settembre 2004

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Le conseguenze dell’amore

di Paolo Sorrentino, 2004

"Io non sono un uomo frivolo. L’unica cosa frivola che ho è il nome: Titta di Girolamo."

Titta è un uomo costretto a vivere in un luogo-non-luogo (un albergo, e per di più in una svizzera vuota e silenziosa come un cimitero abbandonato), in una condizione di sospensione del tempo che è già una morte ("sono 15 anni che non ti vedo"; "non sono cambiato molto"). Titta è un uomo grigio e metodico anche nella tossicodipendenza. Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore. Perché l’amore ti restituisce la scintilla che il noir ti espelle dal corpo ("salire su questo bancone è la cosa più pericolosa che ho fatto nella mia vita"), perché il tuo metodo mortale va in pezzi, e non puoi far altro che vivere, anche solo per un attimo, e poi morire di nuovo.

Paolo Sorrentino, alla sua seconda fatica, abbandona la vena provinciale della sua apprezzabilissima opera prima, e trova miracolosamente una dimensione internazionale, e trova quello di cui il cinema italiano ha bisogno. In più uno stile virtuosistico e inaudito per il cinema italiano, e un tono profondamente metafisico. Ci sono persino echi del cinema dei Coen (anche qui la "banalità del male", anche qui un "uomo che non c’è").

Gli interpreti sono tutti bravissimi (autentica scoperta Olivia Magnani, bellissima e intensa), ma Toni Servillo è davvero un extraterrestre. Per quanto vi possano tessere le sue lodi, ricredetevi: è più bravo. Un mostro di talento capace di reggere tutto un film con il suo sguardo dolentee la sua voce baritonale e rassegnata. E Sorrentino lo mette anche alla prova, duramente.

Il film è girato con uno stile folgorante, matematico, ma al tempo stesso vibrante e straniato. Due scene, tra tutte: quella, quasi sperimentale, della "pera fuori regola", e quel piano-sequenza infinito (una camminata verso una sala dove Titta è atteso da un boss), in cui un’oggettiva diventa soggettiva e poi di nuovo oggettiva, e infine camera fissa. E’ una cosa "alla De Palma" (c’è un’idea simile all’inizio di Carlito’s way): l’Italia ha finalmente allevato un regista in grado di reggere il confronto con i maestri d’oltreoceano.

Ma non c’è solo la forma: quando sta per finire e si può pensare (lungi da me) che forse è stato troppo implosivo, troppo freddo e calcolato, poco "caldo", ecco il finale: con quelle immagini, quei flash visivi, e con la malinconia di essere ricordato, e di essere quindi qualcuno nel momento stesso del tuo annullamento.

Approssimativamente perfetto.

Full metal yakuza (Full metal gokudô)

di Takashi Miike, 1997

Si torna a parlare di Takashi Miike (dopo questo, questo, questo, questo, e infine questo post): sono riuscito finalmente a vedere (ora sono a 6, ne ho di strada da fare per raggiungere lui) questo tv-movie del 1997, che si situa quindi ai primordi dell’esplosiva carriera del regista nipponico, quasi subito dopo Fudoh e la lunga gavetta televisiva.

Full metal gokudô è una specie di "Robocop à la Miike": non un plagio (benché riproduca una parabola narrativa molto simile), ma piuttosto un cugino del film di Vehoeven: entrambi sono figli della tradizione shelleyana del Prometeo Moderno,  filtrata in tutte e due i casi attraverso la cultura del cyberpunk e dei fumetti (comics là, manga qua). Inoltre è un buon esempio (perfezionato in Dead or alive) del progetto miikiano nei confronti degli yakuza eiga.

Ancora un po’ grezzo e furioso, e privo di vezzi autoriali: ma già si notano in nuce tutte la sue fisse. Il film è infatti disseminato di elementi tipici del cinema successivo del regista: come l’armatura, che ricorda vagamente la divisa di Ichi (e il protagonista è un codardo piagnucolone come lui), o la furia dei massacri ripresa nel ben più maturo Izo. E gli elementi sessuali, che la fanno spesso da padroni (come l’enorme pene impiantato al cyborg), con il solito impianto sadico che va a finire addirittura – ma non sarà l’ultima volta – nella necrofilia.

Come si può facilmente immaginare, Miike non vuole prendersi affatto sul serio: il prodotto non potrebbe funzionare se non fosse così ironico e divertente (a volte spingendosi fino al demenziale). Ma i personaggi non sono mai caricature, e c’è una cura dell’immagine davvero inedita per una produzione televisiva, tanto più per un film così assurdo e sopra le righe. Da noi sarebbe impensabile.

Samaria

di Kim Ki-duk, 2004

Si può già amare alla follia un regista dopo sole tre opere? In realtà, ne basterebbero due: Binjip, che ho amato tantissimo a Venezia, e Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. In più, ci si mette questo capolavoroFaccio molta fatica a scriverne (vedere per credere)… proviamoci.

Samaria è un film bellissimo, straziante, terribile, ma estremamente morale e profondamente religioso, sul tema del peccato e della redenzione. Kim Ki-Duk, con uno stile ineccepibile e dalla bellezza frastornante, riesce a raccontarci una storia di prostituzione minorile e di suicidi (con una sorta di piglio sociale, mai stucchevole, ma più pretestuale che altro) e della vendetta disperata di un padre, senza scandalizzarci forzatamente, ma colpendoci al cuore e allo stomaco.

La storia di Yeo-Jin e di suo padre Yeong-Ki è stracolma, come ho già detto, di temi religiosi. Ma si parla di una religiosità che trascende i valori cattolici o buddhisti, presenti comunque nel film (il padre è un fervente cattolico). La liberazione e la catarsi infatti trovano strade diverse tra loro ma comunque mai rassegnate, né facilmente consolatorie, nè legate a fattori culturali se non il proprio cammino interiore.

I due percorsi della giovane ragazza e del padre non sono altro infatti che due facce dello stesso cammino redentivo, perché la salvezza non può passare se non dal dolore, dall’ostacolo (e dalla sua eliminazione), dalla tragedia; ma anche dal recupero della comunione (reciproca ma anche funebre), e della dimensione del dono. Ed è un dono infatti (quelle pietre gialle) a chiudere il film (dopo un sogno virato in blu, tremendo e dolcissimo, che mette i brividi), ed è di un’amarezza tale che lascia storditi.

Splendido, davvero splendido. Speriamo di vederlo presto in Italia…

Una tomba per le lucciole (Hotaru no haka)

di Isao Takahata, 1988

"La sera del 21 settembre 1945, io morii"

Celeberrimo classico dell’animazione giapponese (classe 1988), diretto da Takahata Isao, amicone di Miyazaki Hayao (insieme diressero il primo Lupin III) e corresponsabile di quella meraviglia produttiva chiamata Studio Ghibli.

Se già con Miyazaki i pregiudizi occidentali sui cartoni animati vengono contraddetti, mai come in questo caso tali ingenuità culturali vengono a cadere: Hotaru no haka è un cartone animato assolutamente adulto. Affresco storico (filolofico nell’ambientazione, siamo a Kobe) su un periodo storico doloroso (la fine della seconda guerra mondiale, ma Hiroshima è solo accennata) e, allo stesso tempo, sofferto romanzo di formazione individuale, Una tomba per le lucciole è semplicemente un film sulla perdita e sulla morte, e su tutto il film aleggia questa sensazione cadaverica che mette i brividi (come nella struggente scena che dà il titolo al film).

Infatti la fortissima scelta strutturale va in questa direzione: il cartone inizia con la frase sopracitata, ed è narrato dal fantasma del protagonista, che racconta, ovviamente, l’avvicinamento alla morte, suo e della sua sorellina. Il procedimento è classico, e da Sunset Boulevard a Pulp Fiction si è detto e scritto l’impossibile su questo, ma in un cartone animato è una scelta davvero anomala, che provoca una sorta di stordimento ed aiuta (facendo dimenticare il cosa, prediligendo il come) ad immergersi a capofitto nelle emozioni.

Il mistero del conte Lobos (Wheels on meals) (Kwai tsan tseh)

di Sammo Hung, 1984

Sulla mia passione per Jackie Chan ho già scritto un post, qualche mese fa. Poi, cosa succede? La Elleu mi tira fuori una Jackie Chan collection! Che, ora come ora, non posso permettermi. Ma un noleggio, quello sì. E ogni tanto fa bene vedere un film di Jackie Chan. Ti risolleva la giornata.

Questo Kwai tsan tseh è uno dei film diretti da Sammo Hung per il suo amico Jackie (e per se stesso), e non è decisamente tra i migliori. Un classico pastiche alla Chan, un po’ giallo ma decisamente virato sul comico demenziale (o demente: la sequenza al manicomio), strapieno di gag piacevolmente retrò, ma purtroppo con poco di quell’elemento che rende unici i film del divo hongkonghese: le arti marziali, relegate (ahimé!) negli ultimi minuti. Neanche a dirlo: lasciano senza fiato. Anche se della re-invenzione del kung-fu presente in molti film successivi (con gli oggetti quotidiani usati come arma, o i volteggi impossibili) qui c’è solo l’ombra.

Se non avete mai visto un film di Chan (quelli veri, mica Pallottole cinesi…) e volete un film con cui iniziare, rivolgetevi altrove. Per esempio, Ventaglio bianco.

Amami se hai coraggio (Jeux d’enfants)

di Yann Samuell, 2003

Jeux d’enfants è un oggetto abbastanza bizzarro. L’illustratore Yann Samuell, al suo esordio, sceglie una strada che coniuga le scelte barocche di Jeunet (il film, se guardato con superficialità, potrebbe sembrare uno spin-off di Amelie) con uno stile iperattivo e cartoonesco (macchina da presa volteggiante e mai ferma, effetti speciali sfavillanti), che ha tra i suoi riferimenti anche il Boyle di Trainspotting (omaggiato esplicitamente in una scena).

Il risultato è un’operetta piacevole (anche se seriamente tautologica) che racconta il gioco eterno e sottilmente perverso tra due amici (o qualcosa di più) come unica difesa contro la morte, il dolore e più in generale contro l’orrore del tempo che passa. Tempo che infatti viene sistematicamente annullato, con ellissi anomale (perlopiù decennali) e una sensazione di sospensione che fa il paio sia con la natura fumettistica dell’operazione, sia con l’incapacità di crescere (e di invecchiare) dei due protagonisti.

Di certo più grafica che narrativa, più interessata agli sviluppi di un concetto che a quelli dei personaggi che lo mettono in pratica. D’altronde era difficile, vista l’immaturità e l’antipatia che caratterizzano i personaggi di Marion Cotillard (di cui sono innamorato dai tempi di Taxxi) e Guillaume Canet (che è invece insopportabile: sarà gelosia?).

Comunque la bidimensionalità dell’operazione può anche non essere un limite. Questo assalto terribilmente romantico, allo stesso tempo cinico (molti "scherzi" toccano davvero punti dolenti del quotidiano) e zuccheroso (perché è amore incondizionato, che non si ferma nemmeno di fronte alla morte), la reazione può essere diversa. O si va in iperglicemia, oppure ci si soddisfa le papille gustative e si finisce il film con un sorriso, beato e beota.

Laputa, il castello nel cielo (Tenkû no shiro Rapyuta)

di Hayao Miyazaki, 1986

Il cinema di Miyazaki Hayao ha una capacità quasi unica di suscitare meraviglia. [Sembra una banalità, ma la meraviglia non è uno di quegli effetti che si possono calcolare e sputare in faccia. Ci vuole sangue caldo, per suscitare meraviglia.] "Laputa" è, come la gran parte della sua opera, altrettanto meraviglioso.

Al di sotto di quest’inspiegabile stupore che riempie il cuore alla sola vista di una bambina che ondeggia illuminata da una pietra azzurra (con quelle bellissime musiche, ah!, Joe Hisaishi), c’è come sempre un’opera estremamente complessa, che si rifà alla letteratura occidentale (Swift in testa, ma non solo), alle atmosfere industriali anglosassoni (con la visione della città-miniera), e che riempie infine lo schermo con quella geniale visione magrittiana che è il "castello nel cielo" (ancor più stupefacente quando la sua "anima vegetale" viene liberata).

E nonostante il tumulto cardiaco provocato da questa inventiva grafica ed emotiva che lascia a bocca aperta, non si dimentica il messaggio – il rapporto con la terra e con la natura – trattato in modi simili e comunque sempre in primo piano in tutto il cinema del maestro giapponese.

Le opere successive a questa, soprattutto le più recenti, sono forse a un livello superiore: ma è tutto da discutere, perché se indubbiamente in quelle opere il discorso è meglio cristallizzato, qui c’è pura poesia, più disinibita che in La città incantata e meno tragica che in Princess Mononoke (l’abbinamento è piuttosto con Nausicaa, altro capolavoro), anche se la morte e la coscienza della perdita sono sempre presenti. E a tale poesia si aggiunge un’irresistibile comicità slapstick (mai, e dico mai, infantile) e un ritmo davvero forsennato.

Nota: a Venezia c’era Howl’s moving castle. Non ci hanno fatti entrare. Per un pelo: mi mangio le mani. Sala piena? Bastardi.

Vento di terra

di Vincenzo Marra, 2004

Alcune recensioni a questo film, accolto molto positivamente a Venezia Orizzonti, hanno segnalato come difetto di questo film la sua ripetitività. Ma se c’è una forza in questo film è proprio l’uso espressivo dei meccanismi di ripetizione.

Lo dimostra il fatto che tali visioni molteplici sono molto sistematiche (carrello in avanti e indietro sulla madre che cuce, carrello laterale negli uffici, le interminabili scene del motorino, eccetera), e ancora di più la circolarità del film, che inizia e finisce con la stessa identica panoramica sulla città di Napoli. Perché Vento di terra racconta del dramma (personale, anche se inserito nella Storia italiana recente) di una vita senza vie di fuga, senza speranze, una vita segnata del ripetersi degli eventi (e dei traumi) e condannata all’inevitabilità dell’infelicità.

Questo ovviamente rende il film estremamente deprimente: non dev’essere per forza un’accezione negativa. Lo è per me, soprattutto in alcuni passaggi, e nei confronti dei personaggi, a cui è dato un rispetto minimo all’interno di una totale visibilità. Questo però è tutto da vedere. Quello che è sotto gli occhi è invece una notevole assenza di personalità nello stile di Marra, ricercatamente neorealista, ma forse molto più secco. Anche se riesce a dotare di credibilità il volto dolente e volutamente inespressivo dell’esordiente Pacilli, e ha un certo talento nel ritrarre gli interni, dando un carattere spietato e squallido ai luoghi napoletani e milanesi.

La personalità viene fuori, però, in molti momenti: nei dialoghi di Vincenzo con la sorella, in alcune scene della lunga sequenza dell’addestramento (quella della marcia punitiva, bellissima, in testa), in quella della fuga per raggiungere la madre suicida, o in quello sguardo che Lorenzo, dal treno e dall’autobus (ancora una ripetizione), rivolge all’esterno, al verde della natura, conscio forse del destino avverso o semplicemente affascinato da un futuro che non arriverà mai a stringergli la mano e a sorridergli.

La ragazza con la valigia

di Valerio Zurlini, 1960

Il ritorno a Bologna è anche il ritorno in SalaBorsa, e l’occasione di recuperare le mie enormi falle cinefile… Era tanto che volevo vedere questo film di Zurlini (l’avevo già scritto), regista bolognese di cui avevo già parlato (su La ragazze di San Frediano). Autopermalink…

La ragazza con la valigia è la storia di un incontro, quello tra un ragazzo (Perrin, giovane e già bravissimo) e una ragazza (una splendida Claudia Cardinale). Aida e Lorenzo sono due persone sole, ma le loro due solitudini sono destinate a rimanere tali, a causa del moralismo provinciale, a causa dei pregiudizi della gente.

Zurlini aveva una gran mano: anche solo per la capacità di raccontare le relazioni tra le persone attraverso i rapporti che i personaggi instaurano nell’inquadratura. E l’uso della retorica cinematografica (i piani-sequenza, lunghissimi anche se privi di virtuosismi, o la camera fissa sullo sguardo attonito e deluso di Perrin) per esprimere i sentimenti dei protagonisti è quello di un grande maestro. Bello, bello davvero.

Molte le scene straordinarie, spesso anche grazie alle scelte sonore: l’inizio , con quella strana ironica tensione (e Fever in sottofondo), e quella valigia lasciata lì sul cemento, sola e abbandonata, come in un quadretto iperrealista. O la discesa dalla scala della Cardinale in accappatoio sulle note di Celeste Aida. Se una sequenza mi rimarrà in mente, però, è quella della spiaggia, con i due corpi accarezzati dalla sabbia e dalla voce di Mina, che si conclude con la rissa, in cui il dramma (e il melodramma) viene contrastato da Tintarella di luna nella colonna sonora: geniale.

Fahrenheit 9/11

di Michael Moore, 2004

Fahrenheit 9/11 è un film importantissimo, e ammirevole per la tenacia (non il coraggio) con cui è stato scritto e girato da Moore. La maggior parte delle cose che vengono dette sono sotto gli occhi di tutti, altre cose si possono sapere senza problemi ma nessuno ne parla, altre ancora (in piccolissima parte) sono mezze novità, almeno agli occhi di un europeo disinformato. Andrebbe visto da tutti, e in fretta, per avere anche questa visione del mondo in cui viviamo.

Ma. Ma il mio giudizio vuole (e DEVE) essere cinematografico, non civile. Dunque, daccapo.

Se l’ultima fatica (e che faticaccia) di Moore non funziona del tutto, o non come vorrebbe, ma soprattutto non come potrebbe, non è per la sua natura documentaristica. Sfalsiamo un mito: Fahreheit 9/11 è un film, ed è anche un documentario. Le due cose non si escludono a vicenda. Ora, è un buon documentario? Ed è un buon film? Le pecche spuntano come funghi da entrambi i lati.

La cosa che convince di meno è l’impressione di trovarsi di fronte a un prodotto senza una linea precisa, senza un’idea di fondo che non sia onnicomprensiva, che affastella (prima parte) fatti e opinioni incontrovertibili con una straordinaria furia iconoclasta, suscitando vergogna, indignazione e risate in modo perfetto.

Per poi buttarsi in una seconda parte assai legittima ma estremamente ricattatoria. E’ davvero l’unico modo di raccontare l’occupazione irakena, questa pornografia del dolore? Non ne sono sicuro, ma non credo proprio, sempre per il discorso sull’etica della rappresentazione. Insomma, inizia con la testa, vorrebbe svoltare sul cuore, ma finisce ahimé con lo stomaco.

Personalmente, preferisco la testa. Anche perché Moore ce l’ha eccome, la testa: lo dimostrano la non-visione audiofonica della strage delle Twin Towers, la colonna sonora, l’ironia, lo stile beffardo con cui si rivolge alle autorità. E la prima parte è ottima. Ma anche lì l’autore a mio avviso fa un piccolo errore: la premessa di Moore (l’illegittimità presidenziale di Bush, che non mettiamo certo qui in dubbio) è tirata via senza troppa attenzione, e con una confusione che porta a farla scomparire in fretta nel buio.

Riassumendo… Insomma, mi ripeto in modo pedissequo: andate a vederlo tutti. E’ una buona alternativa all’informazione mainstream. Ed è anche piuttosto divertente, e (se cedete a un piccolo ricatto) anche parecchio commovente. Se invece volete un giudizio da "giovane cinefilo", è un documentario realizzato con troppa furia e con poca cura, con un ritmo altalenante e con parecchie cadute di stile.

Spider-man 2

di Sam Raimi, 2004

C’è una montagna di ragioni per cui, a mio avviso, questo sequel supera il film precedente. Cercherò di essere breve, per quanto possibile. Sono solo opinioni, dopo tutto.

Prima di tutto, di vede ad ogni respiro, in ogni attimo del film, che quello che interessa a Raimi è il lato umano del supereroe. Ma questa è un’ovvietà, ed è un carattere insito nel fumetto stesso. Stupisce però positivamente il modo in cui il team di lavoro tiene fede a questa premessa, amplificando le insicurezze del primo capitolo, e mostrando un eroe scisso almeno quanto i suoi avversari, ricco di sfumature e di incertezze, aumentando la piacevole sensazione che si stia osservando un grande e spettacolare romanzo di formazione. Le sequenze d’azione, seppur perfette, sono meno presenti di quanto si possa immaginare, e destano più interesse quelle in cui viene fuori l’ottima sceneggiatura di Sargent, migliore di quella precedente di Koepp. E Tobey Maguire è nato per essere Peter Parker.

Secondo motivo, è la sequenza della metropolitana, e la sua conclusione. Il tema del sacrificio era già principale nel primo episodio (la necessaria manfrina su potere e responsabilità), e vista la ricorrenza biblica di questo tema (in un film assolutamente occidentale, come dev’essere), si ricorre a un’episodio evangelico (la deposizione del Cristo) per potenziare questo tema. E miracolosamente la suddetta scena della deposizione non è pacchiana né ridicola, ma è la più forte e commovente del film: quelle mani sul petto, quella delicatezza e riconoscenza negli sguardi. Da brividi.

La terza ragione ha un nome: Octopus. I cattivi dei fumetti sono personaggi difficili da portare sullo schermo (pensiamo ai disastri di Schumacher…), tanto più quelli dell’uomo-ragno. Raimi e compagnia-bella riescono a dare credibilità all’incredibile, non cercando la verosimiglianza (non sia mai!), ma quella psicologica, tratteggiando in modo davvero profondo (grazie anche al bravissimo, ma davvero bravissimo, Alfred Molina) e mostrando, ancora una volta, un uomo in preda ad un trasalimento tragico, vittima di un ybris scientifica.

Infine, Raimi. Qualcuno lo aveva accusato, ingiustamente, di aver abdicato la sua personalità creativa a favore del facile intrattenimento. Ora quelle voci potranno tacere? Basterebbe la scena dell’ospedale, in cui il suo giocoso background esce violentemente, e sembra di rivedere i suoi ormai preistorici esperimenti sul thrilling. Cosa bizzarra: un corto horror alla Raimi infilato in un film di Raimi. E ci sta un gran bene.

E chi crede che sia più consolatorio, più riconciliante del primo (forse solo per la commozione, e perché finalmente c’è spazio per un briciolo di felicità), ripensi bene alle sfumature del finale, allo sguardo attonito di Harry e a quello malinconico e rassegnato di Mary Jane. Eh sì, nel mondo sacrificale di questo splendido newyorkese in calzamaglia non c’è spazio per un vero happy ending. Solo una nuova apertura verso nuove responsabilità, nuovi conflitti (interni ed esterni), nuovi traumi che già stanno nascendo ed esploderanno (?) in un terzo episodio, si spera altrettando bello. Qui non si vede l’ora.

Spider-man

di Sam Raimi, 2002

Devo proprio rispettare le mie stesse volontà: un film visto, un post scritto. Rivisto in funzione del secondo (per schiarire la memoria). Confermo l’entusiasmo di due anni fa. Ma Raimi si è superato nel sequel… Tutto qui.

Secret window

di David Koepp, 2004

Si vede da lontano che Koepp è uno sceneggiatore: il film è costruito in funzione dei 10 secondi finali (uno sberleffo prevedibile). E su quello, sulla coesione, non perde un colpo. Koepp è un buon scrittore, e non diciamo il contrario: infatti il film inizia molto bene, come fosse un bel racconto. Poi, si comincia a desiderare che il film finisca in fretta.

Lo scioglimento dell’enigma è anticipato volutamente, certo, ma la cosa non giova. Anche perché il cinema contemporaneo è ormai strapieno di simili "sorprese", e quella di Secret window non è di certo tra le più riuscite, e funziona solo sulla carta. Anche perché il regista non ha un briciolo di misura o rigore nell’utilizzo degli effetti speciali, che "staccano" dalla pellicola in modo abbastanza pacchiano e fastidioso, e ridicolizzano il pre-finale.

Cosa resta? Turturro che parla con l’accento del Mississipi: spassosissimo. Depp: bravo, ovviamente. Una sceneggiatura ben congegnata e piena di indizi, e un lavoro interessante sugli specchi e i vetri. E il piano-sequenza iniziale, da capogiro. Tutto qui. Da King, su temi ed atmosfere simili, Reiner aveva fatto di meglio: tanto vale recuperare Misery e lasciare stare le finestre segrete.

Le chiavi di casa

di Gianni Amelio, 2004

Ebbene, mi sono pentito di aver dormito per metà film a Venezia e, come mi ero ripromesso, ho recuperato.

Questo film parla di un’iniziazione ad un culto. L’iniziazione è quella di Kim Rossi Stuart (davvero bravo, va detto, ma un po’ atono), guidato dalla mano di Charlotte Rampling, e il culto è quello dell’amore come sacrificio, come rinuncia. Ma Le chiavi di casa, oltre a questo livello (il più stimolante) è anche e più semplicemente il racconto di un viaggio pieno di buche, in cui due persone dovranno imparare a volersi bene. Dovranno, sì, perché si parla di responsabilità, di seconde occasioni, ma soprattutto di dovere. Il rapporto tra amore e necessità.

Il lavoro di Amelio è rischioso, in qualche modo coraggioso: è un film sul filo dell’errore, ed è vero, come alcuni dicono, che miracolosamente non cade nel baratro. Non per questo è un film miracoloso. Però è ammirevole come riesca a sfuggire alla pornografia del dolore (come con un abbraccio esausto), e al melodramma del dolore (come con un taglio su quello stesso abbraccio). Sono solo esempi.

Potrebbe essere pesante e indigesto, e a tratti lo è. Ma c’è questo straordinario e sfortunato folletto, Andrea Rossi, ed è lui che ci fa rilassare e sorridere. Potrebbe essere consolatorio e stucchevole, ma quel maliconico (astratto) finale di pianto (per assurdo, consolato) lo rende più umano e sincero.

Alcuni entusiasmi veneziani erano eccessivi (c’era di meglio), così come la condanna di chi plaudeva alla sconfitta (forse c’era di peggio). Qui si sta sul filo, ancora una volta. E ancora una volta si può dire: è buon cinema, italiano.

L’alba dei morti viventi (Dawn of the dead)

di Zack Snyder, 2004

Premessa essenziale: il film di cui questo è una specie di remake riveduto e corretto, cioè Zombi – Dawn of the dead (1978) di George Romero, è il mio horror preferito di sempre (se si esclude Kubrick, che per me fa sempre testo a sè). Perciò il fatto che questo rifacimento di Snyder non mi abbia irritato sarebbe già un buon indizio per una meritata promozione.

Ma c’è di più. Non solo non mi ha irritato, ma mi ha estremamente divertito. Fatti da parte i debiti con Romero, quelli (enormi) con il Boyle di 28 giorni dopo (gli undead che corrono, metafora dell’individuo schizzato contemporaneo), e con una certa vena carpenteriana nello sviluppo della suspence, questa nuova alba ha davvero molte più luci che ombre.

Snyder non rovina la pietra miliare, non ricerca la copia postmoderna, ma utilizza solo gli spunti di base che gli interessano, asciugando la critica politica e sociale (sempre essenziale in Romero) nei confronti dell’America e concentrandosi di più sul puro terrore, sulla tensione, sulla psicologia dei personaggi, senza cercare di perdere credibilità: sembra incredibile che gli zombie nel 2004 possano ancora far paura. E non poco merito ha lo splendido make-up (nel dvd c’è una montagna di informazioni in merito).

Il film inizia un po’ prima dell’antesignano romeriano, e finisce un po’ dopo. Questo permette da un lato lo straordinario tuffo nell’orrore dei primi 10 allucinanti minuti, con quella panoramica e quel campo lungo da brividi, e i geniali titoli di testa con la voce di Johnny Cash. Dall’altro lato, la storia si allunga nel finale, che è di un pessimismo mostruoso, molto più acuto (anche se meno disperato) che in Romero. Nel mezzo, gran bel cinema horror. Non era facile: complimenti.

The terminal

di Steven Spielberg, 2004

Dispiace un po’, a chi come me, non ha pregiudizi nei confronti dello zio Steven, e ama almeno la metà (se non di più) della sua filmografia, dire che Terminal è forse un film senza infamia e senza lode. Intendiamoci però: è proprio un bel film.

Impeccabile e riuscitissimo, impossibile da odiare e (quasi) da criticare: ma salta agli occhi che le premesse erano un po’ diverse. Lo spunto è davvero geniale: un uomo che si trova ad abitare il non-abitabile. A vivere insomma nel non-luogo per eccellenza, l’aereoporto (leggasi Marc Augé). Nel soggetto, di quel geniaccio di Niccol, era prevista forse un’immagine più critica dell’America e della sua politica sull’immigrazione, e più profondamente delle politiche interculturali nordamericane.

Il film invece si eleva a metafora solo in alcuni momenti, per lasciare spazio più che altro a un’elogio delle minoranze solidali e ad un’appiattimento notevole dei caratteri (soprattutto di Hanks e Tucci), anche se il personaggio della Zeta-Jones è interessante e complesso, e fa il paio con l’aereoporto JFK: mutevole e inesistente. La regia di Spielberg è, manco a dirlo, perfetta, anche se imbriglia più del solito il magnifico talento del fotografo Kaminski, lasciando l’espressione più ai volti e alle parola che alle luci, e pensando soprattutto a gestire quello spazio così limitato in modo eclettico, e per più di due ore: scommessa riuscita.

Insomma, anche se non è all’altezza di Prova a prendermi (quella sì, una meravigliosa metafora dell’america del novecento), il film scorre via come un buon bicchier d’acqua, lasciando solo allo spettatore la libertà di cogliere la profondità critica del progetto (come in quella malinconica frase finale nel taxi), ma rischiando che non esca affatto, e si assista a niente di più che una commedia sentimentale, anche se complessa e sfaccettata.

Visitor Q (Bizita Q)

di Takashi Miike, 2001

Di Miike stanno ormai parlando tutti, e su di lui si dice tutto e il contrario di tutto. Quello che è certo è che è terribilmente intelligente, e ha una unica e straordinaria capacità di stupire, e questo film ne è la riprova.

Visitor Q è un’attacco deliberato e caustico all’istituzione familiare giapponese. Il visitatore del titolo è un signor nessuno, pura furia irrazionale (non fa altro se non colpire teste con pietre), che si installa in una "tipica" famiglia giapponese (incesti, violenze, prostituzione, eroinomania) e, grazie al suo intervento (per assurdo, vista la sua totale passività) porta questa famiglia all’apice della follia, e infine a una catarsi mistica e riappacificante.

Sotto la forma falsata di un digitale grezzo senza nessun ritegno o censura e che sfiora (da vicino) la pornografia, sotto l’eccesso ricercato in ogni azione o parola, si nasconde uno stile molto più raffinato di quanto sembri. Lo dimostrano i vari piani diegetici, tra videocamere e macchine fotografiche (motivo per cui molta critica adora questo film), e lo dimostra il tono ironico (ma non burlesco) con cui vengono mostrate le nefandezze compiute dai protagonisti.

Disincantato e crudele nel suo sorridente sgomento, eccessivo e infine testardo nell’affermare una speranza di fronte all’orrore del mondo, può causare reazioni molto diverse. Shock, rifiuto, sbellicarsi dalle risate. Personalmente, me la sono goduta. Basta un po’ di pazienza e stomaco, e soprattutto la capacità di non scandalizzarsi di fronte a niente, e osservare con distacco: ne vale la pena.

Il Festival è finito…


 


 


 


 


… andate in pace.


 

Styker

di Noam Gonick, Canada

Venezia Orizzonti

Ultimo giorno di festival, poco tempo da dedicare alla visione di film, una scelta a caso. Ma Stryker è un pessimo film, rovinato in primo luogo dalle interpretazioni degli attori, ma anche dalla terribile sceneggiatura (tra un fuck e l’altro, nemmeno un pensiero intelligente) e dalla regia di un piattume inumano. Tempo buttato via. Peccato, perché quello del giovanissimo (piromane e quindi anarchico) che guarda con distacco i reciproci razzismi di due bande rivali era un punto di vista interessante. Bleah.

Passaggi di tempo

di Gianfranco Cabiddu, Italia

Giornate degli autori

L’ultimo film visto in questo strano e incasinatissimo baraccone che è il Festival del Cinema di Venezia è un documentario. Non proprio un caso strano, vista l’attenzione ultimamente viene data a questo genere (ed è un documentario Darwin’s Nightmare, il vincitore delle Giornate degli Autori…).

Detto questo, il film di Cabiddu è proprio bello. E’ un documentario sul bellissimo progetto "Sonos e memoria" di Paolo Fresu, Elena Ledda e molti altri musicisti sardi (e non). Ma, da questo punto di partenza, monta e sale, fino a diventare un film sull’incontro tra uomini diversi per uno scopo comune, e infine nella seconda parte (bellissima) anche un ritratto della sardegna e delle sue tradizioni che tra vecchio e nuovo, filmati d’archivio e recenti mischiati insieme, vengono mostrate come elementi di una cultura affascinante e immutabile.

Nota: ieri sera, alla festa di chiusura del festival alla Villa degli Autori. Fresu e la Ledda ci hanno deliziato (splendidi, grandissimi, pelle d’oca). Lui era appollaiato a due metri d’altezza su una decina di cubi da arredamento. Io ero sotto di lui, a sperare che non mi cascasse addosso.

Un altro film ad episodi, un altro breve post dedicato (e l’unico film visto ieri).

Eros

di Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni

Fuori concorso

Non ci voleva certo una conferma: Wong è un grandissimo regista, Doyle un grandissimo direttore della fotografia. E The hand è un affascinante, raffinato, bellissimo mediometraggio, capace di uscire dal semplice esercizio di stile e regalare grandissimi momenti di cinema, la scoperta del sesso e della morte, una magnifica ossessione amorosa, e uno sguardo finale pieno di dolore. Splen-di-do.

Equilibrium è una mezza sorpresa: l’episodio di Soderbergh, per non essere altro (dichiaratamente) che un cinefilo e tautologico divertissement sul sogno, è davvero spassoso: merito soprattutto di Arkin e Downey Jr, attori stupendi e troppo spesso dimenticati. Un piacevole relax dopo le grandi emozioni del capitolo hongkonghese, girata con rigore (chi se l’aspettava?) e fotografata con classe (dallo stesso regista).

L’episodio di Antonioni, The dangerous thread of things, è ridicolo, recitato da cani, scritto peggio (Tonino, Tonino…), con qualche notevole svolazzo del buon Marco Pontecorvo, ma nulla più. Senza timori reverenziali: seriamente imbarazzante.

Some gossip…

Ho conosciuto questa blogger e questa blogger. Ciao, ragazze.