Le armonie di Werckmeister
Mi scuso con gli estimatori di Béla Tarr, perché credo di non avere le parole adatte.
Werckmeister è un’opera affascinante, impalbabile, la storia di un caos fertilizzato dalla fine delle trascendenze (di Dio, degli universali, delle armonie di Werckmeister) e fatto emergere ed esplodere nel mondo dall’epifania dell’irrazionalità. Un luogo senza tempo, pieno di facce senza volto, in cui il candido János si muove in buona fede, ignorando che in un mondo impazzito non ci si può fidare di nessuno.
Se qualcosa difetta è magari la smania ossessiva del simbolismo ricercato: ma mi aspettavo un film decisamente più ostico, più duro da digerire. Invece la sua incredibile bellezza figurativa permette, con lo spirito giusto, di entrarci dentro fino nell’anima.
Il bianco e nero a 12 mani è infatti splendidamente suggestivo. Ma la cosa su cui voglio soffermarmi è la regia. Non credo di aver mai visto usare in questo modo i piani-sequenza: uno dietro l’altro, e uno più impressionante, tecnicamente perfetto, dell’altro. Per lo più se si considera che tale figura, che non può non rappresentare il controllo del set da parte del regista, serve per rappresentare una discesa nel caos. Si rimane impressionati dalla tecnica, stregati dalla fluidità, ipnotizzati dal contrasto.