L’ultimo uomo della terra
[Trasmesso da Fuori Orario venerdì scorso, orario indecente]
Dai dimenticatoi del cinema italiano, questo film di quarant’anni suonati sta negli ultimi anni recuperando il tempo perduto grazie alla cinefilia, grazie al culto per la serie B (o anche Z), grazie ai fumetti (Sclavi e Dylan Dog l’hanno omaggiato in uno splendido albo, se non ricordo male il n°66), e grazie, non ultimo, a 28 giorni dopo, che si può considerare una sorta di “cugino di primo grado”, essendo vagamente ispirato allo stesso racconto, I am legend del prolifico Richard Matheson, come anche Occhi bianchi sul pianeta Terra. Ne avevo sentito tanto parlare. Ora l’ho visto. Son soddisfazioni.
Diretto da un certo Ubaldo Ragona nel 1963, precede di ben cinque anni un’opera epocale e fondamentale come La notte dei morti viventi di Romero nello stile, nell’atmosfera, nell’angoscia diffusa, nel senso lucido e disperato del destino apocalittico dell’umanità. Forse con meno coraggio (si sente la necessità di razionalizzare almeno un po’, e lo si fa con un lunghissimo flashback), e forse con meno stile (si capisce che i costi erano davvero contenutissimi): ma è confortante sapere che la visione romeriana che tutti conosciamo (la città deserta, gli zombie – qui vampiri – dondolanti e ringhianti, la tensione crescente, la paura del prossimo) viene da un cervello e da un sistema di produzione tutto italiano (se si escludono alcuni attori), e che l’EUR di Roma, può fare paura quanto la brughiera inglese o una Londra deserta. Basta amare il proprio lavoro, amare il cinema, e crederci. Una lezione per tutti, in questo paese.