The Addiction
13 Marzo 2004 - Abel Ferrara arriva sotto il palchetto del Lumiére e dice “non ci piace parlare del film prima di vederlo, ci vediamo dopo”. Il tutto con il suo terribile accento newyorkese, non proprio chiarissimo, e una punta di ubriacatura (alcool? droga?) che rende il suo passo alquanto incerto. E poi, brutto. Brutto come l’orco cattivo delle fiabe. Ma fin qui, lo sapevamo.
Poi il film, The addiction, che è davvero bellissimo. Me ne rendo conto vedendolo in pellicola e in 16:9, e non in quella orrenda VHS in cui lo vidi qualche anno fa. Sicuramente il suo film migliore. Come ho già fatto ieri per Santa Maradona, ricopio pigramente la mia recensione presa dal sito. Recensione di cui sono, per una volta, soddisfatto (anche se ho tagliato una parte…) Sì, sono un pigrone, ma che ci posso fare?
“Una laureanda in filosofia viene vampirizzata: una sequenza bellissima e terrificante, che arriva a pochi secondi dall’inizio del film, scuotendo l’animo dello spettatore e stravolgendo i ritmi usuali del cinema del terrore. La ragazza sperimenta così una sorta di rappresentazione orrorifica delle tematiche metafisiche sul libero arbitrio e sull’ineluttabilità del male, ritrovandosi suo malgrado preda della “dipendenza” (la “addiction” del titolo) dal bisogno di uccidere e di nutrirsi, lasciando però ogni volta alla vittima, con una formula ripetitiva (“Dimmi di andarmene via, ma fallo con convinzione”) la possibilità che è propria dell’uomo di rifiutare il male. “Non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori”. L’uomo è inevitabilmente malvagio, e non può che “disseminare il male nel mondo”. Che in fondo è “solo un cimitero”, e questi vampiri-drogati sono “i corvi che beccano nell’ossario”. La catarsi non è però esclusa, il senso della salvazione portato dalla consapevolezza del proprio male può redimere l’animo umano. La dipendenza è una chiara metafora della tossicodipendenza, viste le citazioni Borroughsiane e il fatto che la protagonista si “nutra” anche per via endovenosa. Ferrara adatta insomma i suoi temi e le sue manie ricorrenti all’horror, con risultati tanto eccessivi, come suo solito, che si fatica ad osservarli con distacco e giudizio. Ma la forza dell’arogomentazione è indiscutibile, e il regista non lascia scampo allo spettatore, costringendolo a un tour de force, sia mentale (la conoscenza sfoggiata da parte dello sceneggiatore Nicholas St. John delle filosofie del novecento spesso rischia l’intellettualismo, anche se nella maggior parte dei casi le citazioni colte sono un’inevitabile raccordo tematico per un discorso metafisico che si sarebbe altrimenti perso per strada), sia fisico (il film è forse l’horror visivamente più radicale dai tempi della trilogia Romeriana degli Zombi, e la sequenza del “pasto di gruppo” alla festa di laurea è violenta in modo quasi insostenibile). Formalmente splendido, governato dalla cinepresa a spalla, e quindi da un senso di caos metropolitano che ben si adatta perfettamente all’ambientazione newyorkese (la favorita di sempre nel cinema di Ferrara), e ben servito dalla meravigliosa fotografia cupa ed espressionista di Ken Kelsch.”
Alla fine del film, attendiamo tutti con ansia l’uscita del signor Ferrara. Che però si intrattiene ben poco con noi, sembra avere molta fretta, forse perché non ha gradito il telefonino di una brutta stronza che si è dimenticata di spegnerlo. Monsieur le director cerca di trattenerlo oltre, ma non c’è verso. Ma ha il tempo per regalarci una chicca. “Qualche domanda?”. Una ragazza-tipicamente-DAMS gli fa una domanda lunghissima e complicatissima. Ferrara, dopo una breve pausa, dice: “Esatto”. Poi, dopo le risate di rito: “Un’ottima interpretazione… ehm… ehm…”. Stancato dalla sua stessa dislessia (e poi non rispondeva mai a una domanda, soprattutto a quelle di Monsieur le director: divagava e basta), conclude: “E’ per quello che facciamo cinema. Perché non siamo capaci di parlarne.” Grazie, Abel.