miglior film: Il ritorno del re
Regia: Peter Jackson
Attore: Billl Murray (o Johnny Depp, visto che se lo merita e Murray si può accontentare del GG)
Attrice: Naomi Watts (anche se non ho ancora visto “21 grammi”, la adoro, e poi Uma non è nominata)
Attore non protagonista: Tim Robbins (per simpatia, vedi sopra)
Attrice non protagonista: Renée Zellweger (ancora per simpatia, e per Down with Love)
Fotografia: Il ritorno del re (non ci si scappa qui)
Scenografia: La ragazza con l’orecchino di perla (a scatola chiusa, perché ho visto delle foto di scena e le scene sono straordinarie)
Montaggio: qui non mi pronuncio per carenza di info
Sceneggiatura originale: Lost in translation (ma se vince Alla ricerca di Nemo, gioisco lo stesso)
Sceneggiatura non originale: nessuno dei nominati (insomma, non mi pronuncio per mancanza di info)
Film straniero: The twilight samurai (visto che non c’è l’Italia, e poi dev’essere proprio bello… chissà)
Colonna sonora: Big fish (adoro Danny Elfman)
Costumi: L’ultimo samurai (perché al di là della bruttezza del film, i costumi sono belli, ma anche qui vale il discorso su La ragazza con l’orecchino di perla)
Trucco: La maledizione della prima luna
Effetti speciali: Il ritorno del re (ovviamente)
il sonoro, lo ignoro
Film d’animazione: Alla ricerca di Nemo (anche se Appuntamento a Belleville è strabiliante)




















Quell’oscuro oggetto…

Quell’oscuro oggetto del desiderio


Questo post l’avrei dovuto scrivere qualche giorno fa, dopo aver visto (finalmente) questo (ennesimo) capolavoro di Bunuel. Perché? Subito spiegato: la mia memoria non funziona molto bene ultimamente (vedi esame) e tendo a dimenticare tutto. E’ anche per questo che ho creato questo blog, ed è il motivo per cui si chiama “Memorie”. La mia amica psichiatra mi ha consigliato di prendermi una vacanza (“dai miei problemi”, aggiungerei io, citando “Tutte le manie di Bob” con Bill Murray). E invece io mi curo con il cinema, come ho sempre curato nevrosi e depressioni fin da quando ero un piccolo guaglione. Fine della parentesi personale, direi.


La cosa straordinaria dell’ultimo Bunuel (“Fascino discreto della borghesia” e “Fantasma della libertà” inclusi) è la sua inventiva, la sua capacità di inserire in un testo lineare (seppur all’interno di un flashback) inserti surrealisti (e non semplicemente surreali) che non se ne stanno lì a fare bella figura isolati da quella che è la dimensione narrativa, ma la permeano e la invadono: lo stesso personaggio ha due volti diversi, senza spiegazione o giustificazione apparente, e molti più di due . Tolta la questione più “seria”, quella dell’approccio crudele e vendicativo nei confronti degli atti linguistici, e soprattutto nei confronti della tanto vituperata bourgeoisie (mi ha detto babelsifh che si scrive così), è un film incredibilmente (ma davvero) divertente.

2001: odissea nello …

2001: odissea nello spazio


Ma secondo voi adesso io scrivo un post su 2001? Sì. Purtroppo ieri sera l’hanno fatto in televisione, e io non so proprio resistere. Non ce l’ho fatta. L’ho guardato. Tutto.


Nessun giudizio di valore: 2001 è a mio avviso il più bel film della storia del cinema. Le preferenze personali non contano, perché non è il mio preferito (e quello non lo dico). Su questo non discuto nemmeno.


Il post finisce qui. Il bello di 2001 è l’inconoscibile, l’ignoto, il nero bidimensionale del più bel controcampo della storia, e il vorticoso ballo di ossa e astronavi della più bella ellisse della storia. Fine.

Fuoco cammina con me…

Fuoco cammina con me


Ieri era giorno di ripasso (per chi volesse sapere com’è andato l’esame, si rivolga al mio commento di sotto). Ma si sa, dopo un po’ la mente strippa e ti devi sdraiare sul tuo improbabile divano-materasso e guardarti un film senza senso. Cosa meglio di Fire walks with me? Di cui, diciamolo, non avrei voglia di parlare, perché la mia su Twin peaks e su Lynch l’ho già detta, quindi non voglio essere ripetitivo. Sennò facevo un blog su Lynch [che non è una bruttissima idea].


Questo fiammeggiante inconscio perturbante filmetto lo demoliscono tutti, sembra quasi uno sport nazionale. A me piace, un po’ perché è un’estensione (molto più curata da un punto di vista visivo e sonoro) di un oggetto che amo molto (twin peaks, appunto); ma soprattutto mi piace proprio per la ragione per cui Mereghetti lo demolisce: è una solenne presa per i fondelli. E infatti la mia parte preferita è la prima mezz’ora, in cui non succede niente ma proprio niente e allo stesso modo tutto (paradossi spaziotemporali compresi). La seconda parte è esplicativa, e scoglie molti nodi: noi twinpeaksomani non possiamo che gradire.

Golden Globes 2004


Emanuelazini ha commentato i globi d’oro, e mi ha fatto venir voglia di dire la mia.


Miglior film drama: Il ritorno del re. Sono pienamente d’accordo.
Miglior film comedy: Lost in translation. Meritato. Però c’è Big Fish, e io adoro Tim Burton quando fa il giocherellone. Sarà sicuramente bellissimo.
Miglior attore drama: Sean Penn. Non ho visto Mystic River (ahimé), ma conosco Sean Penn. Meritato (anche per esclusione…)
Miglior attrice drama: Charlize Theron. Ho visto il trailer di Monster e ho rabbrividito, sono stufo delle attrici che si imbruttiscono. Quindi il mio premio va a Uma Thurman.
Miglior attore comedy: Bill Murray. Assolutamente meritato. E aggiungerei: finalmente. Se non ci fosse stato lui, l’avrei dato a Johnny Depp, splendido nella maledizione della prima luna.
Miglior attrice comedy: Diane Keaton. Non avendo visto something’s gotta give, e nutrendo una certa antipatia per la Keaton, il mio premio va a Scarlett Johansson.
Miglior attore non protagonista: Tim Robbins. Troppe scatole chiuse. Quindi facciamo che sono d’accordo.
Miglior attrice non protagonista: Renee Zellweger. Come sopra. Poi le altre mi stanno tutte antipatiche.
Miglior regista: Peter Jackson. E chi altri? D’accordissimissimo.
Miglior sceneggiatura: Lost in translation. D’accordo. E’ la sua forza, la sceneggiatura.
Miglior film straniero: Osama. Premio doveroso, anche se non ho visto nessuno dei 5 comprendo la scelta. Politica.

[perché ho cambiato template?]
Prima lamentela. Era scritto troppo piccolo.
Seconda lamentela. Mancava l’archivio. Adesso c’è, qui a sinistra.















Il ritorno del re


Bene, dopo tre post semi-inutili che non leggerà mai nessuno perché quei pochi che visitano questo blog saranno intenti a criticare il mio entusiasmo per Mr. Jackson, ecco il momento di parlare del ritorno del re.


Prima di tutto, io non sono un tolkeniano, nessuno nella mia adolescenza mi ha mai introdotto o spinto a leggere il libro di Tolkien, e quindi il mio giudizio è meramente cinematografico. Anche se conosco diversi Tolkeniani che sono entusiasti quanto me.


Secondo, non concepisco il dire “questo è meglio, questo è peggio degli altri due”, perché il Signore degli Anelli è un film solo, concepito e soprattutto prodotto come tale. Quindi quel tipo di discorsi cade senza pietà: sarei costretto a dire: sono tutti e tre sullo stesso livello.


Quindi il giudizio dovrebbe andare, finalmente, dopo due anni di attesa, all’intera trilogia, non al terzo film. Questa mastodontica opera mediatica è però qualcosa di così grande e imponente che non mi azzardo a scriverne, con il rischio di uscirne fuori con un saggio (e ci metterei tutta la giornata, perdendo un pomeriggio di studio). Coniugare una tale perferzione visiva con una simile portata emozionale, che rende il film una vera e propria esperienza multisensoriale, è impagabile, e merita ogni vetta.


Chi volesse semplicemente un giudizio numerico sul film, è quello postato su cinebloggers: 5 su 5, senza ombra di dubbio.

Cast away


Finalmente l’ho visto e ho tappato la mia filmografia zemeckisiana (per chi non lo sapesse, uno dei miei guru). Mi è piaciuto da impazzire, e sfido chiunque a criticare un film che riesce a coniugare esigenze di entertainment (lo spettacolare incidente, la storia d’amore) con un’autorialità diffusa più unica che rara in un regista così profondamente hollywoodiano.


L’incredibile ma vera storia del naufrago permette a Zemeckis, oltre un incredibile studio sul personaggio (grazie anche all’aiuto di un impressionante Tom Hanks), lo sviluppo del suo tema portante: la riflessione sulla dilatazione del tempo. Basti pensare a Marty MacFly (“Ho tutto il tempo che voglio, ho una macchina del tempo!”) o alle streghe senza età della “Morte ti fa bella”, per non parlare di “Contact” (dove un istante corrisponde a migliaia di secondi e anni luce).


Oltre a questo sviluppo tematico estremamente maturo, una messa in scena perfetta, che utilizza l’effetto digitale in senso poetico e funzionale (come pochissimi riescono a fare) e si prende i suoi tempi senza fretta, senza paura di annoiare (riuscendoci). Bellissimo.

Palombella rossa


Non voglio spendere troppe parole parlando di Nanni, perché (come nel caso di Aprile) sarebbero inutili o insufficienti. La domanda è solo questa: mi è piaciuto Palombella rossa? La risposta è relativa al cinema di Moretti, che comunque apprezzo spesso, senza esagerazioni. In senso relativo, posso finalmente e tranquillamente dire che non mi è piaciuto. Leziosetto, narcisista, ripetitivo (anche se volutamente). Però come sempre Non mancano gli spruzzi di puro genio, come l’intervista alla giornalista (“ma come parlaaa??”), o i ricordi felliniani di un rifiuto sportivo (“no, ci ho ripensato, ci ho ripensato!”). Bastano a meritare la visione? Direi di sì, come in Aprile.


Il grande problema di Moretti è che sta facendo il bilancio della sua vita personale e professionale da 15 anni: smetterà, prima o poi?

Yuke yuke nidome no …

Yuke yuke nidome no shojo
(Su su per la seconda volta vergine)


Questo weekend mi sono deciso, nella massa informe di cinema che ho consumato, di vedere finalmente questo film registrato da Fuori Orario qualche giorno fa. Devo dire che è abbastanza interessante, anche se faccio molta fatica a contestualizzarlo, non conoscendo questo misterioso Wakamatsu, che la garzantina del Canova mi dice essere “un autore di film erotici che si distanzia dal genere per il suo stile”. Insomma, sta al pinku come Gerard Damiano sta al porno?


Questo incontro tra due anime disperate sul tetto di un palazzo, una che vuole morire, l’altra che vuole uccidere, e che si scambiano i ruoli confondendo continuamente eros e thanatos (“ti amo, non è una buona ragione per uccidermi?”) è abbastanza scioccante, anche se un po’ manierista, nonostante un incredibile talento pittorico nel dosare le luci e costruire l’immagine. Poi c’è quella che è forse la chiave di lettura del film: le immagini violente dei manga alternate alle foto di Sharon Tate incinta pre-Charles Manson. La cosa mi ha lasciato un po’ atterrito, poi ho decisamente rinunciato a capirla. Niente male il finale.


[pausa]


Ancora una [pausa]. Perché sto studiando per un bruttissimo esame, e già mi sveglio tardi la mattina, figuriamoci se ho il tempo di mettermi a vedere tutti i film arretrati. Ma lo farò presto.


Sono stato lieto di partecipare allo “scannamento” su cinemashow sull’Ultimo Samurai (sul quale ho preso una posizione volutamente forte, perché ci vuole ogni tanto, altrimenti ci addormentiamo e ammazziamo il cinema).


Domani sera: Il Ritorno Del Re. Cinema Capitol. Bologna.
Del quale scriverò lunedì. E ne scriverò sicuramente bene perché purtroppo adoro Peter Jackson in ogni sua manifestazione, e oltre a quello adoro i primi due capitoli come poche altre cose al mondo. So già che non rimarrò deluso. O almeno spero. Non vedo l’ora.


Intanto auguro a tutti buon weekend, ricordo a adiastematica che c’è un matrimonio in ballo, e ora ritorno su quello schifo di libro pensando che forse era meglio stare a casa a guardarsi Getting Any? di Kitano. Baci a tutti.


L’ultimo samurai


Il mio primo film al cinema del 2004 è diretto da Edward Zwick, e già non è un buon inizio. Ok, adesso mi impegno e ne parlo bene. No, non ce la faccio proprio. Facciamo così: un giudizio “in negativo”, nel senso che dirò le cose che funzionano, così sembra un capolavoro. Ma in realtà poi conta tutto ciò di cui non parlo….


Bisogna difendere prima di tutto Tom Cruise, e proprio per la ragioni di cui parla saggiamente Gervasini su film tv: se le prende a cuore le cose che fa, ci si immerge fino nel profondo dell’animo, e ci crede, con tutto se stesso (vedi la trilogia di Mission:Impossibile). Quindi, plauso al bel Tom, anche grazie al suo personaggio, indubbiamente ben costruito e di notevole spessore. C’è poi da dire che (caso strano per un film così profondamente us-style) c’è un rispetto dignitoso delle tradizioni e del modus vivendi del giappone del 1876 (rispetto che si traduce, almeno, nella rinuncia alla solita scopata selvaggia, che sarebbe stata di cattivo gusto, anche se la filosofia samurai è poco più che accennata, e avrebbe meritato più spazio, più attenzione). Nessuna sorpresa sulla condanna del colonialismo americano: ci mancherebbe altro, dopo 40 anni di western “maturi”. Nota estremamente positiva (detto da me sembra incredibile) per il doppiaggio italiano: tutti i giapponesi sono doppiati da giapponesi anche in italiano, evitando irrispettosi effetti di invololtaria comicità (come le elle al posto delle erre), e con un piacevole effetto realistico.


No, basta, ora devo per forza parlarne male, perché se su cinebloggers gli do un 2 su 5 ci sarà pure una ragione. Il problema è profondo, ed è il problema principale dei blockbuster movies statunitensi (perché se dico americani poi Morandini si arrabbia…): la tendenza ad addormentarsi su quello che è o dovrebbe essere il perno della costruzione di una vicenda, e cioè la struttura. L’utilizzo sfrenatamente ripetivivo, negli ultimi anni, degli stessi moduli di costruzione della storia, ha sinceramente stancato. Per esempio, l’incontro tra culture rappresentato come scontro (prima), a cui segue acquisizione di competenze in senso proppiano, a cui segue il riscatto, e quindi l’accettazione: non se ne può più. Anche moduli più seplici, come la rappresentazione della battaglia finale, o la storia d’amore semi-platonica (happy end ipotetico permettendo), sono triti e ritriti.


Nel totale, un’ora di film (mezz’ora iniziale e mezz’ora finale, direi) è proprio da buttare. Il resto si farebbe anche guardare volentieri, anche se a volte fa proprio sorridere (non è cosa bella) per la sua estenuante (e faticosetta) classicità.

28 giorni dopo


[Nota personale: l'ho visto due volte ieri sera. Mi spiego: ho visto i primi 70 minuti del film. Poi è arrivato il mio amico/coinquilino e l'ho ricominciato da capo, per poi finirlo 100 minuti dopo. Masochismo? Beh, evidentemente mi è piaciuto...]


La cosa che mi interessava di dire su questo bell’horror “fuori moda” (e di questi tempi è un termine molto positivo per un horror) è il suo rapporto con il cinema di Romero. Che è ovvio, lo scrive persino quell’enciclopedia di ovvietà che è (spesso, non sempre) il Mereghetti. Sarà che l’ho visto in lingua originale (non esiste che mi noleggi un dvd di un film inglese e me lo guardi in italiano!), ma “28 giorni dopo” sembra la prospettiva britannica del cinema di Romero, anche se non possiede la tipica spocchia del remake cinefilo. A volte però i riferimenti sono davvero palesi: lo zombi tenuto vivo dai militari e i militari stessi vengono da “Il giorno degli zombi”, certi assedi, certe ombre dal primo “La notte dei morti viventi”, e soprattutto la scena del supermercato viene da “Zombi”, a mio avviso uno dei migliori horror di tutti i tempi, secondo a pochi altri.


Ma dove Romero rifletteva sulla società americana (la trilogia corrisponde a mio avviso – ipotesi su cui non ho riflettuto e che butto giù adesso – alla triade famiglia/consumo/guerra), Boyle, che aveva già dimostrato ampiamente di poter essere un autore di talento, eccezioni a parte, vuole soprattutto divertire (la scelta del digitale sembra davvero una ripresa del buon vecchio metodo low-cost di autori come Raimi o Romero stesso) e magari riflettere cinicamente sulla natura umana, con quell’esplosione finale di furia ribelle nei confronti dei militari che assomiglia vagamente alla furia avida descritta in “Piccoli omicidi tra amici”. Il tema preferito da Boyle sembra quindi davvero essere l’istinto di sopravvivenza (o conservazione), contrapposto all’istinto di prevaricazione tipicamente umano?


Altre cose ancora più banali da dire, bravi – senza esagerare – gli attori (che rendono però alla perfezione il senso di spaesamento e disperazione), e dulcis in fundo la fotografia, splendida: le immagini dell’abbandono delle città e delle strade fanno venire i brividi e possiedono un bel senso della costruzione dell’immagine. Non sapevo si potessero fare tali miracoli in digitale. Si aprono nuove strade per la mia immaginazione registica.


Vedete? Ho scritto tantissimo. Mi rendo conto che quando inizio un post, mi sembra sempre di non aver niente da dire e poi mi dilungo. Vorrei davvero essere più breve, ma è più forte di me.

[notazioni tv]


Ancora due righe per dire due cose.
1. Twin Peaks, episodio di ieri: splendido. Non a caso è diretta da Lynch. Si vede la differenza. Profondamente.
2. Ho a casa ancora da vedere la notte di FuoriOrario di domenica scorsa: “Yuke yuke nidome no shojo” di Wakamatsu, che ho già iniziato a vedere ed è davvero interessante, poi “Taji Ga Mitsuryo Suru Toki” sempre di Wakamatsu, e “Cet obscur objet du désir” di Bunuel che – mi vergogno a dirlo – non ho mai visto, nonostante adori il regista spagnolo. Ne parlerò presto.



Gohatto


Inserisco un primo (spero raro) elemento di intertestualità tra il mio Blog (che state leggendo) e il mio ormai desueto sito The Rosebud Chronicles. Infatti in tal sede avevo già parlato di Gohatto, bellissimo film di Nagisa Oshima, che avevo infatti visto al cinema Roma d’Essai a Bologna nella primavera del 2001. Mi aveva già senz’altro molto colpito, ma forse a causa della mia scarsa conoscenza del cinema orientale non mi aveva permesso di comprenderlo appieno. Grazie a Ghezzi (che l’ha trasmesso sabato sera su Rai3), ritorna l’occasione di parlarne. Quindi tutto ciò che faccio oggi è riproporre in corsivo quella stessa recensione da me scritta quasi 3 anni fa, anche se parzialmente ripulita da alcune stronzate che ci avevo infilato.


In una gloriosa compagnia samurai che detta legge a Kyoto nella metà del XIX secolo, l’arrivo del giovane omosessuale Kano getta scompiglio, e porta via con sè secoli di glaciale rigore, all’insegna dell’abbandono dei limiti imposti da una cultura chiusa come è stata quella giapponese per così tanto tempo. Una storia dolorosa e moderna, narrata da Oshima a suo modo, con geniali e talvolta ironiche didascalie che immergono i personaggi in un’atmosfera quasi fiabesca. Il settantenne regista giapponese riesce ancora a turbare i nostri animi attraverso una messa in scena apparentemente fredda e composta, ma più emozionale di quanto non sembri. Il montaggio è semplice e lineare, la scenografia minimale, e la colonna sonora di Sakamoto è ottima e sempre puntuale. Tra le cose straordinarie, i duelli (contrapposti ai dialoghi, ma in verità significativi quanto e più di uno scambio verbale per quanto riguarda l’incontro/scontro di mentalità o generazioni differenti) e momenti di poesia e magia rare, attimi di cinema puro: la sequenza finale presso la palude azzurra, con il racconto di Okita, i pensieri di Hijikata (un eccellente Takeshi Kitano) che si fanno visione, la scoperta delle verità su Kano e Tashiro, e infine quel tronco spezzato dalla lama di Kitano, un istante in cui si fondono estetismo e arte. Anche se lontano dalla nostra cultura e dalla nostra mentalità (molto più lontano delle opere di Kitano stesso, per esempio), Gohatto si fa comunque comprendere fino in fondo. E si fa amare. Un bellissimo film costruito sugli sguardi, sui pensieri, sui dettagli. (da www.therosebud.it)


Ecco, ora che l’ho ripulita mi sento molto più soddisfatto, anche se mancano alcune cose, e prima di tutto mancano i giudizi a posteriori risultanti dalla visione di Zatoichi. La semplificazione più becera potrebbe risultare: è meglio Gohatto o Zatoichi (viste le somiglianze, seppur tangenti, che permettono di metterli a confronto)? Conosco troppo bene Kitano e troppo poco Oshima per decidere fermamente.

Halloween (e John Ca…

Halloween (e John Carpenter)


Purtroppo, Decalogo 10 è ancora l’ultimo film che ho visto. Quindi non ho niente su cui scrivere. Tranne che ho visto un pezzo di Romeo + Giulietta di Luhrmann in lingua originale ed è stato molto divertente. Anche in italiano il linguaggio scespiriano-shakespeariano in quel film fa un certo effetto, ma vi posso assicurare che le rime e gli esametri giambici (o sono pentametri? ora mi viene il dubbio…) sono proprio tutta un’altra cosa.


Ceres (grazie!) mi chiedeva consigli su Halloween di Carpenter. Lì per lì mi sono allargato e l’ho definito capolavoro. Forse ho esagerato, ma non di tanto. E’ che ho una tale venerazione per Johnny Carpenter, che a volte mi annebbia la vista. Comunque è uno splendido film di paura, questo sì. Forse la cosa più geniale (al di là dell’altissimo livello tecnico) è l’accenno di soprannaturale, che causa il brivido proprio per la sua quasi totale assenza, per la necessità di dover fare delle implicature sulla natura di Myers, e che spinge lo spettatore ad aver paura solo delle proprie supposizioni.


Colgo l’occasione per fornire una mia molto estemporanea e molto personale Carpenter-classifica (in ordine decrescente, dal più bello al più brutto, anche se purtroppo mi mancano The Fog e Dark Star, abbiate pazienza). Al primo posto, 1997: fuga da New York. Assolutamente. A seguire, alcuni capolavori: Essi vivono, Grosso guaio a Chinatown, Fantasmi da Marte, Il seme della follia, Fuga da Los Angeles, Distretto 13: le brigate della morte. Poi, alcuni gran bei film: Halloween, Vampires, La cosa, Il signore del male. Alcune cose su cui si può anche passare sopra ma degne di attenzione: Christine la macchina infernale, Starman, Avventure di un uomo invisibile. E infine, quell’orrenda schifezza senza dignità che si chiama Il villaggio dei dannati, che considero uno dei più grandi tradimenti della storia del cinema.

[pausa]


Purtroppo sono cinematograficamente fermo, in questi due giorni non ho visto una beneamata cippa, ma domani torno nella mia casina (quella vera, quella con mamma che cucina) e per il weekend mi aspetta la solita abbuffata di dvd… Per oggi, la mia arte si ferma a scattare qualche fotografia ai vecchi decrepiti che occupano Piazza Maggiore e pentirmi di non aver finito di vedere Donnie Brasco ieri notte (ne parlerò tra qualche giorno, quando mi torna la voglia di ricominciarlo…


Beh, direte voi, finalmente kekkoz scrive un post personale e non cinefilo… credo che sarà l’ultimo. Colgo la rarissima occasione per ringraziare la commentatrice anonima. Finalmente ho capito chi è, anche se poteva dirmelo di persona. Vabbè, panta rei.

Decalogo 10


Il mio coraggio nell’affrontare il Decalogo di Kieslowski si è arenato sul primo e sull’ultimo episodio, nonostante la trasmissione dopo Twin Peaks meritasse la visione e potesse persino sembrare piacevole. Il Decalogo 1 mi aveva un po’ turbato, un po’ annoiato, ma soprattutto affascinato, per la prospettiva davvero unica, quella della rilettura laica e fatalista della decalogia biblica. Poi, come detto, mi sono arenato e ne ho saltati otto. Peggio per me, direte voi.


Intanto ieri sera mi sono preso coraggio e, devastato dall’insonnia, mi sono gustato (davvero!) il decimo capitolo/episodio. Geniale. Almeno da un punto di vista tematico e (perché no, pur essendo una semplice e lineare black comedy) filosofico. Tutto acquista un senso diverso (e più profondo) se abbinato al vero decimo comandamento, ma anche astratto dal contesto decaloghiano è davvero una commedia riuscita, feroce e nera, con picchi di crudele sadismo di scrittura da far venire i brividi.