maggio 2004

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My name is Tanino


metto “in primis” il post su Virzì perché so che tanto i post sui giappofilm li legge solo Teo…


Non posso che riconfermare quanto ho scritto parlando di Caterina va in città (“Ma quanto mi piace Virzì”, tra le righe). E un po’ mi rode, perché un po’ volevo che My name is Tanino, che sapevo essere più grezzo e irrisolto degli altri suoi film, non mi piacesse. E invece sì.


La storia picaresca e rocambolesca del giovane e ignorantello studente di cinema, da Castelluzzo a New York, riesce a divertire ed appassionare con la forza della semplicità, quella ingenuità incarnata da Corrado Fortuna (bravissimo, davvero), una forza di spirito ottimista e irrefrenabile, degna del Candide voltairiano: (come molti personaggi di Virzì, come Piero e Caterina), un’eterna fanciullezza che Virzì protegge come un padre, e che difende con i denti.


E nasce anche la possibilità di vedere due modi di fare cinema così differenti (gli attori nordamericani e la troupe italiana) incontrarsi, scontrarsi e armonizzarsi. Delizioso.

Ichi the killer


E insomma, dopo la visione di Dead or alive e dopo tutto quello che ho letto su di lui, nel mio pacco da Honk Kong poteva mancare un film di Takashi Miike? Ichi the killer è probabilmente il film più conosciuto del giovane e prolificissimo regista giapponese. Che è, diciamolo, completamente fuso nel cervello. Se il bellissimo e folle finale di DOA mi aveva dato questa sensazione, non può che essere confermata dalla visione di Ichi. Ispirato a un fumetto, ma sembra che il manga abbia perso il controllo, e sia uscito fuori rotta.


Ichi è un killer ipnotizzato, introverso ed eroico. Kakihara è uno yakuza biondo con un look improponibile, crudele e feroce, con la faccia tagliata e il sorriso “aperto”. Ichi e Kakihara si cercano per tutto il film come in un gioco di seduzione, perché si compenetrano, come due facce della stessa medaglia: il sadomasochismo. E l’ipnotizzatore di Ichi è Tsukamoto, di cui ho parlato e riparlato, e forse un po’ il suo tocco in certe follie post-cyberpunk (come il costume di Ichi), e nel suddetto tema, c’è.


Ma il resto è tutto frutto della mente geniale di Miike, con il suo stile fiammeggiante e incontrollabile, che parte dal genere (lo yakuza-movie) per portare il cinema fuori da ogni schema, da ogni convenzione, senza paura di ferire lo stomaco dello spettatore: Ichi è (anche) di una violenza inenarrabile (anche se ho l’impressione che la mia versione honkonghese sia tagliuzzata… pazienza… occhiononvedecuorenonduole…).

Kairo


E’ il secondo film di Kurosawa Kiyoshi che vedo (di Charisma ho parlato tempo fa), e sono ancora entusiasta del personalissimo stile di questo eccezionale regista giapponese. Il suo è un cinema decisamente horror, qui con reminiscenze romeriane (la visione finale), ma soprattutto con un occhio a quel “new japanese horror” che lui (con Cure, che cerco disperatamente) e Nakata (con Ringu, di cui ho parlato nel blog appena nato) hanno fatto nascere e visto crescere. Ma c’è qualcosa di più, che scava sotto l’orrore, e che lo distingue da Nakata.


Se Ringu era un film dalle radici sociologiche, Kairo è un horror esistenzialista e metafisico, una ghost-story in piena regola che, attraverso il contrasto tra i cari vecchi fantasmi e la rete di internet (tecnologia e soprannaturale, ma anche razionale e irrazionale) ci parla della solitudine dell’uomo contemporaneo, nonostante la retificazione, e forse a causa di essa. Un film sulla solitudine e sull’assenza, come confermano i bellissimi dialoghi, e il finale, che conferma la vena disperatamente apocalittica e pessimista che avevo visto nel finale di Charisma.


Per gli altri: fa paura. Mi sono proprio cagato in mano.

[giochini da bloggers]


1) Afferra il libro più vicino a te in questo momento;
2) Apri il libro a pagina 23;
3) Trova la quinta frase;
4) Postala nel tuo blog insieme a queste istruzioni.


Ma la voce risuonava remota.





Il miracolo


Sul golfo di Taranto, una storia di malgradita taumaturgia che rivela un intelligente e sensibilissima storia di amicizia, di amore, di religiosità laica. Forse imperfetto, troppo contrassegnato da una messa in scena diseguale, tra punte folgoranti (il bellissimo inizio) e momenti di stanca. Ma con un finale davvero toccante, tra una processione (forse ironicamente) “astratta” e un miracolo, di quelli che accadono davvero, e accadono tutti i giorni.


E poi, il personaggio principale, diretto con maestria e fotografato splendidamente: Taranto, con il suo contrasto tra il blu del mare e l’aridità degli uomini.

Battle Royale


Battle Royale è un incubo manga apocalittico (ma con il vero senso della speranza), con una regia ridondante ma sempre perfettamente rigorosa nel rispetto di una morale profondissima sul presente, e sul ruolo delle istituzioni (scolastiche o militari che siano, non fa più differenza). E oltre a ciò, una sceneggiatura perfetta che riesce a creare dei personaggi tridimensionali anche solo da una didascalia, o da un flashback, con un robustissimo e persino commovente impianto melodrammatico. E con decine di personaggi che cadono come mosche, non era impresa facile.


Bravissimi tutti i (tanti) giovanissimi studenti gettati nelle polveri del massacro. Su Kitano non spreco nemmeno parole: grandissimo. La forza del film è comunque quella dell’incubo: arriva all’improvviso e non se ne esce mai, fino alla fine, fino a quella sorta di catarsi. Un mezzo sberleffo, ma romantico e pieno di speranza.


Insomma, l’ho già scritto ieri nei commenti: splendido.

[Il pacco di Honk Kong]


Vado alle poste, piazza Minghetti, tutto felice e sballonzolante. E’ arrivato.


Il pacco contiene:
- Sympathy for Mr.Vengeance di Park
- Battle Royale di Fukasaku
- Ichi the killer di Takashi Miike
- Kairo di Kurosawa Kiyoshi


Ah! Vi farò sapere (già innamorato dai primi 5 minuti dei primi due della lista…)





Amore a prima svista


sta diventando un blog sui fratelli Farrelly


Tutti a demolire questo film. La critica, dico. Vabbè. Io l’ho trovato proprio carino: sottilmente scorretto (forse non è piaciuto perché è un po’ troppo sottile per i Farrelly), e terribilmente romantico, in senso buono. Mi ha provocato un buonumore che vale senza ombra di dubbio la promozione. Black e la Paltrow se la cavano più che dignitosamente.


Sì, narrativamente è un tantino sterile e forse un po’ troppo edificante, per l’effettiva asciugatura complessiva degli effetti di imbarazzo spettatoriale, ma credo che ci si possa passar sopra.

Christine


Quando ho scritto di Carpenter, ho messo Christine tra le opere di John “su cui si può anche passare sopra ma degni di attenzione”. Confermo la mia tesi. Però, c’è un però.


Nonostante sia troppo radicalmente immerso nell’universo kinghiano (diciamo castlerockiano) e troppo legato ai suoi canoni, e per quanto sia ingenuo, caricaturale, ridondante nelle interpretazioni (insopportabili quasi tutti gli attori) e trattenuto nel tratteggio caratteriale, questo film ha una forza cinefila non indifferente, che fuoriesce dal confronto letteralmente diretto tra anni ’50 (la macchina), ’70 (la storia) e ’80 (il film), con lampi di nostalgia per i generi “poveri” (nel drive-in viene proiettato un film blaxpoitation…) e forse per il cormanismo.


Comunque è girato splendidamente, l’inizio e il finale sono da antologia. Dopo tutto, è pur sempre Carpenter.

Il buono, il brutto e il cattivo


“Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava.”


Ritmo di cannoni, e balletto di tombe. Che altro dire? Il resto, a voi.

La ragazza con la pistola


Un paio di ore libere, in attesa. La cineteca di Bologna (la mia seconda casa, tra visioni e lezioni) ha queste belle comode postazioni tv con un’archivio video da far spavento. Cosa cerco? Come ho già detto, cerco Io la conoscevo bene, di Pietrangeli. Non c’è. Mannaggia. Allora cerco La ragazza con la valigia, di Zurlini. C’è. Bene. Ma poi il mio sguardo si butta sul titolo precedente, cioè La ragazza con la pistola, di Monicelli. Mi sovviene l’errore dell’altro giorno. Sì, ho voglia, in fondo anche questo mi manca.


Dopo questa vagonata-di-cazzi-miei… C’è bisogno di dire che è bellissimo, che la Vitti era ancora una grande attrice (prima di diventarmi indigesta), che Monicelli era ancora un grande regista (prima di invecchiare irrimediabilmente)? C’è bisogno? Credo di no.


Comunque, La ragazza è divertentissimo (mi sono scompisciato mentre quelli delle postazioni accanto mi guardavano male), ma è anche un maturo racconto di formazione sui classici conflitti natura/cultura e tradizione/progresso, che attraverso il gioco di contrasti tra la Swingin’ London (magari un pelo più ingenua che in Antonioni) già in declino, e la secca rappresentazione della cultura siciliana, ci parla del mondo che cambiava e che continua a cambiare, tra vendette, svolte e ripicche. Con punte di visionarietà improvvise (i sogni, splendidamente sopra le righe), e con una visione della vita piena di humor e di sottile cattiveria che, chissà come, non vuole proprio saperne di invecchiare.

[cannes?]


Io tifavo per Wong al buio, ha vinto Moore. Buon per lui. Sempre al buio, mi fido.


[Più che fidarsi, al buio, non si può. Giudicare o lamentarsi, al buio, è paradossale]


Mi permetto di essere molto lieto (al buio) per Maggie Cheung e per Park Chan-Wook. Non si butta via un Gran Prix!

Che ho fatto io per meritare questo?


Un Almodovar minore, pre-formalista. Il coraggio di essere surrealista e basta. Pezzi da scandalo e pezzi scandalosi. Carmen Maura, perfetta. Recuperabile, ma non da collezione. Grezzissimo ma da sganasciarsi.


Voglia di postare, zero. Saluti e baci.

Bianca


E’ difficile per me dire quale sia il più bel film di Nanni Moretti, ci sono almeno tre titoli che sgomitano, ma sono sinceramente tentato di attribuire tale palma a Bianca. Perché è il film dove il morettismo, già facilmente identificabile dopo soli tre film, trova le sue prime complicazioni narrative e psicologiche, e dove Nanni scopre i meccanismi di genere (per poi parzialmente dimenticarli), grazie a Petraglia, e mostra per la prima volta un certo sottile formalismo.


Bianca è un film straordinario, necessario da recuperare per i morettiani di seconda mano. Robusto nonostante le divagazioni critiche, e con una triste tragicità insita nel feticismo ossessivo, nella nevrosi convulsa ed (apparentemente) implosiva del suo personaggio. Mai gratuito, o stucchevole come sa essere a tratti il regista romano, ma diretto ad un fine preciso, straziante (seppur immerso nel suo ghigno satirico) e implacabile. Bello bello bello.

Le ragazze di San Frediano


Visto ieri sera all’Officinema nell’ambito di una rassegna favolosa (“Era il ’54″) che mi sto perdendo purtroppo quasi in toto.


Zurlini è un altro regista, come Pietrangeli, che mi ha sempre incuriosito, e di cui progetto di vedere ormai da tempo La ragazza con la pistola. Con questo suo esordio, Zurlini si immerge nella periferia fiorentina di Pratolini, sbiancando le forti tensioni sessuali del libro (che mi sono fatto inevitabilmente raccontare) facendo sua però una messa in scena fresca e moderna, con uno sguardo sul presente più cattivo di quanto sembri, e che non solo non è affatto invecchiato, ma che è utile tutt’ora (storicamente e sociologicamente) per comprendere gli anni ’50 italiani e i rapporti interpersonali allora vigenti.


Senza lampi di genio, ma con un discreto risultato visivo, una buona sceneggiatura (Benvenuti-e-De-Bernardi, mica pizza-e-fichi) e soprattutto con un gruppo di attori strabilianti (Cifariello in testa) che purtroppo la nostra generazione ha dimenticato oppure mai scoperto.

Evolutin


lo so, la faccina fa schifo, pazienza


Insomma, cosa succede? Succede, insomma, che Reitman rifà Ghostbusters. C’è il ghostbuster nero, quello professionale, quello che fa il coglione (anche se i ruoli si incrociano sono sempre gli stessi), c’è la tipa di turno, c’è il superfantasma finale, c’è l’ostilità delle autorità e il riconoscimento finale, e c’è Aykroyd (che potrebbe stare a casa e fare una dieta). Non più fantasmi, perché la fissa degli anni ’80 è sparita per far posto alle paranoie chriscarteriane e i giochini nostalgici di Emmerich, Sonnenfeld e Burton. Quindi, alieni.


Buttare via un’idea così carina (che tira in ballo anche la concezione del tempo, non solo quella dell’evoluzione in senso scientifico) non è da tutti. Eppure, questo film è una cazzata micidiale, e non posso salvarlo neanche per la scelta, molto trasha ma calcolata e incoerente con la confezione spettacolare, di usare l’ano come leit-motiv.


E poi, il finale. Io sono veramente scandalizzato. Altro che product placement… Ma scherziamo? Se è questa l’evoluzione che ci attende, dobbiamo aspettarci una bella estinzione del cinema stesso…

Regalo di natale


Non amo particolarmente il cinema di Avati, ma ho voglia di vedere La rivincita di natale e così ho fatto in modo di recuperare il suo antecedente. Tutto qui.


Regalo di natale è in fondo un film degli anni ’80 sugli anni ’80. Frammentandola in quattro volti e quattro voci, ci parla dell’Italia di quegli anni, e della perdita dell’innocenza di un intero paese (quei flashback onirici mostrano un passato quasi sognato) che si riflette poi nella disgregazione dei rapporti umani. Non da poco l’intenzione di Avati di tracciare il profilo di una generazione di falliti, tentato dal patetismo ma sfiorandolo appena, e frenandolo col cinismo, con la nostalgia (l’unica salvezza concessa ai personaggi) e con un finale di rara cattiveria.


Abatantuono è straordinario, Haber è insopportabile, Delle Piane è Delle Piane.


Il falò delle vanità


I detrattori del mio adorato Brian De Palma amano ripetere, in poche parole, che è tutto fumo e niente arrosto. Probabilmente fanno finta di ignorare questo sottovalutatissimo film, dove, con l’aiuto della caustica sceneggiatura di Micheal Cristofer (da Tom Wolfe), gli anni ’80 appena conclusi vengono messi a processo, o meglio al rogo, e mostrati nel loro stato di massimo autocannibalismo.


Insomma, una cupissima parabola sulla decadenza della morale occidentale e sul valore della verità. Altro che virtuosismi gratuiti. Ovviamente, De Palma è se stesso, e quindi la forma prende a tratti il sopravvento, ma se è l’occasione di vedere quello strafamoso (e splendido) piano-sequenza iniziale (e molto altro), ben venga.

Kingpin


- Il tuo destino è rotondo, ha tre buchi, e ci infili la mano dentro…
- Lascia fuori Rebecca da tutto questo!
- …parlavo del bowling!


Dieci giorni fa ho scritto sui fratelli Farrelly: “devo recuperare quello che mi manca (ma soprattutto Kingpin – dove lo trovo?)”. L’ho trovato, ed era lì che aspettava me, in Sala Borsa.


Una storia (in qualche modo) edificante sul tema classico (e tutto americano) della rivalsa e del riscatto, scritta con una certa grazia e senza badare troppo agli stereotipi narrativi, con una rappresentazione del mondo del bowling che anticipa qualcosa (ma c’entra assai poco) del Lewbowski coeniano. Si distingue dalla massa soprattutto grazie al tocco dei Farrelly, che, come ho già scritto, riescono ad assemblare la spazzatura e la morale, in apparenza senza cognizione di causa, ma in realtà con un progetto preciso.


Film minore (e non scritto dai Farrelly, ma sicuramente molto condizionato dalle loro mani), ma comunque piacevole, e che si fa ricordare soprattutto per scene come quella del vomito (fantastica) o le solite scorrettezze sui freak e sulla cattiveria mista a nostalgia nei confronti della provincia americana, ma si fa apprezzare per la sensibilità sottesa alla demenzialità. La band nei titoli di coda sono gli immensi Blues Traveler (spero di non essere il solo a conoscerli).



East is east


Ma invece di parlare di questo film, o di Kill Bill vol. 1, rivisto ieri sera per la quarta volta, ma stavolta finalmente in inglese (ormai è una droga)…


… invece dico altro. E cioè, sono due giorni che Splinder mi impedisce di rispondere a questa misteriosa Laura (chi sei, su…). Pare comunque che abbia molto tempo libero: imparare bene un blog per poi esplodere in una critica sistematica non è cosa da tutti.


Ma questa è una battuta. Come direbbe eMI, non voglio “farmi il sangue cattivo”. Porgo l’altra guancia, crisco. Spero comunque che i (pochi ma apprezzati) complimenti ricevuti in questi mesi di bloggaggio non siano tutte ipocrisie. E spero tanto che l’opinione di Laura non sia, con il massimo rispetto che le porto, condivisa da tutti i (pochi ma apprezzati) lettori.


Ah, e il film? Mh, niente male, senza esagerazioni, ma meglio di quanto credessi. E comunque nettamente migliore del suo epigono calcistico. E lietamente commovente. Non muoio dalla voglia di postare oggi, si capisce. Saluti a tutti, Laura inclusa.