aprile 2004

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Fantasmi a Roma


Mi ha davvero entusiasmato, questa divertentissima (ma davvero) “commedia fantastica” di Antonio Pietrangeli sull’urbanizzazione borghese (siamo nel 1960, in pieno boom economico) e sul contrasto tra vecchio e nuovo. [Badate, sto semplificando per brevità, si potrebbe dire molto altro.]


Recitazione sovrumana (Mastronianni, Gassman e De Filippo: cosa chiedere di più?), basata in qualche modo sulla rilettura dei cliché dei singoli protagonisti. La sceneggiatura è veramente suberba (Flaiano e Scola: idem come sopra).


Mi ha fatto venir voglia di recuperare i film di Pietrangeli, regista che purtroppo conosco solo di fama per alcuni film leggendari come Io la conoscevo bene (devo trovare il modo di vederlo, per ora non so come). Sulla linea storica della commedia all’italiana, ma con un tocco di genio in più che si nota ad ogni singola riga di sceneggiatura.

Dopo mezzanotte


Un film sul cinema, sull’amore, sull’amore per il cinema, sul cinema d’amore, sull’amore al cinema, sull’amore e sulla ragione, sulle ragioni dell’amore, sulle ragioni del cinema.


Martino, solitario rinchiuso nella Mole Antonelliana, è convinto di vivere in un film di Buster Keaton, dove “l’amore è tutto botte e capitomboli e si finisce a camminare mano nella mano”. E ama il cinema dei Lumiere, “che mostrava le cose come sono, prima che il cinema diventasse spari e amori fatali”. Ma suo malgrado si ritrova in mezzo ad un amore (a suo modo fatale) e a spari (uno, per esattezza).


Deliziosamente truffautiano (non foss’altro che per Jules et Jim, citato esplicitamente), e quindi delicatamente, leggiadramente cinefilo, innamorato di questa ”invenzione senza futuro” che però “non morirà mai”. Ma soprattutto innamorato dei suoi personaggi (diretti in modo partecipe forse anche grazie al digitale) e della città in cui vivono (Torino), fotografata come non mai, luogo aperto e angusto, freddo e caldo, poetico e senza tempo (come il cinema).


E con la trovata a dir poco geniale di far (letteralmente) dialogare Martino (un bravissimissimo Pasotti) con film di Keaton e con i documenti della Torino dei primi del ’900, toccando vette di poesia che trasudano una ritrovata semplicità (come l’amore [di]mostrato con un montaggio) e accompagnando la storia (“le storie come polvere trascinata dal vento”) dalla voce sobria ed essenziale (didascalica – in senso di didascalia) di Silvio Orlando.


Questo film è scritto talmente bene che non potevo esimermi dalle citazioni.

Robin Hood: un uomo …

Robin Hood: un uomo in calzamaglia


“Unlike other Robin Hoods, I can speak with an english accent”


Spezzo una lancia a favore di Mel Brooks, che, nonostante sia irrimediabilmente invecchiato, è pur sempre un mito della mia infanzia.


Quando vidi questo film, a 12 anni, mi fece piegare dalle risate. Qualche anno dopo, lo trovai (sempre divertente ma) un po’ patetico. A tratti, insomma, imbarazzante. Ora l’ho visto in inglese: un’altro paio di maniche. Giochi di parole, nomi storpiati, contrasto di accenti (inglese/americano), tutte cose che si perdevano nel pessimo doppiaggio italiano.


Tutto qui.

Kill bill vol.2


E finalmente il cerchio si chiude. O meglio, la retta. La retta spezzata, come il corpo martoriato di Uma, giunge alla sua destinazione. Non una freccia, ma un percorso, una via crucis, una recherche. Accettiamo le distinzioni, le divisioni, e diciamo così, hegelianamente: Volume 1 è un grande capolavoro di pop-art. Volume 2 è tutto il cinema che gli sta intorno. Il secondo termine oggettivizza il primo termine, lo supera e lo completa. E’ l’antitesi (quale miglior termine per definirlo?) del primo, ma suggella in realtà in arte le sue qualità.


Volume 2 è anche la linea retta (di cui sopra) che accetta la sua frammentazione: che è scavo, che è dolore, lacrime, gioia, sentimento, commozione. Tutto ciò trasversale alla retta (la linea della vendetta), ma non la esclude. Volume 2 avvolge i personaggi del Volume 1 (con curiosi giochi di rapporto ruolo/personaggio/attore) di un profondo senso di sconforto. E annega i suoi personaggi nelle immense vallate di El Paso, fatte di polvere, serpenti e tombe. Si dimenticano gli splendidi lustrini del Volume 1, quelle cose che sembrano solo cool e appassionano chi ha una visione ristretta del cinema di Tarantino. Prevedo critiche deluse. Idioti.


E poi, Leone Leone e ancora Leone, scontri a due fatti di attese infinite, un colpo, e qualche nota di Morricone. E i vecchi film di Honk Kong (non più il Giappone). E le solite autocitazioni impudiche, ma che lasciano trasparire un senso del tragico (umanista) che era solo di Jackie Brown. Ma non è il retrotesto, il paratesto, l’universo cinefilo che è l’aria di Tarantino (che ormai tutti conosciamo e diamo per scontato), non è quello ad emozionare, ma la capacità di Quentin (possiamo dirlo ora? un genio) di giocare con le linee del racconto spiazzando le aspettative (e gli basta una musica interrotta a metà, o uno sparo improvviso).


Ma non solo. Ha il talento (e il coraggio) immenso di lavorare di fino sulla rabbia d’attesa e sulle lacrime di sfogo, sui sentimenti e sulle passioni (e ci sono quattro ore di film e non tre, per fortuna). Infine, di restituire al cinema anche uno sguardo epico, tragico, sofferente (leoniano, in fondo) che da lui, di sicuro, nessuno si aspettava. Grazie a Dio, perché è una splendida sorpresa. E poi Kill Bill, non dimentichiamolo, è una splendida storia d’amore. Quentin Tarantino ce lo mostra solo ora, nel Volume 2: un amore lacerante e straziante. E una partita che si gioca con le carte tragiche (e inevitabili) della coerenza, del sacrificio e della rinuncia.


Tornando all’ignorante discorso iniziale, hegelianamente, dov’è la sintesi? Mi piace pensare che sia nel fuori campo, in quello sguardo (non più solitario) verso un posto altro, che è (non a caso) uno schermo.

Panic room


Due parole su David Fincher. Cosa penso dei suoi film? Uno dei film più necessari degli anni ’90, uno spartiacque dei generi, un capolavoro di assoluto rigore: Se7en. Un film essenziale, acceso e anarcoide, pur se definito di recente da un mio professore “imbecille” e “irritante”: Fight club. Un gioco circolare e talentuoso, ma vuoto come una bolla di sapone: The game. E l’esordio, l’unico della serie Alien a non essere straordinario: il terzo. Si capisce che la mia opinione su di lui varia a seconda del film. Grazie a Dio, non sono prevenuto.


Perché di Panic room ho sentito parlare sempre tanto male. Non so perché. In fondo è un oggetto di entertainment dignitosamente imperfetto: un thriller claustrofobico abbastanza lineare, ma con una tensione sempre altissima, quasi eccessiva, nevrotica. Certo, lo si può interpretare come un film post-9/11, per la tematica protagonista: la paura dell’invasione, della violazione. Tema che c’è, ma bisogna pensare che la paranoia e la paura dell’intruso sono temi ben radicati nel cinema statunitense. Quindi, gli spunti ci sono (e la sceneggiatura di Koepp li fa venire fuori), ma si può passare oltre e godersi l’ansia (un tantino sadica) che permea il film.


Le cose più interessanti sono comunque tre. Prima di tutto, il gioco degli spazi: una contrapposizione di interno ed esterno che funziona su due livelli, più o meno in questo modo: (dentro/fuori)fuori. Inoltre, uno sguardo originale sulla multisensorialità (rapporti tra vista, udito, olfatto) e sulla loro relazione con la tecnologia (telecamere, microfoni, filtri). Infine, il rapporto sempre stretto tra il cinema di Fincher e il digitale, utilizzato come prolungamento del linguaggio filmico: permette infatti infiniti piani-sequenza che mescolano vero e falso con una certa maestria. Un po’ come lo sguardo filtrato dalle telecamera (e dalla cinepresa?), come un semplice mascheramento. Piaccia o no, questi sono gli sguardi filmici che ci aspettano.

Looney Tunes Back in…

Looney Tunes Back in action


Un’altra di quelle (poche) cose che mi sono perso nell’anno passato. Wonderful, sul serio. Come avevo potuto farmelo scappare?


Joe Dante è un gran regista, e dispiace che sia stato un po’ dimenticato. Il responsabile di capolavori come Salto nel buio o i due Gremlins (entrambi bellissimi), capace di stupire con quell’operetta caustica che è La seconda guerra civile americana, e di dire sempre qualcosa di originale anche in un film (magari minore) come Small soldiers. Poi, Dante è un cinefilo puro, e ama talmente il cinema che non può fare a meno di infarcire le sue opere delle sue passioni (basti pensare a Matinée).


Questo suo procedimento romantico è il motore che anima anche Back in action: divertentissimo film carthuman, gioca su due livelli. Uno è il contrasto cartoni-attori, che mantiene lo spirito originario e un po’ anarchico dei migliori cartoon della Warner e procede dove Zemeckis era rimasto (sempre basandosi sul presupposto che sia scontata l’interazione). L’altro livello è il contrasto cinema-realtà, che permette (con una circolarità geniale e sopraffina, si comincia e si finisce su un set) di riflettere sullo statuto dei generi, ma sovrapponendo a tutto ciò amore per i generi, fantascienza e avventura (ovviamente retrò) prima di tutti.


E oltre a tutto ciò, che funziona alla perfezione, e arriva a sorprendere per quanto è divertente, c’è una sciorinata di idee geniali, che sarebbero davvero centinaia da citare. In cima a tutte, due sequenze: l’area 52, dove Kevin McCarthy si aggira (in bianco e nero) tra gli alieni con tanto di bacello sottobraccio urlando “you’re the next”. E tutta la sequenza di Parigi. Dove tra l’altro si va anche oltre il semplice intrattenimento cinefilo. C’è di sicuro un’idea solida (e non casuale) di rivalutazione dell’arte popolare del cartoon nella scena (meravigliosa) in Bugs e Daffy entrano in quadri di Dalì, Munch e Monet (senza sovvertirli, ma inglobandosi in essi).


Recuperatelo tutti, ne vale la pena.

Non aprite quella po…

Non aprite quella porta (1974)


In periodo di esami, l’onnivorismo e la blogmania vengono meno. Ecco il perché di tre giorni di assenza. Durante i quali ho avuto solo questa visione, se vogliamo un po’ risaputa, ma comunque affascinante. C’è da dire che mi mancava, non l’avevo mai visto.


E’ solo una tradizione falsata o fa veramente paura? La seconda che ho detto. Sarà che l’ho visto al buio, di notte, durante preparazione di un esame, ma quella fuga interminabile fatta di urla femminili e del rumore insistente della motosega, mi ha fatto consumare ferocemente le unghie. Un bell’horror d’altri tempi, costruito (nella prima parte) su lunghissime attese in spazi aperti (che rendono perfettamente l’angoscia della provincia) miste a esplosioni improvvise e incaute, che esplodono poi (nella seconda parte) in un gore davvero radicale, di un sadismo raro. Che strizza.


nota (molti lo sanno già): diffidate dei dvd “Quintopiano”. Che vergogna.

Ventaglio bianco

Quasi del tutto inutile fare un post su Ventaglio Bianco (ovvero The young master, ovvero Shidi Chuma). Mi sembra invece doveroso sottolineare la passione che mi lega al cinema di (e/o con) Jackie Chan. Spesso mi capitano facce incredule quando affermo questa mia personale devozione, ma non posso che amarlo.

Almeno, fino al 1998, fino a Senza nome e senza regole, ultimo scampolo già occidentalizzato del suo genio. Dopo, c’è l’inevitabile major-declino. Prima, c’è First strike, Terremoto nel Bronx e Mr. Nice Guy. E prima ancora, Bambole e botteLa gang degli svitati, Prima missione, e molti altri che non vedrò mai. Ventaglio bianco è una sorta di nocciolo del suo cinema, e infatti contiene alcune delle scene più incredibili da lui mai girate, ed è tra i suoi film migliori, tra quelli che ho visto (forse anche più di Project A o Supercop, i miei preferiti).

Il cinema di Chan è un universo da (ri)scoprire, perché è di un genere "povero" (il cinema popolare di arti marziali non è King Hu), ma fatto con materie primigenie e con una leggerezza irresistibile: kunk fu che diventa slapstick, combattimenti che diventano numeri da musical. Il tutto (salti, botte, acrobazie) sul suo corpo. Ci sarebbero da scrivere decine di trattati sul corpo-cinema di Chan, sul suo giocoso masochismo, sulla sua concezione dell’immedesimazione, del rischio, del corpo volante. In attesa invana di un suo ritorno in gloria, mi diverto malinconicamente con Ventaglio Bianco.

Il siero della vanit…

Il siero della vanità


Il siero è una dissertazione thriller sulla decadenza dell’immaginario culturale contemporaneo, e sul declino della funzione didattica dei mezzi di comunicazioni di massa. Ma forse ho esagerato.


Infascelli comunque, con soggetto di Ammaniti (uno degli scrittori a cui sono più affezionato, e che dà molto più che se stesso in questo plot) decide di prendere di petto il mondo della televisione, nel concreto quella italiana. E lo fa con i mezzi propri della stessa televisione (una quasi-vera fiction poliziesca, con quella grana, quei primi piani, quei ritmi) facendoli però specchiare in una superficie deformante: è quasi un’esemplarità, quasi una teorica, del metodo del grottesco.


Il risultato, in alcune (non poche) delle sue parti, è gratuito, ridicolo, ma soprattutto ingenuo e caricaturale come sono molti dei racconti pulp della bibliografia ammanitiana. In realtà nel suo essere grezzo, eccessivo, ridondante, e appunto grottesco, trasmette il suo messaggio con un’abilità che trascende l’abilità dello spettatore di schivarlo. E ne esce anche un non banale ritratto della “smania di apparenza”, della vanità insomma, di cui il mezzo televisivo è il siero, è il principale catalizzatore.


Forse gioca con meccanismi narrativi semplici, da short-story più che da copione, ma Infascelli possiede un senso visionario acuto (si vedano tutte le scene della prigione) che molti altri registi, non solo italiani, dovrebbero invidiare. Ultima notazione: le musiche di Morgan, definite da ogni parte “carpenteriane”. E’ vero, sono carpenteriane, e sono bellissime.

questo dovrebbe esse…

questo dovrebbe essere il post per La stanza del figlio, ma al momento non so che scrivere, sono troppo trascinato dall’emotività.


lacrimoni.


si richiedono commenti su La Passione di Cristo

Taxi driver


Acceso come le luci di New York di notte, violento ma di una violenza tutta interiore, il più disperato canto sulla solitudine metropolitana, sull’uomo solo e di fronte a se stesso nel caos della città. E un’esamina profonda sugli Stati Uniti del 1975, sulla sindrome postbellica, sul declino del sogno americano. Grandissimo. Dire altro è dire banalità. Comunque, De Niro da brividi. E quel che penso di Scorsese l’ho già detto.


Le fate ignoranti


Mi piace, il piglio di Ozpetek. Mi piace il suo modo di affezionarsi ai personaggi, di dipingerli cercando di superare la superficialità, ma tenendo conto anche del fascino che tale riflesso bidimensionale può avere su una storia. E quindi abbiamo due livelli. Quello profondo, dove si inseriscono le storie di Antonia e Michele, e il livello più “cartonato”, quello della “famiglia” di Michele. E, sorpresa, è questo a coinvolgere, ad appassionare, a commuovere: il tratteggio tenue delle storie dolci e amare di un gruppo di diversi, ognuno a suo modo, e della loro smania di vivere.


Al di là di questa inutile riflessione, un film interessante, a suo modo raffinato, mai grezzo né volgare (ed era un’impresa), recitato in punta di piedi, diretto con una certa grazia, anche se senza l’eleganza e la fluidità della Finestra di fronte.

The one


Un film costruito dichiaratamente come pretesto per un (bel) combattimento di 5 minuti tra due Jet Li. E, come se non bastasse, un film stupido e fracassone, che spreca ogni potenziale buona idea in una realizzazione ridicola. E visto che dura pochissimo ed è strapieno di combattimenti, tutta la spiegazione del plot (che è complessa, per chi non è avvezzo) è concentrata in 3 minuti di dialogo didascalico con Jason Statham (poverino). Neanche il coraggio di evitare, che ne so, la voce che spiega tutto sui titoli di testa, oppure di proporre due Jet Li vestiti uguale (sarebbe stato un interessante esperimento: per chi fare il tifo?).


Davvero irritante.

Gattaca


Gattaca è un film che apprezzo moltissimo, anche ora, alla terza visione. Lo trovo estremamente affascinante nel suo essere “senza tempo”, tra i massimi esempi dello storicismo postmoderno applicato al design e ai costumi. Un prossimo futuro dove tutti sono vestiti come negli anni ’30. 


Molto critico nei confronti dello sviluppo scientifico (ci sono scene tagliate nel dvd da cui emerge una forte posizione naturalista), è a suo modo un film politico. Poi Niccol (impagabile scrittore di Truman Show e del bellissimo S1m0ne, di cui è anche regista) ha una capacità impressionante di riflettere senza fronzoli sullo spazio (vuoto, aperto, spazio di fuga). Un paio di forzature nella sceneggiatura (come il rapporto con il fratello) sono l’unica innegabile pecca di un film elegante e glaciale (ma allo stesso tempo emozionante), con una grande fotografia (di Idziak), e una art direction (della bravissima e riconoscibilissima Sarah Knowles) capace di rileggere edifici, pannelli solari, intere architetture in funzione della storia.

Dark star


Tanto tempo fa ho parlato di John Carpenter. Mi mancava questo Dark star, tesi di laurea trasformata (gonfiata) nel suo primo lungometraggio. Ora mi manca solo The fog…


Un alieno dispettoso e “pallone gonfiato” (letteralmente), un comandante congelato affetto da amnesia, una bomba intelligente confusa dal dubbio cartesiano. E infine, un po’ di surf spaziale. Molteplici gli spunti cult, dalle citazioni kubrickiane al “diario” di Pinback, dai dialoghi surreali alle musichette country e surf dello stesso Carpenter, le scenografie poverissime ma incredibilmente funzionali. E almeno una scena magistrale, quella del vano dell’ascensore, in cui trucchi da cinema primitivo restituiscono un senso terribile d’angoscia e di minaccia: c’è in nuce tutto l’enorme talento di Carpenter. Uno spasso.

La passione di Crist…

La passione di Cristo


Ho pensato a un modo con cui poter parlarne senza ripetere cose già dette. E’ difficile. Quindi, vi avverto, sarò banale. Non condivido comunque gran parte delle polemiche. Anche perché forse The passion non merita tutto questo clamore, perché è un film piuttosto ordinario, con qualche vetta e molti tonfi. Non mi sento di elogiarlo né di condannarlo. Non credo insomma, come ha detto qualcuno, che si debba odiare o amare. Mi trovo in una posizione mediana, di quasi indifferenza, ammirato da alcune cose e profondamente deluso da altre.


The passion è, va detto a sua discolpa, un film estremamente e disperatamente coerente, che porta avanti fino in fondo il suo progetto. Che non è quello di un film evangelico, ma piuttosto di un’opera di massa che riflette sul sacrificio e sull’annullamento del corpo. In questo, lo hanno detto in molti, è un film di Gibson fino nel midollo. Ma non è da disprezzare per questo. The Passion è però un film del tutto privo di un’etica della rappresentazione. I fantasmi di Giuda, il dialogo con Maria, quei maledetti ralenti.


Sono invece apprezzabilissime le vere scelte di Gibson, che sono tre. Quella di mostrare (ne va della suddetta coerenza) il corpo sotto la pelle di Cristo. Quella (geniale, non c’è niente da fare) di mantenere l’aramaico e il latino (provocando effetti comici quando il latino è messo in bocca all’americano Caveziel o al terribile Fabio Sartor). E infine quella di fare un film seppia, in cui i sassi di Matera, l’aria, i volti della gente urlante e lo stesso corpo di cristo condividono lo stesso colore, che è anche il colore che il sangue lascia sul pavimento. Una sorta di colorpneuma.


E gli ebrei? Sono proprio cattivi? Sì, sono proprio cattivi. Non ne faccio una questione religiosa e politica, di integralismo, di istigazione al razzismo. Non mi interessa, e proprio non ci credo. Perché il male in The Passion, grazie al cielo, è il volto androgino di Rosalinda Celentano, che passa tra la gente, e sparge il suo seme nel mondo. Quello che infastidisce è piuttosto l’eccessiva macchiettizzazione dei sacerdoti del tempio (forse penalizzata ulteriormente da una recitazione abbastanza ridicola, nella maggior parte dei casi) e della folla urlante, diretta in modo dilettantesco.


Visto che si tratta di un film “a sequenze” (come ogni passione che si rispetti), cerchiamo di capirci e di semplificare fino al grado-zero: l’inizio nel giardino dei Gethsemany, virato in blu, parte bene con il volto e la voce di Satana, ma viene poi rovinato da orribili scelte di montaggio assolutamente prive di significato. Lo “scaricabarile” tra Erode, Pilato e i Sacerdoti è la parte stilisticamente più interessante, che termina con la celeberrima scena della flagellazione. E’ in questa parte che si concentra tutta la ridicola macchiettizzazione di cui ho parlato, con il popolo ebraico che sembra uscito dalla brutta copia di un Bosch [ripeto, non è una questione politica né religiosa: è una questione di rappresentazione]. Poi c’è la via crucis. Posso dirlo? Noiosissima. E ancora quei maledetti ralenti ovunque. Poi, crocefissione e morte. Questa è la parte migliore, struggente e disperata, e con l’idea (non originale ma ben riuscita) del montaggio parallelo tra la crocefissione e l’ultima cena. Infine, stendiamo un velo di pietà sulla lacrima di Dio (a Brescia direbbero: pattonata) e sull’ultima indecente inquadratura, con la vista attraverso il buco nella mano di Gesù. Come fosse uno scherzo di Zemeckis.


Domanda: ma Erode era davvero così freak? Perché lo rappresentano sempre così freak? Confesso la mia ignoranza in merito.

Mulholland drive


In questi giorni postpasquali privati di cinema ho rivisto (ma stavolta in inglese) Mulholland Drive. Vorrei esimermi dal commentarlo. Comunque capolavoro. Rimando a questa mia vecchia recensione. Buona lettura.


“Bisogna lasciarsi trascinare dal moto associativo di un genio diventato completo, finalmente, nel coraggio totale di abbandonarsi ai propri sogni e alle proprie visioni, con uno sperimentalismo linguistico e iconico che è raro trovare nel cinema americano. Un film che è sogno, che è realtà, e che è (soprattutto) cinema. Con la rappresentazione del set di un film anni’50, colorato e luccicante; con la sua storia para-noir di tradimenti, corruzioni e amori segnati dal destino. Un film diviso in due parti, ma tanto circolare da non risultare mai frammentario; al contrario si sviluppa per associazioni oniriche fino a creare un plot che tanto irrazionale non è (lo sono, semmai, i suoi atomi). Lynch confonde i piani del testo, mescola senza alcun pudore sogno, ricordo e presente, fino a farli coincidere, riempiendo tutte le dimensioni visive dell’opera dei personaggi e degli oggetti che, per quanto tipicamente lynchiani, sono qui finalmente e definitivamente funzionali alla storia, se così vogliamo chiamarla; se non alla storia, all’atmosfera, che è la cosa più importante e più bella di questo film. È forte però il richiamo alle forze irrazionali, alle gerarchie infernali; il diabolico demiurgo (un diavolo, che tutto vede) che abita nel cortile di un fast-food e che sembra sempre muovere le pedine, con l’aiuto del “mysterious man” di turno (il cowboy, che tutto sa) e del “capo” immobile sulla poltrona dietro al vetro (il nano, che tutto può), non fa altro che disperdere lo spettatore e deviarlo dal naturale corso degli eventi. Che è, ad una prima, semplice rilettura, abbastanza chiaro ed esplicito: sogno, flashback, follia, morte, silenzio. Ma di sogno di tratta, o di un patto con il diavolo? La trasmigrazione del corpo di Diane in Betty è pensiero, sogno, o una realtà “altra”, una costruzione parallela dall’ontologia concreta? Ma non sono in fondo domande che appartengono alle sensazioni umane sulla visione, e sul sogno (e sul cinema, sulla sua condizione di realtà)? “Non c’è nessuna banda, è tutto registrato”; non possiamo fare niente per modificare gli eventi. Lynch stesso si trattiene dal dare spiegazioni, e invita lo spettatore a perdersi nei meandri malsani dell’immagine, nei singoli passi di un ritratto crudele e affezionato di un mondo, il mondo del cinema, in cui la dicotomia reale/irreale è normalmente decisa da determinate figure retoriche, ma in cui non dev’essere per forza così: un portacenere a forma di pianoforte ci può dare una dimensione di quello che sta succedendo, ci può impedire di impazzire inghiottiti dall’apparente confusione e dall’assenza delle figure stesse, ma non ci può certo fornire una spiegazione che ci faccia uscire dall’incubo. Che, tra l’altro, non finisce mai, nemmeno con la fine del film. Lasciamoci trasportare, quindi, dal flusso dell’inconscio lynchiano, ma non impediamoci di dare un senso a questa bellissima storia d’amore/orrore e di morte/sogno. Silenzio.”

Then I was inspired,…

Then I was inspired, now I’m sad and tired. After all, I tried for three years seems like…ninty… Why then am scared to finish… …what I started? What you started. I didn’t start it!
God, thy will is hard, but you hold every card! I will drink your cup of poison, nail me to your cross and rape me! Bleed me, beat me, kill me! Take me now….before I change my mind…


(“The Gethsemany song”, Jesus Christ Superstar)


Always look on the bright side of life


(Brian di Narazeth)


Buona pasqua a tutti


Identità


Dopo i primi formidabili 10 minuti ero convinto che fosse un thriller psicologico sul caso. Che segaiolo. Poi mi sono reso conto che non ero stato attento, così mi sono concentrato. Forse mi sono concentrato un po’ troppo, perché ho capito la sorpresona un po’ prima del dovuto. Ma il bello, secondo me, è che ci si arriva, ma poi si ha la conferma piano piano. A suon di indizi. Come un giallo vero. Dà una bella soddisfazione.


Comunque Mangold, davvero un buon mestierante, ti lascia nel dubbio anche se ti capita di aver capito. La tensione è sempre alta, e le scelte rappresentative sono molto apprezzabili. Anche se le regole del genere sono rispettate dalla prima all’ultima, senza eccezioni, sorpresona permettendo. Gli attori sono ok, un po’ nei ranghi dei loro caratteri, ma è tutto giustificato dalla suddetta sorpresona. E si respira un aria molto oldie. Sarà il fantasma di Norman Bates o quello di Agatha Christie?


Il soggetto, non c’è che dire, è di tutto rispetto. Coniato un nuovo genere cinematografico: il thriller psichiatrico. E purtroppo non posso dire nessuna delle 600 cose che ho in testa su questo perché rivelerei la sorpresona di cui sopra, e odio gli spoiler. Pazienza. Merita: promosso.


nota: chi l’ha visto al cinema, non ha visto il finale che c’è nel dvd. che è diverso, diversissimo.

Tokio fist


I film di Tsukamoto Shinya (l’omino bufo nella foto), uno dei massimi cantori dell’epopea della “nuova carne” (vedasi alla voce Cronenberg), l’autore del mitico Tetsuo, una delle più allucinanti esperienze del cinema contemporaneo, possiedono una violenta forza visiva che sovrasta spesso le capacità sopportative dello spettatore, confuso come si trova di fronte al dispiegarsi della violenza, multiforme, sullo schermo.


Tokio Fist comincia come un film sull’intrusione nella privacy (come il bellissimo A snake of june), ma l’illusione dura poco, e nostro malgrado siamo invitati a un banchetto di lividi, sangue e sudore. Con uno stile incredibile e folgorante, come sempre: montaggio e regia serratissimi, quasi da videoclip (ma l’etica sottostante è ben altra), camera a mano per quasi tutto il film, ralenti e accelerazioni, grandangoli e sghembe.


Perché? Per raccontarci lo stato dell’individuo, caotico e confusionale, per riflettere (molto acutamente) sul ruolo della violenza e della prevaricazione nella società, e soprattutto sul ruolo del dolore, fenomenologizzato in ogni sua forma e intensità (inflitto e autoinflitto, fino a picchi di sadomasochismo quasi impensabili). Ma non può mancare una riflessione sulla “nuova carne”, sulla fine del predominio del corpo, sul corpo che rinasce dalle sue ceneri e dai suoi lividi, sul corpo pitturato e maltrattato.


E inoltre, a un livello più superficiale, un ottimo film sulla boxe, e un intensissimo triangolo di amore, amicizia e vendetta. Basta un (bel) po’ di stomaco, e lo amerete.