giugno 2004

You are browsing the site archives by month.

Le armonie di Werckmeister


Mi scuso con gli estimatori di Béla Tarr, perché credo di non avere le parole adatte.


Werckmeister è un’opera affascinante, impalbabile, la storia di un caos fertilizzato dalla fine delle trascendenze (di Dio, degli universali, delle armonie di Werckmeister) e fatto emergere ed esplodere nel mondo dall’epifania dell’irrazionalità. Un luogo senza tempo, pieno di facce senza volto, in cui il candido János si muove in buona fede, ignorando che in un mondo impazzito non ci si può fidare di nessuno.


Se qualcosa difetta è magari la smania ossessiva del simbolismo ricercato: ma mi aspettavo un film decisamente più ostico, più duro da digerire. Invece la sua incredibile bellezza figurativa permette, con lo spirito giusto, di entrarci dentro fino nell’anima.


Il bianco e nero a 12 mani è infatti splendidamente suggestivo. Ma la cosa su cui voglio soffermarmi è la regia. Non credo di aver mai visto usare in questo modo i piani-sequenza: uno dietro l’altro, e uno più impressionante, tecnicamente perfetto, dell’altro. Per lo più se si considera che tale figura, che non può non rappresentare il controllo del set da parte del regista, serve per rappresentare una discesa nel caos. Si rimane impressionati dalla tecnica, stregati dalla fluidità, ipnotizzati dal contrasto.

Hong Kong Express

Inutile sbattersi, visto che nel mio sito abbandonato giace una (pessima) recensione per questo splendido film. Cut and paste, come nella migliore tradizione. Epurate le minchiate.

Tony Leung parla agli oggetti della sua casa: "quando un uomo piange gli puoi dare un fazzoletto, quando una casa piange c’è da faticare". Brigitte Lin è nascosta da occhiali da sole e impermeabile: quando esci "non sai se pioverà o ci sarà il sole". Faye Wong sogna la California dei Mamas and Papas: solo perché è "un posto dove c’è sempre il sole". Takeshi Kaneshiro divora scatole e scatole di ananas quasi scadute: esisterà "qualcosa che non abbia una data di scadenza"? Spera comunque che "la memoria di lei scada tra diecimila anni".

Tra nouvelle vague e iperrealismo, tra step-framing e camera a spalla, tra lirismo e improvvisazione, nasce un piccolo capolavoro sospeso tra il sogno della realtà e lo stupore del quotidiano. Dai percorsi già percorsi dagli "stili" e dai "generi", Wong estrae la sua nuova idea di cinema, postmoderno ma profondo ed essenziale.

Un’opera sinfonica in due parti che racconta la solitudine immersa nel caos, la cecità della mancanza immersa nelle tempeste percettive di una Honk Konh fatta di specchi deformanti, luci gialle e nuvole. Imperdibile.

Aggiungo: Faye Wong è straordinaria, da amore a prima vista.

[tre note]


DO…po mesi di giuste lamentele, è cambiato il layout. Credo che si noti. Qualche consiglio per migliorarlo? Problemi di visione? Vi prego di farmelo presente (soprattutto gli utenti di Mozilla)!


RE…gistrati nel weekend, mi aspettano, Le armonie di Werckmeister di Bela Tarr (iniziato: bellissimo) e Honk Kong Express di Wong (già visto: bellissimo).


MI… raccomando, Se non l’avete già fatto, comprate il libro di Gas… (…pare Caliri)

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban


Premessa: non sono un lettore della saga della Rowling (perché tecnicamente non sono un lettore). Il mio giudizio si astiene da un impossibile confronto con il libro (bellissimo, pare).


The philosopher’s stone è a mio avviso uno dei migliori prodotti per ragazzi degli ultimi anni, divertente, fantasioso, con uno spirito al suo interno che mancava in questo macro-genere da molti anni. The chamber of secrets invece scontava il difetto di essere un racconto per iniziati, elittico e poco comprensibile ai più, e indeciso sulla strada (luminosa, dark, horror) da prendere.


Ora, lo dicono da ogni parte, e non posso che confermarlo: The prisoner of Azkaban è (quasi) senza ombra di dubbio il migliore dei tre. Sembra banale, ma è inevitabile. La ragione? Probabilmente è nella storia, che smette di percorrere il sentiero orizzontale dell’infanzia e si inerpica, in modo inevitabilmente verticale, sui percorsi dell’adolescenza. L’intreccio ha una forza tale che, per chi come me è ignorante in “potterismo”, può persino confondere le idee (come nella delirante sequenza delle rivelazioni nella torre).


Tematicamente è stabile e coerente: The prisoner of Azkaban è un film sulla paura. Non dico altro.


Ci sono altre ragioni. Per quanto mi riguarda, la sensazione più palpabile di meraviglia mi è stata donata dal giratempo, che applicato al cinema crea bellissimi e fantasmatici paradossi. Se non sapete cosa sia, non ve lo dico: vi rovinerebbe il finale (o meglio, i finali). Per non parlare delle interpretazioni degli adulti, con in testa un perfetto Gary Oldman.


Tra i meriti (è quello più importante, e quello che i più hanno sottolineato), c’è l’inclinazione gotica e dark scelta da Cuaron: talentuoso mestierante, non c’è che dire. Quell’inclinazione Columbus l’aveva lasciata decisamente in secondo piano. E così nel mondo del maghetto (meno insopportabile del solito) non c’è più un momento di pace: le stagioni dettate da un albero malefico, l’inganno necessario per godere delle meraviglie della magia, i viaggi (il pulman, davvero burtoniano, e il treno) irrimediabilmente rovinati dall’angoscia e dal pericolo, e persino la tradizionale partita di Quidditch è segnata dal temporale, fulmini e pioggia, la violenza della natura e della morte.


E sopra a tutto, l’incombenza del tradimento, della voglia di vendetta e di omicidio (l’infanzia finsice davvero qui), e dei terribili Dissennatori. Se, come ho già detto, The prisoner è un film sulla paura, è ovvio che faccia anche un po’ paura, no?


Fatto il misfatto.

[un libro]



Titolo: A metà
Autore: Gaspare Caliri
Editore: L’autore Libri Firenze
Collana: Biblioteca 80. Narratori
Anno: 2004


Gaspare Caliri, oltre ad essere uno dei più acuti e talentuosi narratori contemporanei, è anche uno dei miei più cari amici, e “A metà” è un racconto straordinario.


Avete due possibilità:
1. andare in libreria e ordinare la vostra copia di “A Metà”.
2. più semplice, comprare “A metà” su Internet: questo è il link.


Su, che è sabato. Fatelo. Adesso.







Il tempo dei lupi


L’abbiamo aspettato un po’ troppo, poi è arrivato, ma non se ne è accorto nessuno. Abbiamo già dimenticato Haneke?


Si comincia con un’intrusione nel privato, nell’intimo, tema caro ad Haneke (Funny Games…). Ma poi, con la consueta fredda imprevedibilità (un colpo di fucile atteso e inatteso) ci troviamo catapultati in ben altro. Una dimensione pre-apocalittica, molto mitteleuropea perché basata su assunti hobbesiani, in cui si mostra una piccola umanità divorata (dall’alto ma soprattutto reciprocamente) dalla fine della società civile.


Un elemento del film che può (non necessariamente) irritare è il suo essere volutamente tronco, il suo essere senza capo né coda, come solo fosse una finestra su questa “fine del mondo”, un breve spaccato, un assunto esplicato e poi abbandonato lì, aperto alla nostra interpretazione. La presa di posizione sull’assenza di una strategia classica è comunque coraggiosa e assolutamente difendibile, ma forse nasconde una certa debolezza nell’impianto narrativo strutturale. Ciò nonostante, il finale-non-finale è bellissimo.


Non infastidisce invece l’assenza di una spiegazione razionale: il film crea angoscia e spinge alla riflessione sul presente, secondo un metodo ben oliato, proprio perché non ci dà delle coordinate (si parla di “città” e di “fuori dalla città”), nemmeno temporali (è come sospeso in un presente da incubo), e accenna solo i caratteri dei personaggi nei loro occhi, o sulle loro spalle disperate.


Forse imperfetto e minore, ma glaciale, sempre implacabile, e a tratti davvero straordinario.

Apri gli occhi


Era impossibile comprare il dvd e non immergersi dentro Abre los ojos al più presto. Confermo l’entusiasmo della prima visione.


Sembra impossibile anche, da queste parti, non parlare del confronto con il remake. Ora, il mio disprezzo per il film di Crowe è in effetti posticcio: che, do ragione a Lillo, non è così orrendo. Ma mentre le cose buone (o ottime) di Vanilla Sky vengono pari pari da Apri gli occhi, la questione sulla rappresentazione, sullo scarto tra gli statuti di realtà, nel film americano è terribilmente banalizzata. Vanilla Sky sembra una fotocopia cocainomane del film di Amenabar.


Che, invece, è proprio bellissimo. Tra l’altro, è l’unico (o uno dei pochi) film che sanno riflettere linguisticamente sul sogno, ma tenendo sempre fissi gli obiettivi narrativi (coerentissimi e originalissimi, seppur di derivazione dickiana – e ne so qualcosa) e lasciando tutto lo spazio che merita a temi come l’apparenza sociale, l’ossessione amorosa, riuscendo a dare, allo stesso tempo, un saggio di cinema (e un vero esempio per il cinema popolare europeo) senza rinunciare a una poeticità diffusa e malinconica.

Che ora è laggiù


Il cinema di Tsai Ming-Liang non corrisponde, per qualità formali e per l’idea di cinema che lo muove dall’interno, ai miei ideali. Ma non posso non apprezzare l’apporto estetico sotteso a questa fissità imperterrita e sottilmente ironica, e riconosco che il discorso sulla solitudine ne esce fuori con una notevole forza.


Questo film, è da dire, mi è piaciuto meno di The Hole dello stesso Tsai, che era illuminato da quelle fantasmatiche (pur se posticce) finestre musical che attutivano la malinconia apocalittica dell’assunto narrativo.


Però anche Che ora è laggiù è mosso da un’idea metanarrativa davvero profonda: il tempo, l’incomunicabilità, la solitudine, non sono distanze incolmabili finché c’è il cinema. E’ sguardo immerso nello schermo l’unica salvezza concessa, è il cinema che può unisce Parigi e Taipei nel tempo minimo di un fotogramma, grazie al viso invecchiato e bambino di Jean-Pierre Leaud.

Sympathy for mr.Vengeance


Per chi non lo sapesse, questo film (famosissimo un po’ ovunque, tranne ovviamente da noi) è dello stesso regista di “Old Boy”, vincitore del Gran Prix della Giuria a Cannes 2004.


Un film dal respiro dolente, morbosamente soppesato tra la “simpatia” (donata e poi negata ai personaggi) e il rigore distaccato, doloroso come un coltello infilato nel cuore (e i respiri della morte sul buio del nero dei titoli), inevitabile (gioco del fato e del caso) fino all’estremo, e di una crudeltà che è lo specchio di un’anima sofferente, e che mette (spesso) i brividi. Ma anche con uno sguardo, a tratti ironico ma più spesso consapevolmente di genere, di una maturità sconvolgente.


Rifiuto qualsiasi accusa di orientofilia. Questo è grande cinema.

Il buio nella mente (La cérémonie)


Fino a non molto tempo fa, avevo una discreta avversione (ormai quasi del tutto superata) per il cinema francese. Lo so, è vergognoso. Comunque sia, è un universo per me ancora in gran parte sconosciuto. Lo dimostra il fatto che questo è il primo film di Chabrol che vedo…


Film di sapientissima e rigorosa tenuta tensiva, straboccante di simboli e metonimie, che gioca con i ruoli di vittima e carnefice, che aspetta il momento (giusto) per esplodere, e poi lo fa senza lasciare una sola macchia di ridondanza, asciugando il sangue con la freddezza (a sua volta) di un assassino, lasciando l’ultimo sorriso al contrappasso crudele del fato.


Niente male davvero. La Huppert e Bonnaire, ma che lo dico a fare, sono strabilianti.

Il grande Lebowski


“Fuck it, Dude, Let’s go bowling”


Forse sarebbe meglio sfatare un mito: i Coen hanno forse fatto di meglio, e The big Lebowski forse è un film sopravvalutato. Detto questo…


…che è comunque un discorso inutile, perché i Coen sono due grandissimi cineasti, ed il loro cinema è sempre bello da rivedere e riscoprire. L’immersione di un “uomo tranquillo” in una specie di caos marlowiano in cui succede di tutto ma in realtà non succede niente, e come in una palla da bowling (che fa sempre strike e torna indietro), così si torna alla quiete iniziale da cui la tempesta è scaturita, consci che c’è un modo diverso (e forse quello giusto) di affrontare la vita. Anche in un mondo che sembra uscito dai binari: giocatori di bowling pedofili e feticisti, killer nichilisti, performance-artist ninfomani. “Tranquillizza sapere che c’è uno come il Drugo in giro”.


Nota: la versione originale ha la sua ragioni per essere preferita, ed è la recitazione degli attori. Tutti perfetti. Soprattutto Bridges con la sua parlata rimbambita e Julianne Moore, perfetta, inarrivabile.

[Taken #1: Al di là del cielo]


“Everyone knows not to stare into the sun. It’s something your mother tells you when you’re a kid. “Don’t look at the sun or you’ll go blind.” But sometimes you want to understand something so badly that you’ll risk going blind for just a glimpse of what it all might be about.”


Ho una difficoltà notevole a seguire le serie tv, negli ultimi anni. Credo che questa la seguirò, se non altro per la curiosità che mi suscita la rilettura (nostalgica, almeno in questo primo bell’episodio di Hooper) dell’immaginario “alienato” del cinema americano.


Le bellissime “parti narranti” sono la vera forza poetica della serie. Quindi me le sono andate a cercare. Non sono ancora tutte, ma sono qui. Cerco di rendermi utile…

[game pause]


Causa ospiti (graditi) in casa, il mio onnivorismo si ferma almeno fino a sabato (forse). Intanto ho comprato in edicola due imperdibili dvd (Oasis e Apri gli occhi) e vi posto questo bellissimo testo, con particolare attenzione ai grassetti. Così, per variare.


Con una rosa hai detto vienimi a cercare, tutta la sera io resterò da sola, ed io per te muoio per te, con una rosa sono venuto a te


bianca come le nuvole di lontano, come una notte amara passata invano, come la schiuma che sopra il mare spuma, bianca non è la rosa che porto a te


gialla come la febbre che mi consuma, come il liquore che strega le parole, come il veleno che stilla dal tuo seno, gialla non è la rosa che porto a te


sospirano le rose nell’aria spirano, petalo a petalo mostrano il color, ma il fiore che da solo cresce nel rovo, rosso non è l’amore, bianco non è il dolore, il fiore solo è il dono che porto a te


rosa come un romanzo di poca cosa, come la resa che affiora sopra al viso, come l’attesa che sulle labbra pesa, rosa non è la rosa che porto a te


come la porpora che infiamma il mattino, come la lama che scalda il tuo cuscino, come la spina che al cuore si avvicina, rossa così è la rosa che porto a te


lacrime di cristallo l’hanno bagnata, lacrime e vino versate nel cammino, goccia su goccia, perdute nella pioggia, goccia su goccia le hanno asciugato il cuor


portami allora portami il più bel fiore, quello che duri più dell’amor per sé, il fiore che da solo non specchia il rovo, perfetto dal dolore, perfetto dal suo cuore, perfetto dal dono che fa di sè


Vinicio Capossela


Troy


C’è un momento in cui questa schifezza sembra riprendersi. E’ una sequenza, o meglio tre unite una all’altra, che però purtroppo non servono a salvare Troy dall’abisso, ma anzi mettono ancora più in luce le sue lacune: dalla morte di Patroclo ai funerali di Ettore. La storia la sapete. In questi pochi salvabili minuti si sente il respiro epico che Petersen e compagnia bella non hanno colto, la dimostrazione che la cultura classica può uscire da un prodotto simile solo di rado, e solo (sembra) per casuali intuizioni.


Ed è un peccato. Perché la battaglia che si ferma sgomenta alla morte del giovane Patroclo, l’inquietante e bellissima presenza del pelìde urlante sotto le mura della città, il duello tra i due protagonisti (bellissimo proprio perché impari), il dialogo commovente tra il perfetto Priamo di O’Toole e quell’indecente primate di Brad Pitt (e ve lo dico io, che l’ho visto in inglese…), perché tutto ciò insomma è vibrante, sensazionale. E’ tutto come l’avevo sempre immaginato, più o meno. Ma mostra in modo ciò che Troy sarebbe potuto essere, ma non è, proprio non è.


Il resto è più o meno da buttare, con la solita mania tutta nordamericana di ridurre i personaggi e di appiattire i loro caratteri a semplici categorie (razionale/irrazionale, buono/cattivo), il solito schema della caduta e del riscatto (che riguarda incredibilmente tutti, persino quel cretino di Paride), con la guerra di Troia ridotta a un massacretto laico che dura qualche settimana. E va bene, c’è la consapevolezza di fare un prodotto popolare, ma in realtà senza divertire neanche troppo. Se non altro, nei picchi trash c’è da ridere, e ce n’è da vendere.


Per quanto riguarda le ridicole incongruenze, passo la mano a Misato (posso?) e alle sue sette domande post-visione.