marzo 2004

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Le regole dell’attra…

Le regole dell’attrazione


Uno dei piccoli problemi del parlaredicinema: discutere un film o una sua edizione? Un problema sottilmente filologico (e un po’ masturbatorio) che reca non pochi problemi a chi, per esempio, vuole parlare di Rules. Facciamo finta che non l’abbiano tagliato, ignoriamo i titoli ridicoli, e il doppiaggio insolente. Facciamo finta. Altrimenti che dovremmo fare dei Goonies o di Stand by me?


Grand’uomo, Roger Avary: responsabile di uno degli ultimi, veri, b-movie sperimentali americani (a Parigi: Killing Zoe, splendido) e ora capace di prendere una storia già destrutturata e trovare una (de)struttura ad essa adatta. Mostra la coesistenza degli eventi, e quindi l’inesistenza stessa del tempo (grande e unico tema del film) grazie al rewind. Mostra l’inevitabilità del fato, e l’identità tra realtà e immaginazione, grazie allo split-screen (uno dei più belli di sempre).


Con punte di disperata poesia immerse in un ritratto inevitabilmente acido e distaccato di un piccolo mondo che va allo sfacelo, anzi, che non va da nessuna parte. Perché, come si è detto, il tempo non esiste più, non ha più senso parlarne o rappresentarlo, è l’ultima mera illusione di una non-generazione, di una società, incapace di trovarsi-accettarsi-amarsi-l’un l’altro-amare-se stessi-comprendersi-diversificarsi-morire.

L’appartamento


Quando ero alle medie, Billy Wilder era il mio regista preferito. Adoravo Quando la moglie è in vacanza, veneravo Baciami stupido, e soprattutto conoscevo a memoria A qualcuno piace caldo, da sempre uno dei film della mia vita. Nella massa di film di Wilder che vidi a quei tempi, L’appartamento, questo immenso e spietato dramma sulla contemporaneità travestito da commedia brillante, non aveva un posto di rilievo: infatti non lo vedevo da una decina d’anni.


La cosa che più mi colpisce ora, al di là dell’incredibile abilità della sceneggiatura (nessuno a mio parere ha mai raggiunto livelli di scrittura come quelli di Wilder e Diamond), e dell’altrettanto inarrivabile recitazione di Jack Lemmon, Fred MacMurray e della stupenda (ai tempi) Shirley MacLaine, è il modo in cui Wilder usa lo schermo panoramico per sfruttare gli spazi chiusi. Il che sembra un paradosso. Ma, a condizione di avere un supporto visivo che rispetti le proporzioni dello schermo panoramico, basta guardare il modo pittorico con cui sono ritratti l’ufficio illuminato al neon, l’ascensore, gli atri e i corridoi, e l’appartamento stesso, per rendersi conto che niente era lasciato al caso, che ogni cosa era studiata nel minimo dettaglio. Il tutto reso più complicato da una predilezione per il piano-sequenza e per le scelte registiche meno scontate. Il risultato è visivamente ineccepibile, di una perfezione che toglie il fiato.

Tutti gli uomini del…

Tutti gli uomini del presidente


Alan J. Pakula ha diretto uno dei film più brutti che io abbia mai visto: l’inguardabile L’ombra del diavolo.


L’arcinoto All the President’s Men invece merita la sua fama: un avvincente e inquietante parabola politica sul potere e sulle relazioni sociali da esso costrette, interpretato da due personaggi che “sono il loro ruolo” (si presentano sempre nello stesso modo) e incontrano solo gente che dice “no” a qualsiasi richiesta, e persone che hanno una vita privata che a loro è negata. Quest’aspetto da “eroi solitari” è secondo me il più interessante del film. Che però si distingue anche stilisticamente: asciutto, constrastato, implacabile. Merita la sua fama.

Zoolander

Non ho ancora deciso se è la più grossa stronzata che io abbia mai visto oppure se è un film raffinato e intelligente. Comunque sia, a ogni visione mi fa ridere come un imbecille, ed è un ottimo antidoto per la tristezza quotidiana. In un precedente blog (andato in fumo), scrissi queste de righe su Zoolander. Le ripropongo per pigrizia, e la finisco qui.

Eclettico ed egotista, Stiller è gli anni ’90. E’ capace di efferatezze filmiche estreme (solo linguisticamente, e solo nell’ambito del "comedy"), condite dal più fervido degli autoelogi. In più, sembra davvero innamorato di quegli anni ’80 che devasta senza pietà (attraverso la saggia decostruzione delle immagini – costumi/costume – e – soprattutto – della musica). Irresistibilmente trendy proprio per il fatto di non voler esserlo affatto (ma lo è).
(09 marzo 2003)


Lo sciopero mi ha impedito di vedere “Dark Water”. Pazienza, mi sono buttato sul buon vecchio Tim.


Planet of the apes – Il pianeta delle scimmie


Quando uscì, le voci (quasi) unanimi dei burtoniani erano di sdegno e conforto. Voci che di recente si sono ammutolite per lo stupore e la commozione. Vorrei pormi al di fuori di tali voci. Mi rendo conto che a molti suona una bestemmia, perché il film fu considerato come un tradimento hollywoodiano di un autore cinefilicamene europeo. A me, tre anni fa, piacque molto. E ora che l’ho rivisto, so che non mi sbagliavo.


Costruito intorno a una sceneggiatura davvero sopraffina, il film sembra un sci-fi-action basato sul semplice meccanismo del ribaltamenti di ruoli. Invece quello che Burton fa è giocare con il mito dell’aviere militare, con gli schemi (fotografici, scenici, musicali) del blockbuster, per costruire quella che in realtà è una parabola cupa, spaventosa, nonché spaventosamente intelligente, sul rapporto tra tecnologia e violenza.


Qualche caduta di gusto c’è, non si può negare, ma sono cose che fanno parte dei suddetti schemi hollywoodiani in cui Burton si infila senza il minimo scherno, accettandoli. E non si può nemmeno negare che possa essere considerato (ma non per forza) il meno bello tra i film di Burton. Ma la cura nei rapporti tra i personaggi, un senso lucido del melodramma misto a un solenne respiro shakesperiano, l’allucinata, terrificante, perfetta prova-d’attore-senza-attore di Tim Roth, molte idee geniali (come la riflessione sul marchio, che rimanda a reminescenze novecentesche e alla storia della Shoah), e lo schiaffo finale ai nervi e ai neuroni dello spettatore, fanno di Planet of the apes una delle opere più sottovalutate del cinema americano recente.

Monday


Sono molto contento che quello che ho detto (e che ho letto, detto da altri) di Sabu non sia una mera illusione: un grande regista.


Grazie al Lumiére (stavolta il link è doveroso) ho visto quest’altro film di Tanaka “Sabu” Hiroyuki. Persino più bello del successivo e bellissimo Drive (di cui ho scritto lunedì): più complesso, più ispirato, più divertente. Sabu gioca con le regole dei generi con una disinvoltura incredibile, mescolando una comicità quasi demenziale con i canoni del yakuza-movie giapponeze e del poliziesco nordamericano, non limitandosi a una forma postmoderna, ma scavando a fondo nei destini e nei risvolti dei suoi stralunati personaggi.


Più giocosamente sopra-le-righe e meno favolistico di Drive, ne condivide però lo stile, disincantato e ghignante, gli attori-feticcio (come Tsutsumi Shinichi, Susumu Terajima, Ren Osugi e Masanobu Ando nel ruolo del cadavere che diventa una bomba da disinnescare) e i materiali di lavoro: una riflessione sulla repressione degli istinti e sulla violenza innata, diabolica e divina insieme. Tsutsumi Shinichi fa più o meno lo stesso ruolo, quello del salaryman represso e inquadrato spinto al cambiamento dai flussi del caso. Ma in Monday l’irresistibile ottimismo di Drive è realizzabile solo in sogno. Anche se si ride spesso e di gusto.

Secretary


Forse nemmeno una mezza delusione, perché non mi aspettavo né più né meno di ciò che ho visto: niente di che parlare. Una semplice, sicuramente originale ma in qualche modo lineare, variazione sulla storia d’amore tradizionale, sull’incontro d’anime, sulla forma amoris.


Nella prima mezz’ora l’iperrealismo misto a un buon talento registico (forse un po’ ostentato) e un tocco “alla Solondz” (anche se Solondz è molto molto più bravo e pungente di questo Shainberg) rendono l’opera abbastanza piacevole. In seguito si appiattisce clamorosamente, per poi riscattarsi con la lunga sequenza dello “sciopero della fame”. Infine, gli ultimi minuti: irritanti oltre ogni confine.


James Spader è improbabile. Ma Maggie Gyllenhall è bravissima. Anzi, bravissimissima.

Drive


Tanaka Hiroyuki, meglio conosciuto come Sabu, classe 1964, è uno dei più promettenti registi della nuova generazione di cineasti giapponesi. Il che basterebbe a renderlo invisibile in Italia, come Miike o Kurosawa, di cui ho parlato nei giorni scorsi. Ma per qualche strano miracolo celeste, qualche santo ha deciso di distribuire il suo penultimo film Drive nei “normali” circuiti videotecari. Meno male. Perché, ora che l’ho noleggiato e guardato, si prenota per diventare uno dei miei cult-movie.


Asakura è un ometto represso in preda all’emicrania. Tre banditi traditi lo coinvolgono nella loro fuga, e sono il suo riflesso speculare, ma capaci di farsi investire dai loro sogni. Intanto, altrove, il bandito traditore ha un braccio infilato nel buco di un cimitero e diventa preda dei fantasmi di tutti i guerrieri della storia del Giappone.


Un divertentissimo divertissment che varia fluidamente sul tema del caso e del destino, con tocchi da pochade, da ghost-story e da dramma popolare, e che si trasforma pian piano in una favola ottimista sulla realizzazione del sè. Recitato in modo splendido da tutti, con menzione particolare per Susumu Terajima, attore-feticcio di Kitano, qui nel favoloso ruolo del bandito-predicatore.


Una straordinaria capacità di raccontare una storia: questo è un vero regista. Nei prossimi giorni il Lumiére di Bologna proietterà il suo Monday. Non mancherò.

Persona (Kamen Gakue…

Persona (Kamen Gakuen)


nota: si trova in videoteca, è uscito con Dynamic Extreme


Bergman non c’entra nulla. Questo film è di Komatsu Takashi. Ma la psicanalisi c’entra, quella sì. Comunque.


Per lo spunto spunto iniziale, avrebbe potuto essere davvero un gran film. C’è il tema pirandellian-junghiano della maschera, e spunti sull’abbandono dell’io e dell’identità legati alla rinuncia al nome e all’individualità, oltre che un potenziale critico enorme nei confronti della scolarizzazione in Giappone. E si sarebbe potuto costruire un immaginario angosciante intorno a quest’indistinguibilità, che sembra la marca più importante della società contemporanea. Avrebbe potuto.


E invece non è un gran film. E’ una mistery tale raffazzonata e girata con un dilettantismo irritante, montata male e fotografata peggio, che esagera nella prima mezz’ora, buttando nella mischia persino suggestioni soprannaturali che poi non portano da nessuna parte, e che poi si appiattisce miseramente, senza nemmeno aver cura di mantenere tale il mistero.


Quando è spuntato il bel nasone di Chiaki Kuriyama (la Go Go Yubari di Kill Bill, di cui sono velatamente innamorato), speravo in un miglioramento. Peccato.

Charisma


E ho visto anche un film di Kurosawa Kiyoshi. Sono molto soddisfatto.


Aperto da un’incipit poliziesco che introduce il personaggio di Yabuike, il film poi cambia strada e si infila senza tregua in un bosco morente dominato da un albero prezioso immortale che porta la morte nella natura. Il valore dell’individuo contro la massa.


Un viaggio metafisico nella perturbanza del soprannaturale, che tira in ballo temi importanti come quelli già citati, ma anche il rapporto tra uomo e natura, tra luce e buio, il valore dell’opinione e il senso profondo del sogno, in una messa in scena sobria e affascinante, tutta giocata sull’inteso e sull’accennato, con uno stile inarrivabile costruito di lunghissimi e complessi piani-sequenza, che sembrano dover implodere in ogni momento, che lasciano senza fiato per doti tecniche e per la capacità di gestire i contrasti tra gli assolatissimi esterni e gli inquietanti stanzoni di un ex-ospedale psichiatrico.


E infine, il film esplode nell’ultima, angosciante, terribile, apocalittica inquadratura. C’è da rifletterci parecchio. Bellissimo.

Dead or alive


Finalmente sono riuscito a vedere un film di Miike Takashi. Era ora. Non vedo l’ora di vederne un altro.


“One, two three”, e il film esplode in una violenta e concitatissima sequenza montata (e musicata) come un videoclip, in cui si consumano sodomie, omicidi, il tutto immerso nel marasma caotico e frastornante della metropoli. Ma sembra il tempo di un battito di ciglia, e già Miike si reimmette nei canoni diventati ormai, se non tradizionali, almeno noti, dello yakuza movie, con uno stile che rimanda spesso al territorio di Kitano (la fotografia non a caso è di Yamamoto). Camere fisse, piani-sequenza, e un senso spietato e tragico della vita, tratteggiato con cura e intrammezzato da improvvise esplosioni di violenza. Spassose digressioni e efferati sadismi a parte. Un film coerentemente e disperatamente morale, un film che usa il noir per parlare dei rapporti etici e politici tra le persone, rapporti che dopo aver raggiunto la massima complessità, si sgonfiano fino allo scontro a due, fino al western, insomma, fino al finale. Inaspettato, incredibile.


Questo splendido e “stupefacente” finale manga ti costringe a rileggerle DOA da capo, a riconsiderare le sue strutture, i suoi linguaggi. Un finale che trasforma tutta la stilizzazione in eccesso, e la morte in fumetto. Non ho intenzione di raccontarlo.

Le invasioni barbari…

Le invasioni barbariche


Una delle pochissime polemiche (non sono abbastanza celebre per sollevare vespai) di questo blog risale al post su Il declino dell’impero americano dello stesso Arcand, di cui Les invasions barbares è il sequel. Perché, come ho scritto allora, lo trovai davvero brutto: irritante, fastidioso, presuntuoso.


Le invasioni barbariche, invece, mi ha positivamente stupito. Pur non condividendo l’enorme entusiasmo che ha scatenato alla fine dell’anno passato. Entusiasmo forse causato dalla natura critica dei dialoghi socio-politici. Per farla breve, se parli male di tutti fai contenti tutti, e fai anche l’onorevole figura dell’intellettuale distaccato dalle ideologie. Questo però è il livello più superficiale, e che parte del pubblico ha amato. A mio avviso, il film supera di misura il suo predecessore per una questione stilistica da un lato, umana dall’altro.


Prima di tutto, il film, disattendendo le mie pessimistiche previsioni, è diretto magnificamente. La direzione d’attori, che nel declino era racchiusa in un’impianto teatrale scomodo e soffocante, prende qui un respiro veramente corale, che ha riferimenti un po’ ovunque nel cinema “coralistico” (come quello di Altman o di Magnolia, anch’esso tra l’altro alla presenza di un patriarca morente, anzi due). Inoltre, la regia finalmente c’è. Io non amo particolarmente le regie invisibili, ma nemmeno quelle muscolose. Mi piacciono le regie fluttuanti. Come questa.


Secondo, il lato umano. I personaggi sono ancora logorroici, insopportabili, spocchiosi. Ma hanno imparato l’autocritica, e la praticano. Tornano sui loro passi, hanno il coraggio di ammettere gli errori che la loro natura intellettualoide ha portato nella loro vita privata. Il tutto culminante (ma senza enfasi) in un intelligentissimo dialogo sugli -ismi, e sul rapporto che essi hanno con quella che è la realtà (il successivo flashback sull’incontro con una vittima della rivoluzione cinese è il momento forse più bello del film, si sicuro il più interessante).


Detto questo, si può dire che mi sia piaciuto, anche se senza strafare. Forse perché è un film che parla della morte, o meglio che affronta la morte (fin dal primo piano-sequenza nell’ospedale), e nonostante ciò rifugge il patetismo (grazie anche a una certa ellissità e al senso di sospensione portato da quelle improvvise e continue dissolvenze in nero che interrompono l’azione), pur permettendosi un dovuto addio di gruppo che rinconcilia con personaggi che abbiamo imparato ad odiare, e uno struggente e inaspettato afflato cinefilo: il ricordo onanistico di una piccola cinestar iataliana, che chiude il cerchio, che dà la serenità, e che, a suo modo, può persino commuovere. La vera eutanasia di Remy è il cinema stesso.

Il mercenario della …

Il mercenario della morte (Gunslinger)


Gunslinger è uno dei primi film di Corman. Quando di soldi ne aveva davvero pochini, e si vede. Si vede anche la voglia di fare qualcosa di diverso, di ribaltare qualche canone, così, tanto per divertirsi, senza tante pretese linguistiche. Una sorta di proto-postmodernismo.


E allora lo sceriffo è una donna, e si innamora del bandito, e lo uccide senza tanti melodrammi. Interessante oggetto di studio, ma niente di più.


C’era una volta in Messico


Non si può non appoggiare, anche solo per pura simpatia, il cinema di Robert Rodriguez, l’amico fraterno di Tarantino. Un ragazzotto texano che, pur essendo presuntuosetto e tamarro, ha un tale incredibile talento, misto a uno stoicissimo coraggio, da potersi permettere, in tempi in cui il team-work nel cinema americano è all’apice e la figura dell’autore va via via scomparendo, di fare tutto da sè: scrive, dirige, fotografa, monta, monta il sonoro, scrive le musiche. Lo fa per passione: spende il meno possibile, e i soldi che guadagna li re-investe in tecnologie e ne riempie il suo garage-studio, per lavorare sul progetto successivo. Non si può non appoggiare uno stile di lavoro così. Nonostante il film.


La terza parte della trilogia mariachi è infatti la più deludente, e forse è addirittura il peggior film di Rodriguez (esclusi Spy Kids 2 e 3, che mi sono perso: il primo è spassosissimo). Questo perché Rodriguez, mente semplice, lineare, innamorata di un cinema fatto di sfide vis a vis, di esplosioni e di voletti coreografici, perde davvero troppa attenzione a causa dell’eccesso di coralità, dell’epos citazionista, e di una trama fin troppo contorta. I momenti divertenti però ci sono, quasi tutti nella seconda parte, e il culmine è il personaggio di Depp: orbite vuote, look post-dark, e una foglia di Marijuana sulla cintura dei pantaloni. Ma sono dei lampi di genio in un’amalgama mal riuscita e un po’ pasticciata.


Però è bello vedere Rodriguez tornare bambino grazie al digitale. Si sfoga e fa un po’ quello che gli pare, come quando girava El Mariachi con i suoi amici in Super8. Il digitale gli permette di fare un Desperado molto più divertito. Ma molto meno divertente.

Kill bill vol. 1


Rivisto ieri sera, dopo tanti, troppi mesi.


Non ho parole, se non di meraviglia. E non vedo l’ora.

Cabin Fever


“E il fucile?”
“Ah, quello è per i negri”


Cabin fever (che Nico ha tradotto magnificamente in paura da cabina) di Eli Roth è un horroraccio truculento che rubacchia tutte le sue idee dal cinema horroraccio e truculento (ma non solo) degli ultimi quarant’anni. Non che sia male, ma c’è citazionismo e citazionismo.


Qualcosa funziona. Ma credo davvero che sia merito della supervisione di Lynch. O meglio, dell’amicizia che lo lega a Roth, che sembra volerla mostrare in tutti i modi. E così l’unica visione davvero geniale del film, quella del ragazzino seduto sull’altalena che d’improvviso urla “pancakes! pancakes!” e comincia a fare volteggi kung-fu al ralenti, sembra uscita da una delle più inquietanti suggestioni del buon vecchio David. Per non parlare della rappresenzazione del bosco. E del poliziotto imbecille. Ma Lynch ha un interesse e un rispetto per la provincia americana che Roth si sogna, e che probabilmente non gli interessa. Perché Roth vuole solo essere distruttivo. E’ sorprendente che uno che ha lavorato spalla a spalla con Lynch non abbia capito nulla del suo cinema.


Però, l’ho detto, qualcosa funziona. Il disfacimento del corpo della “solita” ragazza-strafiga che, dopo un sano e disperato coito pre-mortem, si rade le gambe togliendosi la pelle, rende davvero l’idea di una società sull’orlo dell’autodistruzione, e la paranoia tutta americana della paura del contagio filtra bene attraverso alcune immagini, alcune suggestioni. Ma il resto è troppo esplicito, troppo telefonato. Le caratterizzazioni di sfondo sono ridicole. I personaggi sono insopportabili e dicono fuck ogni due parole: condannati a morte certa.


E infine, nel bel mezzo di una sana pre-catarsi gore and splatter, che ci vuole, e che diverte, si sente il dovere di fare una replicata del primo Raimi, un pizzico del primo Hooper, e il finale. Che è il primo Romero, pari pari. E senza vergogna.


The Addiction


13 Marzo 2004 - Abel Ferrara arriva sotto il palchetto del Lumiére e dice “non ci piace parlare del film prima di vederlo, ci vediamo dopo”. Il tutto con il suo terribile accento newyorkese, non proprio chiarissimo, e una punta di ubriacatura (alcool? droga?) che rende il suo passo alquanto incerto. E poi, brutto. Brutto come l’orco cattivo delle fiabe. Ma fin qui, lo sapevamo.


Poi il film, The addiction, che è davvero bellissimo. Me ne rendo conto vedendolo in pellicola e in 16:9, e non in quella orrenda VHS in cui lo vidi qualche anno fa. Sicuramente il suo film migliore. Come ho già fatto ieri per Santa Maradona, ricopio pigramente la mia recensione presa dal sito. Recensione di cui sono, per una volta, soddisfatto (anche se ho tagliato una parte…) Sì, sono un pigrone, ma che ci posso fare?


“Una laureanda in filosofia viene vampirizzata: una sequenza bellissima e terrificante, che arriva a pochi secondi dall’inizio del film, scuotendo l’animo dello spettatore e stravolgendo i ritmi usuali del cinema del terrore. La ragazza sperimenta così una sorta di rappresentazione orrorifica delle tematiche metafisiche sul libero arbitrio e sull’ineluttabilità del male, ritrovandosi suo malgrado preda della “dipendenza” (la “addiction” del titolo) dal bisogno di uccidere e di nutrirsi, lasciando però ogni volta alla vittima, con una formula ripetitiva (“Dimmi di andarmene via, ma fallo con convinzione”) la possibilità che è propria dell’uomo di rifiutare il male. “Non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori”. L’uomo è inevitabilmente malvagio, e non può che “disseminare il male nel mondo”. Che in fondo è “solo un cimitero”, e questi vampiri-drogati sono “i corvi che beccano nell’ossario”. La catarsi non è però esclusa, il senso della salvazione portato dalla consapevolezza del proprio male può redimere l’animo umano. La dipendenza è una chiara metafora della tossicodipendenza, viste le citazioni Borroughsiane e il fatto che la protagonista si “nutra” anche per via endovenosa. Ferrara adatta insomma i suoi temi e le sue manie ricorrenti all’horror, con risultati tanto eccessivi, come suo solito, che si fatica ad osservarli con distacco e giudizio. Ma la forza dell’arogomentazione è indiscutibile, e il regista non lascia scampo allo spettatore, costringendolo a un tour de force, sia mentale (la conoscenza sfoggiata da parte dello sceneggiatore Nicholas St. John delle filosofie del novecento spesso rischia l’intellettualismo, anche se nella maggior parte dei casi le citazioni colte sono un’inevitabile raccordo tematico per un discorso metafisico che si sarebbe altrimenti perso per strada), sia fisico (il film è forse l’horror visivamente più radicale dai tempi della trilogia Romeriana degli Zombi, e la sequenza del “pasto di gruppo” alla festa di laurea è violenta in modo quasi insostenibile). Formalmente splendido, governato dalla cinepresa a spalla, e quindi da un senso di caos metropolitano che ben si adatta perfettamente all’ambientazione newyorkese (la favorita di sempre nel cinema di Ferrara), e ben servito dalla meravigliosa fotografia cupa ed espressionista di Ken Kelsch.”


Alla fine del film, attendiamo tutti con ansia l’uscita del signor Ferrara. Che però si intrattiene ben poco con noi, sembra avere molta fretta, forse perché non ha gradito il telefonino di una brutta stronza che si è dimenticata di spegnerlo. Monsieur le director cerca di trattenerlo oltre, ma non c’è verso. Ma ha il tempo per regalarci una chicca. “Qualche domanda?”. Una ragazza-tipicamente-DAMS gli fa una domanda lunghissima e complicatissima. Ferrara, dopo una breve pausa, dice: “Esatto”. Poi, dopo le risate di rito: “Un’ottima interpretazione… ehm… ehm…”. Stancato dalla sua stessa dislessia (e poi non rispondeva mai a una domanda, soprattutto a quelle di Monsieur le director: divagava e basta), conclude: “E’ per quello che facciamo cinema. Perché non siamo capaci di parlarne.” Grazie, Abel.

[nota]


Tra poco più di mezz’ora incontrerò Abel Ferrara al cinema Lumiére. Interessante, non trovate? Ne scriverò domani o lunedì.


Oggi ho scritto 3 post e ieri 2, fatemi il piacere di non farmi trovare commenti solo su questa nota imbecille. Thanks.

Lost in La Mancha


“In 20 years that I’m in this businness, i’ve never seen such a sfiga. “Sfiga” in italian is the opposite of “figa”, that means “pussy”. Sfiga is the negation of pussy.”
(Nicola Pecorini)


Lost in La Mancha non è un capolavoro, ma sicuramente un film da non perdere. Per buona metà semplice making of di un film incompiuto, si trasforma nella seconda parte in una metafora ardente e disperata sullo stato decadente del cinema contemporaneo, sul rapporto tra esigenze produttive e ambizioni artistiche. Da quelle poche immagini che si vedono, si intuisce che The man who killed Don Quijote sarebbe stato un altro capolavoro di Gilliam. Che è il vero Quijote della situazione, un uomo incapace di vedere i problemi reali e pratici, innamorato delle sue visioni e che non accetta che tale indecente realtà possa spegnere i suoi sogni.


Quante ovvietà, vero? L’hanno detto tutti, ed è palese.


Tolto il livello metacinematografico, sicuramente il più importante ma anche il più ovvio, Lost in La Mancha è anche un film sulla sfiga (indimenticabile il micromonologo esplicativo di Pecorini). E non solo: un film sulle maledizioni e sulla superstizione. Un’operetta frustrante e sull’impossibilità di realizzare i propri desideri a causa di quelle definite come Causes of major force oppure semplicemente Acts of God, atti di Dio. Che è lì che se la ride, e ci rimanda a Settembre. Il Don Quijote è l’ultima Babele.


Le avventure del bar…

Le avventure del barone di Munchausen


Come spesso accade nel cinema, uno dei più clamorosi fiaschi della sua storia è un capolavoro. Tra l’altro, riguardandolo oggi, mi rendo conto del filo tesissimo e non tanto sottile che lega il cinema di Terry Gilliam a quello di Tim Burton (Big fish in testa), in particolare per il tema della “fantasia al potere”, e dell’immensa forza dell’immaginazione.


Munchausen è un film barocco, esagerato, fanciullesco (ma mai infantile), che confonde i livelli testuali e di realtà (verità/menzogna, teatro/vita) come un film postmoderno. E allo stesso è un film rigonfio di amore per il cinema in senso primitivo, un cinema che cita Meliés in modo diretto, con il viaggio sulla luna, con i modellini, con la sua narrazione giustapposta e favolistica. Un film da recuperare, nell’attesa che Gilliam ci regali un’altra delle sue magiche illusioni e dei suoi magnifici, cupi o colorati che siano, capolavori. Sperando che gli vada meglio che con il Don Chisciotte.


nota: il re della luna, ovvero Robin Williams, in inglese parla un fortissimo accento italoamericano e mischia la sua lingua alla nostra, con risultati davvero comici. una sorpresa.