Le conseguenze dell’amore
di Paolo Sorrentino, 2004
"Io non sono un uomo frivolo. L’unica cosa frivola che ho è il nome: Titta di Girolamo."
Titta è un uomo costretto a vivere in un luogo-non-luogo (un albergo, e per di più in una svizzera vuota e silenziosa come un cimitero abbandonato), in una condizione di sospensione del tempo che è già una morte ("sono 15 anni che non ti vedo"; "non sono cambiato molto"). Titta è un uomo grigio e metodico anche nella tossicodipendenza. Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore. Perché l’amore ti restituisce la scintilla che il noir ti espelle dal corpo ("salire su questo bancone è la cosa più pericolosa che ho fatto nella mia vita"), perché il tuo metodo mortale va in pezzi, e non puoi far altro che vivere, anche solo per un attimo, e poi morire di nuovo.
Paolo Sorrentino, alla sua seconda fatica, abbandona la vena provinciale della sua apprezzabilissima opera prima, e trova miracolosamente una dimensione internazionale, e trova quello di cui il cinema italiano ha bisogno. In più uno stile virtuosistico e inaudito per il cinema italiano, e un tono profondamente metafisico. Ci sono persino echi del cinema dei Coen (anche qui la "banalità del male", anche qui un "uomo che non c’è").
Gli interpreti sono tutti bravissimi (autentica scoperta Olivia Magnani, bellissima e intensa), ma Toni Servillo è davvero un extraterrestre. Per quanto vi possano tessere le sue lodi, ricredetevi: è più bravo. Un mostro di talento capace di reggere tutto un film con il suo sguardo dolentee la sua voce baritonale e rassegnata. E Sorrentino lo mette anche alla prova, duramente.
Il film è girato con uno stile folgorante, matematico, ma al tempo stesso vibrante e straniato. Due scene, tra tutte: quella, quasi sperimentale, della "pera fuori regola", e quel piano-sequenza infinito (una camminata verso una sala dove Titta è atteso da un boss), in cui un’oggettiva diventa soggettiva e poi di nuovo oggettiva, e infine camera fissa. E’ una cosa "alla De Palma" (c’è un’idea simile all’inizio di Carlito’s way): l’Italia ha finalmente allevato un regista in grado di reggere il confronto con i maestri d’oltreoceano.
Ma non c’è solo la forma: quando sta per finire e si può pensare (lungi da me) che forse è stato troppo implosivo, troppo freddo e calcolato, poco "caldo", ecco il finale: con quelle immagini, quei flash visivi, e con la malinconia di essere ricordato, e di essere quindi qualcuno nel momento stesso del tuo annullamento.
Approssimativamente perfetto.