agosto 2004

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Killing words


Il cinema spagnolo ha senza dubbio delle carte da giocare, ma non si può dire che mi faccia impazzire. Se escludiamo il mio adorato Amenabar e quel geniale folletto di Pedro. Gusti personali.


Il fatto che il film fosse pubblicizzato come l’ultimo prodotto della cricca di Darkness mi faceva temere per il peggio. E invece no, Palabras encatenadas tiene il tempo fino alla fine. Senza entusiasmo, sarebbe esagerato. Ma basta e avanza, per un thriller, in fondo, ordinario: insomma, una piacevole sorpresa. Laura Manà, attrice al suo esordio da regista (discretamente portata), fa sentire il feminine touch ma non lo fa pesare, disseminando nel film elementi tanto misantropi quanto misogini.


Un gran lavoro di scenografia (splendida, davvero, e incredibilmente funzionale alla trama), e una buona sceneggiatura, che sa sorprendere (non sempre, ma abbastanza) e usa artifici psicanalitici (come le parole incatenate, sorta di versione giocosa e perversa dell’associazione di idee) con almeno un minimo di competenza. Quanto basta.

Coffee and cigarettes


“Groundhog Day, Ghostbustin’ mutha-fucka’ Bill Murray!”


Non mi vogliate a male, ma trovo il cinema di Jarmusch (per quel che conosco) abbastanza irritante. Forse mi passerà. Questo non mi impedisce di apprezzare quel che di buono c’è, e in questo bizzarro collage trascinato per quasi vent’anni dal cult director neworkese, c’è decisamente qualcosa di buono, e forse qualcosa di più.


Irresistibili i capitoli “storici” (Benigni e Wright, i due figli di Spike Lee, Iggy Pop e Tom Waits). Straordinaria la doppia Cate Blanchett, e geniale Murray caffeinomane (reprise del terzo capitolo: ma qui ci sono i Wu-Tang). I pochi rimanenti sono un po’ stucchevoli e a volte persino noiosetti, anche se gli White Stripes regalano un po’ di sano nonsense (e qui torna, cresciuto, il giovane Cinqué Lee), e ci si innalza decisamente con l’episodio finale, quello con Bill Rice e Taylor Mead, bellissimo.


Merita, non fosse altro che per il coraggio di mostrare senza falsi conformismi le difficoltà di comunicazione, le piccole ipocrisie del successo, gli imbarazzi e i momenti morti, e per saper parlare con una tale sincerità dei piccoli vizi che in fondo rendono la vita degna di essere vissuta. Leggero leggero, fatto di parole lievi e forse inutili. Ma deliziosamente scorretto.

Two sisters


Sono molto soddisfatto quando le mie aspettative vengono rispettate. E in pieno. Perché Tale of two sisters è proprio un bel film. Spiazza le aspettative di chiunque, a costo e a rischio di deluderle. Come spesso accade, il trailer trae in inganno: è vero, fa paura, a tratti, ma non è nell’orrore e nello spavento il fascino innegabile di questo film, ma piuttosto nella costruzione melodrammatica ed estetica.


Curatissimo nella forma, dalla fotografia alla splendida regia di Kim Ji-woon, e proprio per questo tacciato (da qualcuno, non da tutti, e non certo da me) di eccessivo formalismo, il film trova una sua strada per parlare della solitudine e del senso di colpa, una strada senza dubbio minimalista e molto ambiziosa, ma che mostra di poter piacere anche a palati più istintivi (gli spaventi sono comunque orchestrati in modo esemplare), nonostante il ritmo sia volutamente rallentato (tratto meno anomalo di quanto si creda).


E possiede una capacità di stupire attraverso l’uso sapiente del linguaggio cinematografico, citando poco (come quando sembra Ring ma in realtà non lo è) e lavorando sui dettagli, sugli sguardi, persino sugli interni e sui vestiti, senza tuttavia perdere un briciolo di coerenza della sceneggiatura. E con una struttura tanto incasinata, era un impresa notevole.


Purtroppo non si può dire di più, perchè ogni elemento è indizio del malinconico e bellissimo flashback finale. Quello che ne esce è il maturo e affascinante ritratto di una mente perduta tra i corridoi di una casa, e dei suoi sogni e dei suoi incubi. Questo (ed è un buon inizio) è il cinema coreano che vorremmo vedere.

Un film parlato


“I Cristiani e i Musulmani si facevano la guerra.”
“Mamma, se la fanno ancora?”
“No, no. Era il medioevo.”


De Oliveira, alla veneranda età di novantacinque anni, sa perfettamente cosa vuole dire, e sa come dirlo. Sa anche che può permettersi di mettere 4 persone a un tavolo e farle parlare per 20 minuti in quattro lingue diverse (almeno una decina senza stacchi). Ci mancherebbe altro. Un film parlato è comunque un’opera di grandissima intelligenza, e di acutezza sopraffina. Che poi si possa o no parlare propriamente di “cinema” in questo caso, è un altro discorso.


Il film è più teorico che cinematico, l’interesse di Oliveira è fare un’altissima, preziosissima lezione sulla cultura europea, sulle sue origini, sul suo presente declino e sul suo minaccioso futuro, sulla convivenza dei popoli, sulla guerra e sulla Storia, accennando una sorta di sogno utopico matriarcale. Ma a farla da padrona sulla scena è la babele linguistica europea, perché il film (idea strabiliante, perfetta) è parlato in molte lingue: è questo, dichiaratamente, fin dal titolo, il perno centrale del discorso, il rapporto tra lingua e cultura.


Il cinema insomma non c’è, c’è il mondo che si muove intorno e le parole che danzano nel vento del mediterraneo e nella stanza chiusa della nave che lo attraversa. Il cinema arriva nel finale, improvviso e inaspettato, che può facilmente irritare (non ha irritato me), ma è l’unico modo per mostrare qual è l’idea dell’autore sul presente prossimo (siamo a pochi mesi dal 9/11) e quale sia il futuro di questa umanità, e di questo frammentato (forse morto) continente.



Impossibile fare finta di niente.


Addio, Enzo

Ebbro di donne e di pittura


Im Kwon-taek, grande vecchio del cinema coreano (un centinaio di film alle sue spalle – da noi, mai visto uno), si confronta, con grande sincerità e passione, con temi universali come il valore dell’arte. E lo fa con uno stile che appare davvero inusuale all’occhio occidentale (il lungo flashback della prima parte, fatto di flash veloci e imprendibili ellissi) e che nasconde una grande modernità all’interno di un affresco storico di grande fascino.


Chihwaseon è il ritratto di Jang Seung-up, pittore dissoluto (ma senza maledettismi), che vive la sua vita alla ricerca di uno stile che sia la sua identità, la sua libertà. E intorno a lui, accanto a lui, scorre la Storia del suo paese, la Corea, e i rapporti di potere in causa che interferiscono con la sua vita e la sua arte (da brivido la sequenza della negata paternità). Splendida l’interpretazione di Choi Min-sik.


A Venezia ci sarà l’ultimo film di Im Kwon-taek, Haryu insaeng. E’ nella mia wishlist.

Le iene


A costo di essere banali (come non esserlo?), fa sempre piacere rivederlo, ed è sempre utile ribadirlo: Tarantino al suo esordio era già un genio, e per ora non si è ancora smentito (Four rooms è solo contingenza).


Uno dei film più stupefacenti degli anni ’90, capace dal nulla di ridare vitalità ai generi, e di ricreare nuovi linguaggi e canoni. E nonostante ciò, inimitabile. Attori strepitosi, regia perfetta, struttura da capogiro. Bla bla bla. Lo sanno tutti.

Open water


Lo so, due persone che per un’ora di film tentano di sopravvivere da sole in mezzo all’oceano non è proprio il massimo della vita. Ma (quasi) tutto quello che è stato detto di questo film è sbagliato, o almeno sbagliatuccio.


Inanzitutto, non è “un’esperienza terrificante” come recitavano le pompatissime tagline, e non è un horror. Urlare al cult-movie per pubblicizzarlo mi sembra eccessivo, come è esagerato urlare “che schifo” al termine di un film che, pur non essendo straordinario (perché sconta uno sviluppo prevedibile e letargico, soprattutto nella prima parte), mantiene ogni singola promessa data, e non si risparmia un’ironia diffusa che lo rende più sopportabile del previsto.


Quello di Kris Kentis è in realtà solo un piccolo (ma davvero piccolo) film digitale, interessante (ma risaputissima) metafora della modernità: l’elemento naturale (il mare, anche se calmo) che gioca sull’uomo una sorta di contrappasso dell’individualismo e della frenesia comunicativa della civiltà contemporanea. Ed è davvero tutto qui. Non c’è molto altro.


Una nota di merito alle scene notturne, quelle sì, davvero terrificanti, e al finale che spiazza notevolmente (ma furbescamente). I titoli di coda sono una bella ghignata cinica, stomaco permettendo.

Ju-on – The grudge 2


La pappardella sui 5 Ju-On ve la risparmio. Andate giù all’8 Agosto se vi interessa. Comunque, Ju-on – The grudge 2 è il secondo film per le sale, quindi il quarto della serie. Mentre quello dell’8 Agosto era il primo. Che casino.


In questo secondo capitolo cinematografico delle peregrinazioni del “rancore” (giunto a noi in dvd, ed era ora) si vede con chiarezza che a Shimizu, forse per una botta istantanea di maturità, o forse per la prospettiva occidentale che già lo aspettava, comincia ad interessare più una solida struttura che non i singoli spaventi (che ci sono comunque). Certo, il rischio è banalizzare quello che era il carattere del primo film, rabbiosamente messo alla rinfusa in modo volutamente confuso.


The grudge 2 è più ricercato, si cercano anche sottotesti metaforici (come l’istinto materno, dichiaratamente), e ci si spaventa un po’ di meno. Ma per assurdo, si apprezza di più la costruzione delle singole sequenze che non la coesione: che non c’è. Rimane anch’essa un’opera frammentaria. Pazienza. Tra le sequenze, davvero straordinarie quella della doppia impiccagione, con una serie di indizi che diventano presagi di morte (ma ancora con matasse di capelli neri…) e quella – linguisticamente estrema – delle due ragazze che viaggiano senza soluzione di causa tra presente e visione.


Il finale, ahimè, è quello che è. Si tende a strafare, spesso, e si rischia di rovinare tutto. Non ce n’era proprio bisogno. Molto meglio allora quelle insondabili mani davanti al viso nel film precedente. Aspettiamo con curiosità il remake americano…

Below


Below è il “film di mezzo” di David Twohy, il talentuoso regista di quel sorprendente (viste le premesse) gioiellino carpenteriano che fu Pitch Black (sul cui – almeno relativo – valore ho discusso animatamente quest’estate con Edo e Ale…) e del Riddick che per ora ho evitato a rischio delusione (ma è solo rimandato).


Bene, dunque, Below è un robusto b-movie (sembra che la categoria interessi Twohy…), una affascinante e claustrofobica ghost-story. Però, lo ammetto, non mi ha fatto proprio impazzire. Non troppo divertente, un po’ confuso e incerto, e a tratti davvero zoppicante. E risolto in modo alquanto sbrigativo. Innegabile, nonostante ciò, che l’idea di una storia di fantasmi senza (quasi) fantasmi sia intrigante, e che permetta di sfruttare il magro budget al massimo delle sue potenzialità (grazie anche a un pelo di CG).


E, cosa più rilevante, lo studio degli spazi e del loro utilizzo è davvero esemplare. E in un film così caratterizzato sul movimento nel chiuso e nel contrasto tra interno ed esterno, è già tanto.


Il senso della vita


Ebbene sì, dopo lunghe (lunghissime) ricerche, sono riuscito a portarmi a casa la nuova edizione dvd di questo film essenziale a un prezzo ridicolo. Cosa aspettate? Uscite di casa e andate a comprarlo.


“Every sperm is sacred
Every sperm is great
If a sperm is wasted
God gets quite irate”


The meaning of life è uno dei film della mia vita. L’ho fatto vedere per anni a tutti i miei amici (con reazioni molto differenti) e lo conosco a memoria. Anche se ora lo capisco di più, rispetto a 10 anni fa. Perché quando scoprii i Monty Python ero in prima o seconda media: quando trasmisero And now for something completely different su telemontecarlo. Altri tempi.


Non c’è niente da fare, non c’è Life of Brian o Holy Grail (bellissimi entrambi) che tenga, Il senso della vita è il miglior film dello stralunato e selvaggio gruppo di comici inglesi, in cui il loro attacco spudorato e irriverente alle istituzioni britanniche (e non solo, se la prendevano con tutti) compie un balzo in avanti per diventare, finalmente, cinema. Ed è un paradosso che questo straordinario massimo apporto formale, cinematografico e interpretativo dei Python esca con tale forza da un film così dissezionato, così spezzettato, tanto da ricordare l’ormai lontano (ma ancora attualissimo) show tv, il Flying Circus.


Forse gli voglio troppo bene e sono soggettivo. Pazienza. Se vi manca, correte.





Phone


Sarà che sono troppo buono, come dice lui, ma non me la sento di demolirlo proprio del tutto, questo filmetto coreano uscito di recente al cinema da noi e subito catapultato tra gli orridi scaffali di Blockbuster (cosa mi tocca fare… ladri!). Sembrava un miracolo: un horror coreano in Italia. Ma adesso aspettiamo Tale of two sisters (non vedo l’ora), e questo potremo lasciarlo tranquillamente da parte, in soffitta, in qualche dimenticatoio.


Phone, in realtà, è un prodotto ambiziosetto, eh sì. Come il suo regista, Ahn Byeong-ki. Che però ce la mette tutta per farsi odiare, cambiando rotta repentinamente e di continuo ma senza il talento di un Miike, costruendo situazioni e personaggi senza credibilità, spingendo su pedali quasi sempre sbagliati, e rischiando querele da almeno una manciata di registi giapponesi.


Phone, diciamolo, ha fatto schifo proprio a tutti (tranne a lui), soprattutto a promotori del cinema coreano come Menarini e Bocchi. Io, con le mille riserve che ho già descritto, ne ho apprezzato almeno il coraggio melodrammatico (ma è una dote che mi capita spesso di apprezzare nel cinema Far East, quindi nulla di nuovo), e trovo che l’idea del plot (nel momento in cui alla fine si dipana faticosamente) sia straordinaria, e che il senso di quell’amore negato e ossessivo, riesca in brevi vibranti istanti ad uscire dallo schermo. E l’immagine di quel muro squarciato mette i brividi (giuro, non dico di più). Vabbè che tanto poi arriva quella schifezza di finale…


Tanto peggio: pensare cosa sarebbe stato nelle mani di un regista più consapevole, moderato, maturo.

Session 9


La trovata, storicamente illuminata, del team di Brad Anderson, fu quella di utilizzare una tecnica nuova (il digitale ad altissima definizione) per ridefinire il cinema di genere, per creare un nuovo concetto di cinema di serie B che stesse al nuovo millennio come al passato era appartenuto il super8 o i 16mm. L’idea, lo sappiamo, ha avuto poi un seguito. Tanto di cappello.


Al di là di questo, Session 9 è un film interessante ma senza clamore. Parte citando Shining in modo abbastanza palese (il manicomio-labirinto esplorato nella prima tranche del film proprio come l’Overlook hotel, la scansione temporale, ma non ci si ferma lì), per avviarsi poi per una strada psico-horror non del tutto imprevedibile: una carneficina con finale a sorpresa, ma basta stare un po’ attenti e si capisce molto di più di quello che si dovrebbe (anche per via di qualche incoerenza narrativa).


Stilisticamente è originale, anche se l’utilizzo del digitale, con le sue focali infinite, amplia un po’ troppo il respiro e lascia paura e sgomento alle sequenze buie e claustrofobiche, e quindi alle soluzioni più semplici. Ciò non toglie che ci sia del talento sotto l’operazione, con grande merito degli attori (Mullan in testa), e soprattutto nella parte centrale, prima della chiusa (molto aperta, a dirla tutta), si crei un senso di angoscia abbastanzanza palpabile.

The butterfly effect


Devo ammettere che mi sono divertito parecchio. Certo, è grezzo e sopra le righe come un prodotto alla “mtv generation”, sconta la parziale incapacità dello sperduto Kutcher e di Amy Smart, entrambi fuori luogo.


Però appassiona, tiene incollati allo schermo, annoia di rado. E’ già una bella dote, per un film che, in fondo, non fa che prendere due temi decisamente di moda nel cinema degli ultimi anni (la perdita della memoria e il controllo del tempo) per poi combinarli tra di loro. E anche con una certa disinvoltura, pur rubacchiando paradossi vecchiotti (basterebbe Ritorno al futuro 2).


Senza paura di mostrare troppo o di esagerare con i toni, i due giovani e spavaldi registi, Gruber e Bess, sanno quello che vogliono: un prodotto di intrattenimento. Ma non fate l’errore che ho fatto io: fermatevi alla prima visione. Perché alla seconda le incongruenze e le stranezze inspiegabili della sceneggiatura (scritta forse con troppa foga) verranno fuori con un impeto che potrebbe rovinarvi anche la visione precedente.


Comunque sia, che il film piaccia o no (e a me non è dispiaciuto affatto), la “soluzione finale” è davvero un tocco da maestri.

School of rock


Non faccio un post per dire che Black è l’erede di Belushi, perché sarebbe datato (l’hanno scritto tutti), però lo è. Imbrigliato? Sì, Richard Linklater cauterizza senza dubbio la sua irruenza, scegliendo magari i take più tranquilli, dando un aspetto normalizzante all’operazione. Ma una forma stabile è necessaria perché il genio comico (e Black ne ha da vendere) esploda a partire dai contenuti. Landis su Belushi l’aveva capito.


School of rock è comunque un po’ un paradosso, ma fortunatamente. Non è un film rappacificante pur essendo un film-per-tutta-la-famiglia. Non tradisce lo spirito del rock (per nulla!) pur essendo pieno di bambini petulanti (e bravissimi). Perde pochi colpi per strada pur sembrando quasi un progetto nato per fallire.


E invece no, diverte e trascina. Forse grazie alla regia misurata ma piena di passione di Linklater (che aveva già dimostrato di non essere un idiota, almeno), forse e più probabilmente grazie alla spontaneità e alla bravura di un protagonista che si mangia, che si divora letteralmente lo schermo, e che probabilmente (credo sia così, e che dote), recita nel modo in cui vive. Rockin’ and rollin’.


ps: la colonna sonora, manco a dirlo, spacca.


Underworld


Non spiace nemmeno dirlo, che Underworld è di una bruttezza inenarrabile. Che (per ora) è il più brutto film del 2004, tra quelli che ho visto. Un po’ perché è un dato ormai scontato, e mi unisco a un coro (quasi, come sempre) unanime. Un po’ perché non è nemmeno un peccato, nemmeno un’occasione sprecata.


Infatti il progetto nasce già vecchio, già fuori tempo massimo, come se gli scarti di Blade e Matrix (e molto altro) si fossero ribellati alla pattumiera. Si salverebbero le bellissime scenografie, ma basta guardare quattro storyboard (ci sono nel dvd) e si vede che rendeva meglio persino come fumetto. Poi, Len Wiseman è un ragazzetto che ha letto troppi fumetti ma di cinema non ci capisce molto. La Beckinsale fa quel che può per salvare la baracca, ma il complesso di inferiorità (vedasi Carrie-Ann Moss) si fa sentire ogni momento, nonostante l’accento posh e l’espressività sofferta.


La ricerca di una complessità nei rapporti tra le parti si perde in una semplificazione fatta di ribaltamenti e colpi di scena che hanno la profondità della carta velina. Certo, si tratta di un fumetto: ma basterebbero Sam Raimi e Ang Lee a rendere evidente il problema, che c’è.


Ma ciò che davvero caratterizza questo film, per concludere, è il contrasto creato da un film rumoroso e fracassone (le sparatorie, i salti, i vortici, l’horror, la fantascienza, il postmoderno posticcio) e la noia che si prova quasi per tutta la durata. Un fatto rritante, ma forse istruttivo. Forse non basta, insomma…

Fratelli per la pelle


Dei Farrelly Brothers ho parlato e straparlato. Nel caso del loro ultimo film, Stuck on you, mi tocca ripetermi un po’. Ma è il bello del loro cinema: che è un corpus coerente e coeso al suo interno, straboccante di linee isotopiche (l’accettazione del diverso, l’elegia della provincia americana), e raramente stucchevole.


Stuck on you è divertente, ben scritto, ben recitato, con molti momenti irresistibili (il musical su Bonnie & Clyde, la rissa nel locale, i flashback sportivi), e alcune cadute di ritmo (ma quelle sono una costante per i Farrelly, basta saperlo in anticipo).


Quello in cui pecca (forse, ma è un male minore) non è, come hanno detto in molti, nei toni edulcorati: l’essere melensi è una dote che ammiro tantissimo nei Farrelly, e che fa parte del loro stile. Piuttosto è una certa pretestuosità nella trama, che rende lo sviluppo un po’ troppo “paratattico”.


Nonostante questo, alla fine viene fuori ciò che importa ai due registi, e cioè il cuore dei personaggi, la solidarietà delle comunità, il senso di fratellanza e attaccamento ai semplici valori della provincia. Non è poco. Bravi bravi.

Scary movie 3


La saga dei fratelli Wayans viene adottata da David Zucker, uno degli ZAZ: un antesignano, un vecchio geniaccio decaduto. Il risultato è che si perde qualcosa per strada, e si guadagna altro.


Si perde quel senso irresistibile di anarchia che permeava il primo capitolo, l’irriverenza afroamericana degli Wayans, la scorrettezza scatologica messa in campo sistematicamente in ogni inquadratura.


Si guadagna invece tantissimo in vera e propria qualità, perché questo Scary movie 3 è decisamente più intelligente, consapevole (il suo mix incrociato di Signs, The Ring e 8 Mile perde davvero pochi colpi), e soprattutto compatto: si vede da miglia di distanza (e la conferma è nei contenuti speciali del dvd) che è il prodotto di un lungo e complesso lavoro di fino su tantissimo materiale scritto e/o girato.


Certo, sono lontani i fasti degli Airplane! o di Top Secret, che probabilmente era il capolavoro degli ZAZ, l’hellzappoppin’ della guerra fredda. Però ridere di tali scemenze senza vergogna è sempre un bel piacere, e in più c’è il modo (anche stavolta, come nel primo capitolo) di fare della buona satira sulla produzione cinematografica statunitense e sui suoi linguaggi.


Niente per cui esultare, ma di certo qualcosa di cui ridere di gusto.

Una poltrona per due


Non c’è niente da fare: una delle commedie americane più note di sempre (almeno da noi, anche perché da anni basta aspettare natale e la si vede su Italia1…) è anche una delle migliori. E John Landis era un genio. Non c’è nemmeno bisogno di discuterne.


Spassosissima e praticamente inattaccabile sotto (quasi) tutti i punti di vista, un commedia degli equivoci che usa i canoni del genere (lo scambio di persona in testa) per parlare, con lucidità e cinismo, di un intero decennio, quegli anni ’80 che stavano sbocciando con prepotenza, e dei rapporti di potere e di classe nella società americana.


Un gioiello. Bisognerebbe dimenticarsene e poi riscoprirlo.


nota: ho visto la versione originale: Eddie Murphy era una vera forza della natura.

Ju-on: rancore


Premessa, per chi non lo sapesse. Esistono 4 Ju-on. I primi due sono stati prodotti per la televisione giapponese, passati in italia come Ju-on: rancore. La seconda coppia di film è invece stata prodotta per le sale, ed è passata in italia (in dvd) con il titolo Ju-on: the grudge. In post-produzione (lo vedremo quest’autunno) c’è il remake hollywoodiano. Più o meno, è così.


Tra i primi di questo blog, a Gennaio, ci fu il post su Ju-on: The grudge. Una mezza delusione: non mi piacque granché (forse perché lo vidi la stessa sera di Ringu), anche se mi ero davvero cagato (o cacato, mi correggerebbe N.M.) sotto.


Ieri sera invece mi è capitato davanti il primo dei tv-movie sopracitati. Mi sento di consigliarlo, perché se si accetta la sua natura di prodotto televisivo (quindi se si accettano la “grana grossa” delle immagini, la breve durata, e una certa approssimazione nella messa in scena), questo primo Rancore è migliore del successivo (e più ricco) remake. Anch’esso troppo confuso e tratteggiato con poca cura, ma si salta sulla sedia, e irritandosi un po’ meno.