The village
di M. Night Shyamalan, 2004
Contro ogni aspettativa, e contro il parere freddino riservato dalle platee americane, il nuovo film di Shyamalan è forse il suo capolavoro, capace di superare in un colpo la geniale ricerca di Unbreakable (finora il suo film migliore), e di ampliare un discorso metaforico già introdotto dal non del tutto riuscito (ma sottovalutatissimo) Signs.
Il regista indiano riprende quindi molti dei suoi temi, e in primo piano c’è ancora il contrasto tra identità e alterità, ma li arricchisce con una profonda iconografia fiabesca (il babau, cappuccetto rosso), una dimensione della paura atavica e ancestrale, e uno stuolo di straordinari personaggi, tra cui spicca la vera protagonista, la straordinaria e bellissima Bryce Dallas Howard.
La fotografia è basata su un’assenza cromatica, perché il rosso è un colore vietato. Si crea così una condizione amorfa ed inusuale, e un’atmosfera irreale e sospesa (nel tempo come nello spazio) basata sull’ocra e sul verde, che crea una sensazione di ansia e di insoddisfazione che aiuta a entrare letteralmente nel quadro e che serve a riportare a galla in ogni momento la metafora: il villaggio come regno di una sottrazione. Lo stile è straordinario, ed è quello che ormai conosciamo: ancora i piani lunghissimi e fluidi, ancora la persistenza dello sguardo, ancora la cura maniacale del sonoro.
Impossibile, o comunque molto difficile, trattare e sviscerare i molteplici livelli di lettura di questo film senza rivelare quello che è il "solito" ribaltamento finale: onnipresente in Shyamalan, non è mai un ruffiano impatto, bensì è un trauma spettatoriale che serve per acuire il potere lancinante della sua metafora. Tanto di più in questo film, dove il messaggio ha anche una valenza politica: è infatti un’acuta e lucida riflessione sull’America contemporanea, che getta una luce ombrosa sul presente, e che nasconde la disperazione sotto utopiche speranze.
Si vede che lo sguardo del regista è esterno: ci parla della (ormai sua) America, ma da non-americano. La sua apparizione (riflesso in un vetro, nel finale) è emblematica di ciò, e rimescola decisamente le carte sulla visione politica della vicenda, ponendosi in una posizione "di mezzo", sconcertata e disillusa ma tutto sommato con un briciolo di speranza nelle nuove generazioni, ammorbidendo lo sguardo spietato sul villaggio, e spostando esplicitamente la critica sul presente.
Ma d’altra parte, è anche una storia d’amore complessa e romanticissima, di un’amore che per essere realizzato supera consciamente le proprie paure e sporca la propria innocenza, ma sa anche rompere i giuramenti, gli argini, i confini, per portare il caos (il rosso, che è irrazionalità, ma anche passione, ma anche sangue) all’interno di un idillio basato sull’ipocrisia. Certo deluderà chi si aspetta un horror: ma quando mai Shyamalan ne ha fatto uno?