giugno 2004

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[chi sono io]


Un misto tra un hobbit e Kurt Cobain.


Fonte (grazie Ale)


[attese estive]


Domani, 6 mesi di blog.
Tra otto giorni, il mare.


Il 9 luglio esce The Call di Takashi Miike (buono ma ammorbidito, pare)
Stesso giorno, Tube di Baek Woon-Hak (carino ma non eccezionale, pare – ma c’è Bae Du-na)
Il 23 luglio, Natural city di Byung-chun Min (proprio una merda, pare – ma tutto è relativo)
Il 30 luglio, Eloge de l’amour di Jean-Luc Godard (beh, pare sia famoso questo Godard, eheh)





Alphaville
(Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville)


Godard prende un prodotto popolare (i film di Bernard Borderie) e lo usa per i suoi scopi, gioca con il prodotto culturale di massa, utilizza gli stilemi del sottogenere destrutturando la materia stessa di cui sono fatti, riempe lo schemo di citazioni letterarie (Orwell in testa, anche qui un newspeak) e cinematografiche, rilegge i linguaggi stessi del cinema sovraesponendoli al suo stesso attacco anarchico.


[nota: non vi ricorda un certo Quentin tutto ciò? banalità...]


Ma riuscendo, come per miracolo, ad essere anche struggente (le poesie di Eluard, le luci nella scena d’amore tra la Karina e Costantine) mostrando un futuro dove le parole vietate sono “coscienza”, “perché?”, e “amore”, ma che è in realtà (e sulla pellicola) la stessa Parigi del 1965.


Questo procedimento pop, in funzione di un ragionamento sul futuro attraverso la messa in campo di una distopia fantascientifica, si propone già (ante litteram!) come opposto al successivo procedimento di Truffaut su Bradbury (se n’è parlato). A voi decidere chi fosse il migliore (ma non è necessario).


Pickpocket


Finalmente mi sono deciso a vedere un film di Robert Bresson, eh? Dipende tutto dalla mia antica e superata antipatia per il cinema francese. Ma ne ho già parlato. Questo post dovrebbe scriverlo lui.


“Non credi a niente?”
“Ho creduto in Dio, per tre minuti”.


Un film fatto di ellissi e di dettagli. Una parabola morale sulla morale, sulla coscienza, sull’etica. Non è da tutti. E una storia d’amore inaudita e improvvisa. Un film profondissimo e come sospeso nella ricerca del senso della vita.


L’inizio a Longchamp e la scena delle rapine alla stazione di Lyon sono assolutamente perfette, e fanno venire i brividi per quanto sono moderne.



Frailty


Ciao, sono Bill Paxton, sono un attore mediocre, però ho fatto il feticcio del mio amico James Cameron un po’ qua e un po’ là e tutti si sono stupiti di come ho lavorato bene per Sam Raimi. Mi fate dirigere un film? Però non voglio fare un film normale, fuck, sono nato a Fort Worth, Texas, cazzo, voglio raccontare il maledetto e strafuttutissimo fanatismo religioso del southwest. E poi ho letto un sacco di roba Stephen King e c’è questa sceneggiatura di un tizio di Dallas, Texas che fa venire i brividi. Poi ci metto McConaughey che è l’attore incapace per eccellenza però è di Uvalde, Texas. E Powers Boothe, che è tutto una dentiera, ma è di Snyder, Texas…


We don’t kill people, we destroy demons.


Scherzi a parte… Si è parlato stranamente parecchio di questo film, ci mette un po’ a macinare, ma è già un piccolo cult. In effetti lascia davvero a bocca aperta, ma non ho ancora deciso se il mio fosse stupore o sconcerto. Dalla sua parte ha il fatto di essere talmente scombiccherato e assurdo da essere stimolante, e soprattutto di essere un prodotto (per l’idea del soggetto e per il ritmo che la trascina) assolutamente anomalo e fuori tempo massimo. Il che è molto positivo.


Di contro, pecca per regia, per recitazione. E la sceneggiatura (abile nel mescolare gli statuti del flashback, tra visione e racconto) fa un lavoro strano e un po’ discutibile sulle tematiche. Infatti, girando intorno al dubbio sull’effettiva “verità” delle visioni del padre, e rivoltando le carte un paio di volte, lascia trasparire alla fine una visione del mondo che, invece di distaccarsi dall’integralismo giustizialista metaforizzato dalla “mano di dio”, ci si immerge lasciando abbastanza sconcertati. Il che non dev’essere per forza negativo (almeno è coraggioso), però spaventa un po’.

Una storia americana


Capturing the Friedmans è un bellissimo documentario americano (in circolazione adesso, se correte forse…). Ed un’esperienza disturbante. Ma non per il tema (la pedofilia).


Il motivo principale è lo statuto di realtà: dei Friedmans dovremmo in teoria sapere tutto, ma in realtà non sappiamo niente. Vediamo le interviste recenti dei familiari, i filmati dei processi, le testimonianze degli esperti. Ma non solo: i Friedman avevano una passione smodata per l’home-video, erano una famiglia cresciuta a pane e videocamere. E in qualunque momento, anche durante le crisi più violente, e nei giorni in cui ogni speranza era perduta, c’era una telecamera accesa.


Abbiamo tutto, vediamo tutto. Tre generazioni di filmini. Eppure, alla fine, non sappiamo se Andrew avesse davvero molestato i bambini, non sappiamo del coinvolgimento del figlio Jesse (che lui ovviamente nega). Non sappiamo niente, nemmeno a cos’abbiamo assistito.


Un film sulla costruzione del falso a causa della paranoia collettiva? Oppure un film sulle ombre che si nascondono dietro le community americane (alto)borghesi? Forse entrambe le cose, o forse solo un trattato sull’impossibilità di raccontare, un documentario che nega la sua stessa natura dichiarandosi inerte di fronte al dubbio. Geniale.

Eva contro Eva


Un’altro film che mi ero sempre perso (nonostante l’avessi studiato in Deleuze… vergogna, eh?).


Merita la sua fama. Un film straordinario, forse tra le migliori sceneggiature mai scritte (mettendo da parte i maestri italiani e I.L.Diamond), e una manciata di interpretazioni incredibili: Bette Davis, rauca e insicura, in testa a tutti, ma George Sanders con il suo carisma riesce a rubarle la scena.


Un modello fisso per quanto riguarda la struttura a flashback, un perfetto apologo morale sulla menzogna sociale (sulla necessità sociale di mentire), e una disamina lucida e cinica sulla società contemporanea, gerarchica e competitiva.


Che altro devo dire?

L’avventura


Posso dire una cosa? Non è che Antonioni mi faccia proprio impazzire… qualcuno si offende? Forse non lo conosco abbastanza bene per giudicarlo (e qui potrei lanciarmi un anatema anche da solo), ma ho l’impressione che sia un autore sopravvalutato. Ma forse lo è anche Fellini… esagero?


L’avventura è un caposaldo e un pilastro essenziale del cinema italiano. Il suo merito principale, e geniale, è quello di applicare al glaciale vuoto relazionale della borghesia una descrizione altrettanto fredda e distaccata, rilasciando sentimenti con parsimonia (forse solo nell’alba sullo scoglio di Liscabianca), giocando tutto sui silenzi, sui toni grigi e sui dubbi, e creando una sensazione diffusa di sospensione che è entrata nella leggenda. Sospensione dei sensi, del senso della vita, ma anche del tempo: il contrasto tra la sicilia post-bellica e la nascita della nuova borghesia.


Sono abbastanza conscio della sua importanza, e riconosco la sua grandezza. Forse non mi basta per non farmelo sembrare irrimediabilmente invecchiato (splendido restauro Mediaset a parte).

La messa è finita


Don Giulio non vuole sentire, vuole coprire quelle voci che gli dicono che lui lì è inutile, che il suo compito, quella della chiesa, della messa, è finita, perché non ha più parlare di una morale collettiva (ecclesiastica, per definizione) ma solo individuale. Giulio è un prete, ma soprattutto un uomo, un uomo che soffre per il mondo che gli cade intorno, che ama e che disprezza, che ha paura, che assiste al suicidio della madre senza possibilità di fornire il riscatto e il perdono del suo ruolo sociale. Don Giulio è anche lo stesso Moretti, che osserva e giudica, con un senso morale agghiacciante e già incredibilmente maturo.


Per la mia personale e soggettiva esperienza, non è il miglior film di Moretti. Ma è sicuramente quello scritto meglio (da lui e Petraglia), e più commovente (almeno fino alla Stanza del figlio). Pieno di brividi, lascia addosso un senso amaro di inquietudine.

[col(l)era]


Splinder sta diventando insopportabile: impossibile accedere alla homepage se non cambiando “www” in “edit”.


Lo stesso per i commenti: impossibile commentare né leggerli se non cambiando “www” in “edit”. Ed è una bella menata.


Grazie, splinder.

La giuria


“Gentlemen, trials are too important to be left to juries.”


Nel genere del thriller c’è un sotto-genere, il legal-thriller. Il mio legal preferito è Codice d’onore di Reiner (tratto da Sorkin), acuta riflessione sulla morale civile e sull’etica militare. Nel sotto-genere del legal-thriller c’è un sotto-sotto-genere, il Grisham-movie. Qui le cose si fanno complicate: se il migliore è di sicuro Il socio di Pollack, asciutto e paranoide, e se c’era del buono (e non poco) nell’Uomo della pioggia di Coppola, il resto è un disastro. Pakula, Foley, addirittura due Schumacher: salvateci!


Per questo sorprende che a riportare aria fresca nelle aule di tribunale sia Gary Fleder, registucolo mediocre e derivativo (basta pensare alle tarantinate di Cosa fare a Denver quando sei morto o alle fincherate del Collezionista), che invece a sorpresa prende il libro di Grisham e lo trasferisce coerentemente in un ferocissimo atto d’accusa nei confronti di almeno due capisaldi della democrazia americana: il celeberrimo secondo emendamento (quello delle armi, per intenderci) e il sistema giudiziario su base popolare. Non errato di concetto, ma troppo facilmente condizionabile da forze esterne e oscure. E ben pagate.


L’interesse è in ogni caso l’entertainment, e si vede: e infatti il film è ritmato, divertente, appassionanto, forse un tantino ridondante e pompato (ma è un difetto comune del cinema mainstream, no?), ma con una struttura a puzzle costruita con perizia (ci si sono messi in quattro). I personaggi sono ben tratteggiati, anche se la battaglia principale è manicheista: Hoffman è idealista fino al midollo, Hackman è un figlio di puttana. Tra i due mostri (di bravura, ovviamente), Cusack se la cava comunque bene come al solito. La Weisz è un gran pezzo di attrice. Ci siamo capiti.


Comunque, nonostante si tratti di un film di intrattenimento, ogni occasione per discutere su temi scottanti relativi alla democrazia (le lobby delle armi, del tabacco e del petrolio, per esempio, oppure la pena di morte) è una buona occasione e meritevole di lode. Ce ne fossero.

Hana-Bi


Teo mi ha detto che se parlo di Takeshi Kitano imbecco il suo spirito critico e mi devo aspettare suoi commenti. Beh Teo, ora ne voglio uno straordinario, degno di un film straordinario.


Io dirò solo: probabilmente il capolavoro di Kitano. Anche se, l’ho già detto, è una bella lotta. Uno struggente, straziante viaggio nel limen tra fiori e fuoco, tra vita e morte. Comunque, uno dei più grandi e imprescindibili film degli ultimi 20 anni. Perfetto.


Passo palla.

[colazione da tiffany e pranzo da babette]


Se avete 5 minuti, dopo aver letto il post su Ladykillers qui sotto  andate a leggervi questa genialata di Brekane (via Marquant).

Ladykillers


Non sono qui a gridare al miracolo, nè a condannare ingiustamente: Ladykillers è un bel film com’è vero che siamo fuori dagli Europei 2004. Certo, ci sono dei distinguo, ma io non amo particolarmente parlare di un film in modo relativo: un film può anche avere un suo valore intrinseco, slegato dal paratesto filmografico degli autori.


Ladykillers è quindi un film da vedere, perché è piacevole, ineccepibile (beh, sono pur sempre i Coen…), mostruosamente intelligente, pieno di spunti che spuntano dalla trama come fuochi d’artificio. Parte in quarta, con il dialogo nella stazione di polizia e soprattutto la presentazione dei membri dell’ensemble, si ammoscia un po’ nella parte centrale ma senza annoiare mai nemmeno un minuto (nonostante la scatologia diffusa) per poi innalzarsi nel bellissimo, nerissimo e sarcastico finale. Tutto qui. Leggerino, certo, ma divertentissimo.


Qui potrei aprire una parentesi dicendo che il criticatissimo Intolerable Cruelty aveva le stesse qualità. Lì c’era la screwball comedy americana di Hawks, qui c’è la black comedy inglese di MacKendrick. Per il resto l’operazione è simile, e meritano entrambe un applauso sincero, anche se quieto e senza l’entusiasmo del capolavoro.

Manhunter


C’è qualcuno che pensa che Micheal Mann sia il più grande regista vivente. Pur non essendo d’accordo con quest’ipotesi, chino il capo e mi prostro: Mann è uno dei più grandi e importanti registi in attività (sbavo per l’atteso Collateral).


Manhunter è un serial thriller, già affascinante comunque sulla carta, trasformato in un grandissimo saggio di cinema. Formalista fino all’orgasmo estetico. Fotografato su contrasti di colori (il verde, l’arancione, il blu, in uno dei migliori quadri iperrealisti di Dante Spinotti). Diretto in modo perfetto, quasi patologico, eppure sbilanciato e sofferto. E sotto (o sopra), il ritratto, di una profondità sconvolgente, di due uomini diversi che cercano la loro strada.


Postilla sui “Lecter movies”.
Red dragon l’ho evitato, Hannibal è una merda. Il silenzio degli innocenti è un film che adoro, ma al momento non saprei davvero scegliere tra i due. Probabilmente preferisco la regia in Mann e le atmosfere in Demme. O forse Noonan di qua e Hopkins di là, anche perché qui Lektor è una presenta più contingente. Bella lotta, comunque. Forse scegliere è di per sé una cosa stupida. Meglio goderseli entrambi. Due modelli inarrivabili.


Getting any?


Quel che penso di Takeshi Kitano lo si può evincere dalla colonnina di destra, nella sezione “i miei guru“. Eheh.


Getting any è un oggetto delirante e demenziale, geniale e folle a livelli più che montypythoneschi, che sembra uscire dai canoni del cinema di Kitano. Ma ci rientra, in realtà, e di forza: con la lunga parte yakuza, e con la parodia metacinematografica della cineserie “Zatoichi”: quasi una preveggenza, più che una previsione.


Certo, i suoi capolavori sono altrove (Hana-Bi, Sonatine, Violent Cop, Dolls, Kikujiro, e non solo, mio dio che uomo meraviglioso), però è sempre divertente, e si riesce a capire bene che anche nella demenza pura (come nel finale sci-fi lo-fi postcronenberghiano) il genio affiora, e si vede affiorare.

[Imola, ieri]


Ci sono due cose di cui, in particolare, non mi sento di parlare, per una sensazione di ignoranza che mi coglie sovente: di musica e di sport. Oggi farò due eccezioni


Eccezione 1
Dunque, ieri, Imola, Aguzzini Jammin’ Festival. Starsailor: pensavo peggio, niente male. PJ Harvey: affascinante, bravissima, perfetta. Pixies: hanno davvero spaccato il culo a tutti gli altri. Mamma mia. Ben Harper: si è un po’ ammosciato sul finale (e sulle canzonacce dell’ultimo album), ma ha regalato. Cure: vabbè, a me i Cure non piacciono, ma è una questione di gusti. Obiettivamente bravi.


Eccezione 2
L’Italia 2004 è una squadraccia.



Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera


E come se non bastasse il titolo italiano, mi diverto e posto quello originale: Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom.  Intuisco che Bom voglia dire Primavera. Che bello il coreano, eh?


Purtroppo, per la scarsa (diciamo nulla) distribuzione che i titoli coreani hanno in Italia, non avevo mai visto nessun film di Kim Ki-Duk, né Isle, né Bad guy, e via dicendo. Sapevo che questo era diverso, ma forse è una fortuna non aver visto altro per ora, perché ho potuto apprezzarlo per quel che è, e non relativamente. Il mio consiglio personale (e discutibile, ma non sono il solo a pensarla così) è: diffidate di chi ne parla male.


Dunque, bellissimo. Voglio esser banale: un viaggio calmo ma appassionante nelle stagioni della vita, mai rappacificato né sereno, ma con un invidiabile sguardo al futuro, e un senso dello scorrere del tempo che affascina e sconcerta, e che (nonostante le mie dubbie previsioni) non annoia. Stagione per stagione, dunque, il peccato e l’espiazione, l’abbandono e il ritorno, la vita e la morte.


Quattro stagioni, quattro sequenze. Primavera. Forse la sequenza meno significativa, ma in realtà funzionale ed essenziale per lo sviluppo narrativo a posteriori. Estate. La mia preferita, in assoluto: l’amore come scoperta della solitudine e del dolore. Autunno. Forse la più interessante, la più forte, la più contrastata e dolorosa: l’espiazione inevitabile, e il mondo esterno che non può interferire con essa. Inverno. Esteticamente splendida, fatta di corpi e silenzi, della riconquista dello spazio da parte del corpo, e dello sguardo negato di una madre. I colori esplodono nel bianco della neve e del ghiaccio, e si tirano le somme di tutta una vita, di tutte le stagioni.


E poi, ancora Primavera.

Viaggio allucinante


Oggi splinder fa le bizze. Voglio scappare. Comunque oggi ho fatto un esame. E chi se ne frega. 


L’altro giorno per rilassarmi mi sono guardato questo Fantastic Voyage. Gli amanti del genere mi uccideranno, ma l’ho trovatto noiosetto e didascalico. Certo, le visioni del viaggio sono veramente deliranti, quasi lisergiche nella loro presunta scientificità (proclamata nei titoli di testa), com’è irresistibile il clima da guerra fredda già trattato con una certa ironia, però non posso dire di essermi divertito granché.


Altra mezza bestemmia? Meglio il remake di Joe Dante, cult della mia adolescenza. Mi è venuta voglia di rivederlo. Allora è servito a qualcosa, in fondo.


Poltergeist


Five
Yes
I don’t know
I don’t know


Quand’ero (più) giovane, non ero un estimatore di Poltergeist. L’avevo visto un paio di volte, registrato male (ah! telemontecarlo!) e non mi faceva paura. Com’è possibile? E’ bellissimo! Rivisto ieri, in dvd, in widescreen, in inglese. Un’altra cosa. E, avendolo rimosso in gran parte, ho avuto qualche brivido, lo ammetto.


Spielberghiano fino al midollo (l’irrazionale nel quotidiano), ma un tantino più scorretto (i genitori che si fanno le canne e che dicono shit ogni due parole), con la sapiente regia di Hooper (un tempo ne era capace, e qui era davvero capace) e un numero di livelli di lettura che vanno comunque a confluire in una critica diretta nei confronti della società americana: l’abusivismo delle nuove small town, il capitalismo che non tiene conto dei valori della terra, la civiltà dei consumi


E dulcis in fundo l’amata e odiata televisione: niente di meno che un mezzo di trasporto per entità malefiche, messa infine al bando dalla casa. Se il film inizia con l’inno americano (…), seguito da una tv senza segnale, e poi dal terrore, ci sarà un buon motivo, no?




[Imola, Sabato]


So che saremo in tanti.
Ci sarò anch’io.