ottobre 2004

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The village

di M. Night Shyamalan, 2004

Contro ogni aspettativa, e contro il parere freddino riservato dalle platee americane, il nuovo film di Shyamalan è forse il suo capolavoro, capace di superare in un colpo la geniale ricerca di Unbreakable (finora il suo film migliore), e di ampliare un discorso metaforico già introdotto dal non del tutto riuscito (ma sottovalutatissimo) Signs.

Il regista indiano riprende quindi molti dei suoi temi, e in primo piano c’è ancora il contrasto tra identità e alterità, ma li arricchisce con una profonda iconografia fiabesca (il babau, cappuccetto rosso), una dimensione della paura atavica e ancestrale, e uno stuolo di straordinari personaggi, tra cui spicca la vera protagonista, la straordinaria e bellissima Bryce Dallas Howard.

La fotografia è basata su un’assenza cromatica, perché il rosso è un colore vietato. Si crea così una condizione amorfa ed inusuale, e un’atmosfera irreale e sospesa (nel tempo come nello spazio) basata sull’ocra e sul verde, che crea una sensazione di ansia e di insoddisfazione che aiuta a entrare letteralmente nel quadro e che serve a riportare a galla in ogni momento la metafora: il villaggio come regno di una sottrazione. Lo stile è straordinario, ed è quello che ormai conosciamo: ancora i piani lunghissimi e fluidi, ancora la persistenza dello sguardo, ancora la cura maniacale del sonoro.

Impossibile, o comunque molto difficile, trattare e sviscerare i molteplici livelli di lettura di questo film senza rivelare quello che è il "solito" ribaltamento finale: onnipresente in Shyamalan, non è mai un ruffiano impatto, bensì è un trauma spettatoriale che serve per acuire il potere lancinante della sua metafora. Tanto di più in questo film, dove il messaggio ha anche una valenza politica: è infatti un’acuta e lucida riflessione sull’America contemporanea, che getta una luce ombrosa sul presente, e che nasconde la disperazione sotto utopiche speranze.

Si vede che lo sguardo del regista è esterno: ci parla della (ormai sua) America, ma da non-americano. La sua apparizione (riflesso in un vetro, nel finale) è emblematica di ciò, e rimescola decisamente le carte sulla visione politica della vicenda, ponendosi in una posizione "di mezzo", sconcertata e disillusa ma tutto sommato con un briciolo di speranza nelle nuove generazioni, ammorbidendo lo sguardo spietato sul villaggio, e spostando esplicitamente la critica sul presente.

Ma d’altra parte, è anche una storia d’amore complessa e romanticissima, di un’amore che per essere realizzato supera consciamente le proprie paure e sporca la propria innocenza, ma sa anche rompere i giuramenti, gli argini, i confini, per portare il caos (il rosso, che è irrazionalità, ma anche passione, ma anche sangue) all’interno di un idillio basato sull’ipocrisia. Certo deluderà chi si aspetta un horror: ma quando mai Shyamalan ne ha fatto uno?

Bichunmoo

di Kim Young-jun, 2000

Va detto, Bichunmoo non ha proprio tantissime frecce al proprio arco. Prima di tutto, è ellittico e abbastanza confuso: tanto compresso e spezzettato da sembrare un riassunto di un lungo serial. E pazienza. Ma gli attori peccano di credibilità (ma Kim Hee-seon è davvero un miracolo di donna), e la tecnica (bella e complessa, ma trapiantata da Hong Kong) con cui sono dirette le scene di duello, contrasta parecchio con la vocazione fissa e melodrammatica della regia. Un melò travestito da wuxia, insomma, in cui le parti funzionano bene, ma l’insieme scricchiola.

Come ho detto per Volcano high, dove ci sono i soldini della Cinema Service c’è sicuramente qualità. Ma mentre il film di Kim Tae-gyun era solo un’idiozia per ragazzini strafatti, pur basandosi ancora sul mondo dei fumetti, qui c’è almeno il tentativo di approfondire i personaggi, cambiando spesso punto di vista e non disdegnando il trauma, e di dare una vocazione storica decente (tutta coreana) all’insieme. E di essere romantico fino in fondo, fino al finale prevedibile ma inevitabile, la cui forza non è nella lama che trafigge il corpo, ma nella mano che salvaguardia l’innocenza.

Riassumendo: l’alunno non è molto intelligente ma almeno si applica. Su, promosso.

Speravamo che questi due film fossero l’inizio di una serie (ShinVision + Mtv). E potevamo persino accontentarci, ringraziando per le bricioline. E invece, a quanto pare, è già finita. Peccato, per ora è un’occasione perduta.

Starsky & Hutch

di Todd Philips, 2004

Se questo film dimostra qualcosa, è che Ben Stiller e Owen Wilson, seppur entrambi bravissimi (soprattutto il secondo), non bastano a se stessi. Se non c’è dietro un impianto immaginativo coerente (anche demenziale, come quello di Zoolander), se non addirittura il genio di un Wes Anderson (vedasi alla voce Tenenbaum), il film cola a picco. Per queste ragioni non stento ad attribuire la colpa per la mala riuscita di questo film al regista, già responsabile dell’orrendo Road trip. Si fa spesso così, adattiamoci.

Starsky e Hutch è insomma un’occasione sprecata. D’accordo, la si butta sulla parodia e sulla demitizzazione, più che sulla malinconia cultural-televisiva; e sarebbe anche un bene. Ma poi alla fine puntare solo sullo charme di coppia ormai consolidato dei due attori, davvero stavolta non basta.

A parte qualche bel momento (come la scena della cocaina-zucchero, dove Stiller dà tutto se stesso, il filologico inseguimento finale, o l’incontro paradossale con Glaser e Soul), non ci si diverte nemmeno un granché: noiosetto e inessenziale.

[amore a seconda vista]

 

 

 

 

Non si sevizia un paperino

di Lucio Fulci, 1973

Oggetto di culto paragenerazionale, il primo vero thriller di Fulci è teso e abilissimo, visivamente solare e terrigno, inquietante e malsano nelle situazioni (infanticidi, accenni di pedofilia, eccetera), che però nasconde (non troppo) una riflessione, lucida e non banale, sul ruolo fondativo dell’irrazionale nella società. E forse dice persino qualcosa sulla perdita dell’innocenza.

La Bouchet e Milian, incredibile a dirsi, erano davvero nella parte. Un colpo di genio (quello sì davvero cult, e celeberrimo) l’allegro massacro della Bolkan sulle note di Ornella Vanoni, e davvero sorprendente il finale.

Io la conoscevo bene

di Antonio Pietrangeli, 1965

Forse solo Nicola si ricorda di quanto io sia corso dietro a questo film durante quest’anno. Ne ho comunque parlato qui (altro film di Pietrangeli) e qui. Grazie al benedetto OffiCinema bolognese ieri sera l’ho finalmente visto. Nicola ha segnalato a sua volta questo film: seguitene i link.

Io la conoscevo bene è un affresco desolante e caustico di un universo (non solo maschile) regolato da rapporti sociali basati sulla perdita dell’identità, sull’umiliazione, sulla prostituzione dell’individuo. E uno straordinario ritratto di ragazza: qui la Sandrelli (sorta di corrispettivo italiano della nanà godardiana) era semplicemente divina, sempre capace, trauma dopo trauma, di rinnovare il suo sguardo e il suo spirito consapevolmente ottimista. Per non parlare del brevissimo Tognazzi: geniale e illuminante.

Antonio Pietrangeli, autore dai più dimenticato, era davvero un grandissimo regista. E’ la sua regia è il vero cuore del film, per il suo sguardo su Adriana e sul mondo che le sta intorno (le parole dello scrittore, suo alter ego, chiariscono poi il suo punto di vista con affetto e intelligenza). E per il modo, etico ed emozionale al tempo stesso, in cui utilizza l’inquadratura e il movimento di macchina.

Girato e montato con una libertà scioccante (l’interminabile viaggio in 500 verso la fine, gli sguardi in macchina, i flashback che arrivano all’improvviso e allo stesso modo si chiudono) ma senza alcun virtuosismo gratuito, bensì con un rigore eccellente e senza nessuna sbavatura, il film è costituito da una moltitudine di accadimenti, in cui si alternano commedia e dramma, idillio e trauma. La sensazione che se ne ricava è di sospensione e implosione, un senso di malessere crescente che viene poi liberato nel finale, che è (per quanto atteso) un pugno nello stomaco.

Tre tra le tante scene indimenticabili: la delirante lezione di dizione (in cui la macchina da presa entra in un cortocircuito fuoriuscente dai meccanismi della commedia), il ricordo della sorella (zucchero nella birra…) e la scena dell’incidente, che mette i brividi e getta il primo presagio di morte sul destino della giovane Adriana.

Splendido.

Per Gas (mio compagno di visione): visto quanto ne abbiamo parlato ieri notte, voglio un commento lungo. Poi tu sei uno scrittore della madonna, saprai sicuramente esprimerti meglio di me.

Ran

di Akira Kurosawa, 1985

Devo ammetterlo, all’inizio il King Lear riletto sotto la luce del teatro Nô, non convinceva del tutto. Ma basta il tempo di abituare l’occhio e la mente, ed arriva la sequenza dell’assalto al terzo castello. E’ una sequenza più che perfetta, un massacro astratto fatto di grandi macchie rosse e bandiere, frecce e corpi lasciati morire appesi, un lugubre e macabro affresco boschiano accompagnato da una musica (di contrasto) funebre e solenne. Straordinario.

Da lì in poi il film è tutto in salita, con il personaggio terribile e vendicativo di Lady Kaede (l’inquietante, bellissima, bravissima Mieko Harada) e il suo sangue ad illuminare di rosso il muro. E il viaggio metafisico sui luoghi della memoria e della colpa del vecchissimo re (interpretato da Tatsuya Nakadai, che ai tempi era poco più che cinquantenne) e dal suo buffone: personaggio straordinario, rilettura cinica del guitto shakespeariano.

Incredibile il finale, con la sua riflessione sul legame tra storia e violenza, e con quell’immagine, molto più che suggestiva, del cieco sull’orlo del baratro.

Sonatine

di Takeshi Kitano, 1993

Sonatine, secondo solo ad Hana-Bi (e in un certo senso, diverso, a Dolls e a Violent cop) nel mio cuore kitaniano, è un film di una tale bellezza che trascende la mia capacità di spiegarvela.

Quel gioco sulla spiaggia. Quel sogno e quello sparo. Quel terribile ascensore. Al quarto film, c’era già tutto Kitano.

Capolavoro, ma che ve lo dico a fare.

 

(tralasciamo ogni polemica sul titolo: si è già fatta…)

Eternal Sunshine of the Spotless Mind

(Se mi lasci ti cancello)


di Michel Gondry, 2004

"Joel, nascondimi nell’umiliazione!"

Il viaggio all’interno di un uomo, della sua mente addormentata. Joel è un uomo che cerca in tutti i modi di tenere vivo un ricordo. Il senso di colpa, la seconda occasione. Ma non solo. Alla visione unitaria del corpo (il corpo pieno, il cervello e il cuore) si sovrappone e si oppone una visione atomistica, se vogliamo informatica, per cui i ricordi sono particelle monadiche pronte ad essere rimosse.

Lo dico a scanso di equivoci: Eternal sunshine è un capolavoro. Il cult screenwriter Charlie Kaufman supera decisamente lo stupore neosurrealista di Essere John Malkovich e si innalza, raggiungendo una sorta di vetta poetica che non tocca solo il suo cinema ma anche l’intero cinema americano contemporaneo, imponendosi autorialmente per la ricerca estrema all’interno e all’esterno dei linguaggi che costituiscono il mezzo-cinema. Il suo è un cinema rischioso, ma pieno di coraggio e di vita, e che finalmente è maturo, liberato delle catene letterarie di Adaption.

I tempi narrativi: il mondo fuori dalla mente in "fase di candeggio" di Joel procede lineare, con i suoi traumi e le sue scoperte. Intanto, il mondo dentro la sua mente, dove si corre (letteralmente) a ritroso, con uno spirito random che spiazza (il complesso edipico/erotico infantile), mentre intorno (gli oggetti, gli individui, tocchi geniali come i titoli dei libri o le scritte) perde ogni sua forma e sparisce come risucchiato. L’azione del rimosso, "come una sbronza", colpisce l’individuo intaccando o cancellando i piccoli spunti. Ma sono proprio queste particelle di memoria, ricollegata al cuore da un filo preciso mai spezzato, a rendere tale un essere umano.

Basterebbe, per amare questo film, anche solo il lavoro che Michel Gondry fa sulle prolessi, distruggendo ogni statuto linguistico sul flashback, e ricreandone di nuovi, riuscendo a tradire le aspettative temporali del pubblico ma dandogli sempre precisi riferimenti che gli permettono di non perdersi tra le acque. I fiumi dell’infinita letizia sono perigliosi e ingrati solo in apparenza: sotto al delirio di superficie c’è una lucidità registica e narrativa che non ci si sarebbe aspettati da un regista di videoclip. E chiudendo il film senza deus ex machina, ma con ammirevole coerenza.

La condizione del corpo attoriale, poi: sgretolata. All’interno della mente di Joel "tutti sono lui", la Winslet è un fantasma, e molto di ciò a cui si assiste è una sorta di paradossale soliloquio. E più semplicemente, Gondry riesce in quello che già era riuscito a Jonze e Kaufman in Essere JM, ma lì solo per qualche istante: carpire in modo solido e visionario al tempo stesso "la natura stessa di cui sono fatti i sogni".

Questo film è stracolmo di spunti ed è di una complessità imbarazzante. Ma non vorrei strafare…

Ma non basta la ricerca kaufmaniana sui procedimenti narrativi (già presente in modo molto maturo nelle due collaborazioni con Jonze), e nemmeno quella gondryana sui canoni linguistici. Il motivo ultimo per cui questo film è un capolavoro, è che contiene ciò che nel Ladro di orchidee era tralasciato per eccesso di sceneggiatura, ciò che era solo tratteggiato, e calpestato dal simbolismo, in Essere John Malkovich: l’emozione.

L’esasperato romanticismo è così diretto, sincero e istintivo da essere inappellabilmente alternativo: al freddo e intellettualizzato rapporto di coppia post-alleniano così come alla carnale e (spesso) deficiente sessuofobia post-aids. L’amore in Eternal sunshine è invece inusuale, perché è accettazione, perché nasce dal dolore, dalla condivisione del male altrui, con una risata finale che è anche triste e malinconica, e con una lacrima che è anche liberatoria e piena di speranza, individuale e collettiva.

Lo ammetto: mi sono innamorato.

[OT: back to life]


Sì, niente aggiornamenti neanche oggi, a causa dell’esame che mi ha portato via la mattinata e gran parte delle mie energie.


Ne approfitto per ricordare che sul blog del raduno si attendono conferme (anche per i nuovi arrivati). Fatevi sentire.


E segnalo l’ultimo post dell’amico Rat. Ne esce quasi un affettuoso ritratto di famiglia. Bellissimo.
[Magari potessimo esserci tutti, a quel raduno...]


Io, robot (I, robot)

di Alex Proyas, 2004

Va detto: nonostante l’ispirazione letteraria dichiarata (nei credits) e quella spirituale mostrata (nel film: le 3 leggi della robotica, l’evoluzione e la rivoluzione), Asimov è molto lontano. Era più presente nell’uomo bicentenario di Columbus, che tuttavia era una porcheria.

Invece questo I, robot non è un film stupido (era la mia maggior paura), e ci si diverte parecchio. E se, come sembra davvero, questo era l’intento, non si può non promuovere il film, davvero godibile, con un sottofondo ironico che non annoia, nonostante Will Smith sia veramente troppo se stesso e le sue frasi ad effetto siano fuori dal tempo.

Senza menate melodrammatiche, senza sottotesti non richiesti. Ma, viste le premesse e i nomi coinvolti, senza entusiasmi. Proyas infatti sembra dimenticare molte delle sue doti: Il Corvo era un bel fumettone dark (a mio avviso sottovalutato) e Dark City uno dei film essenziali per capire l’istituto del dubbio sul reale nel cinema degli anni ’90: un mezzo capolavoro, iconograficamente inarrivabile e copiatissimo. Qui non c’è nè particolare fumettizzazione (e non si esce quasi mai dal territorio del puro cinema fantironicaction) nè cura iconografica (ricalcata da artifizi altri, postlanghiani, come quelli di Minority report).

In I, Robot, Proyas ha preferito la strada (lastricata d’oro) di una competente e lucida professionalità. Anche se qualche volta ne viene fuori: l’inizio anti-tecnologico (con il corpo nudo gonfio di Smith, la musica di Stevie Wonder e le il feticcio delle Converse All-Star), la scena in cui si scontrano in strada l’esercito di robot e gli umani (che sembra cascata lì per caso ma non stona affatto), e l’anarchia frastornante e vorticosa del finale, che fa persino perdonare al finale il suo essere così fracassone.

Volcano high (Whasango)

di Tae-gyun Kim, 2001

Più che un anime in carne ed ossa, è praticamente un manga filmato (è ha la sua consistenza: carta velina), sull’orme di fumetti di arti marziali di ambientazione liceale (qualcuno sa il termine tecnico?). Sembra di leggere l’intera serie di Inferno e paradiso (cito una che conosco) racchiusa in un’ora e mezza: violenza e personaggi cartooneschi, e una stupidità diffusa che spesso (forse fortunatamente) sfocia in pura farsa. Inutile cercare le allegorie politiche di un Fukasaku: l’obiettivo è stordire e, per quanto possibile, divertire.

La confezione è molto professionale (è pur sempre un prodotto della Cinema Service), e non si può negare che dall’eccesso scaturisca qualche momento divertente (come la scena del bagno o l’arrivo dei 5 professori supercattivi). Io poi con queste cazzate ghigno parecchio. Però è il tipo di film che trasmette in occidente (soprattutto da noi ignoranti italiani) un’idea erronea del cinema coreano.

[polemichette]


E’ importante, con i propri scarsi mezzi, fare un po’ di chiarezza, quando si può, in un paese dove si è persa (se mai si è avuta) la capacità di fare promozione cinematografica in modo serio e professionale, e dove uno dei film americani più incensati (e probabilmente più interessanti, si vedrà) degli ultimi anni, Eternal sunshine of the spotless mind (L’eterna luce della mente immacolata, una citazione da Pope), diretto da Michel Gondry (!) e scritto da Charlie Kaufman (!), esce con il titolo vergognoso di Se mi lasci ti cancello.


Credo che la polemichetta funzioni anche da sola. Buona visione.


Links: IH, Spietati, Cinemavvenire, Reflections, Cinemazone.

Come Harry divenne un albero (How Harry Became a Tree)

di Goran Paskaljevic, 2001

Una favola cinese trapiantata in Irlanda da un regista serbo. Un uomo si misura dai suoi nemici, e così il contadino vedovo Harry Maloney decide che George, uomo ricco e amato da tutti, sarà il suo.

Senz’altro quest’opera internazionale affonda le sue radici in profondità, mostrando il ritratto di un uomo che trova nell’odio la sua ragione di vita, e (con meno interesse) di suo figlio, schiacciato dall’assenza dell’amore, che è incapace ad esprimere.

Peccato che il risultato sia troppo impantanato nella sua natura allegorica e non possieda alcun ritmo, nonostante la bella fotografia di Milan Spasic, e l’interpretazione giogionesca (a voi decidere se sia un tratto positivo) di Colm Meaney. Forse troppo dramma e meno ironia del dovuto, chi lo sa. Comunque La polveriera era un’altra cosa.


Francois
Truffaut


n 6 Febbraio 1932
m 21 Ottobre 1984






 


 



Sta’ fermo, muori e resuscita! (Zamri, umri, voskresni!)

di Vitali Kanevski, 1989

In un villaggio-gulag siberiano, il dodicenne Valenka (lo straordinario Pavel Nazarov) cerca di sopravvivere ad un mondo adulto che, vittima della guerra appena trascorsa e della perdità della libertà, sembra impazzito e fuori rotta. Una salvezza che sembra stare nella negata dimensione del gioco (quei pattini rubati), nel rapporto con l’amica Galia, in una fuga che prevede già il ritorno.

Un film fatto di fango e neve, di volti e luci, crudo e intenso ma senza patteggiamenti, grezzo e diretto ma sottilmente allegorico, a tratti insostenibile per la durezza con cui ritrae e affronta la perdita della dignità e dell’identità. Ma sotto al linguaggio scarnificato, si nasconde una regia profondamente morale: forse per questo, nel finale, si ritrae e distacca il suo sguardo filmico di fronte al massimo dolore.

Se volete saperne di più, seguite i link di Nicola

Provaci ancora, Sam (Play it again, Sam)

di Herbert Ross, 1972

Questo film di Woody Allen porta la regia di Ross. Ho forti dubbi che il già grandissimo comico americano avrebbe saputo gestire una forma complessa come questa, fatta di realtà e sogni, satira e cinema, visioni distorte della vita e fervide immaginazioni che prendono vita.

E forse è davvero un bene che si perda la vena caricaturale e naif dei suoi film di quegli anni (quella di Bananas e Sleeper…). La forma più stabile e professionale aiuta a godersi una tra le sceneggiature più geniali scritte da Allen, spiritosa e intelligente, acuta e romantica , e stracolma di amore per il cinema.

L’adattamento italiano è tra i più vergognosi, e foriero di celebri aneddoti: il protagonista infatti si chiama Allan, non Sam, che è invece il pianista di Casablanca. Quando gli editori ci prendevano per il culo. anche se ora lo fanno soprattutto i distributori [vedi i recenti casi di Zhang, Panahi, Kaurismaki...].

La sposa turca (Gegen die wand)

di Fatih Akin, 2004

Gegen die wand, trionfatore alla Berlinale di quest’anno, sconta l’incapacità di dare una coesione ai generi. Parte come commedia inter-etnica (strappando qualche sorriso, soprattutto per il tono truce e suburbano). Poi prende poi una piega melodrammatica che rende il film, nonostante il ritmo acceso e molte buone idee, abbastanza noiosetto.

I generi si possono mischiare, ma ci vuole talento e capacità per farlo, doti che forse mancano ad Akin. Tanto più che la sua furia compositiva non porta alla compressione degli eventi, bensì a una struttura ellittica che, ammessa l’originalità, lascia da parte fattori essenziali per comprendere i personaggi e i loro cambiamenti interiori. Il risultato è una sensazione di incoerenza o comunque la perdità di una qualsiasi credibilità.

Il danno peggiore è quello portato al bel personaggio di Sibel, non solo imbruttendola (a Amburgo è uno schianto, a Instambul un cesso) ma anche e soprattutto distruggendo quello che era affascinante in lei: la sua vitalità, distruttiva e anarchica, si trasforma in una smania autodistruttiva che porta a terribili conseguenze (con uno spirito gore fuori misura).

Il finale (tolta la bella immagine disperata dei due corpi nudi in una tetra stanza turca) ha una gran parte nella mia delusione. Perché, visti gli sviluppi, mi aspettavo un finale simile, era anzi quasi scontato. Però, fino all’ultimo, ci speravo. Almeno quello. Niente da fare.

nota: La sposa turca è l’orso d’oro 2004. Questo l’orso d’argento 2004. Il "contentino Kim Ki-Duk". Berlino come Venezia. Un po’ di coraggio, no?

Il segno degli Hannan (Last embrace)

di Jonathan Demme, 1979

Uno dei primi film di Jonathan Demme dopo l’uscita dalla Corman factory (in cui aveva firmato due o tre operette deliranti che cercherò invano a vita) è semplicemente un omaggio ai canoni del cinema Hitchcockiano.

Questo Last embrace è infatti narrativamente (e in alcuni passaggi in modo sottolineato) una sorta di semi-remake di Vertigo (c’è persino la torre, e altro che non voglio rivelare); le musiche (bellissime) di Ròsza si rifanno ad Herrmann; c’è qualche tocco di North by northwest (l’uomo braccato, le cascate del Niagara come Rushmore); lo stesso stile nel tratteggio dei personaggi (lui ha superato un trauma, lei nasconde un segreto); c’è persino una citazione da Psyco (la doccia, ovviamente).

Tutto questo è interessante, ma il film com’è? Non c’è solo citazionismo: c’è un enorme talento nella costruzione della suspence (quello che sfrutterà al meglio nell’attualmente insuperato Silenzio degli Innocenti), nella direzione d’attori, e una capacità di utilizzare canoni già sperimentati, ma riuscendo a plasmarli e a riempirli di nuovo senso. Non c’è che dire, un gran bel film.

Il dvd della Alan Young Pictures è ottimo (tra gli extra una chicca mica da ridere). Il film è preceduto da un annuncio in cui la produzione si scusa se la colonna audio italiana fa schifo. Pazienza, tanto io l’ho visto in inglese. Però, che modello di umiltà. Imparate gente, imparate!

Come inguaiammo il cinema italiano

di Daniele Ciprì
e Franco Maresco, 2004

"Vogliamo ridere! Adesso!"

Il film che i due genialoidi autori siciliani Daniele Ciprì e Franco Maresco dedicano alle figure storiche e discusse di Franchi e Ingrassia, è un documentario serio e professionale, ma inevitabilmente condito di un pizzico di follia. Filologico e meticoloso, perfettamente lineare nella costruzione dell’indagine, e estremamente sincero sulla distinzione tra valore artistico e culturale, non si risparmia quadretti "alla cinico tv" ("Gonni!" "Gorny!") e un diffuso sarcasmo, soprattutto nei confronti della critica ufficiale, che si presta autoronicamente. Fofi e Kezich in prima linea, per non parlare del "giovane critico" (e qui mi zittisco, meglio).

Quello che ne esce non è lo sdoganamento ufficiale del trash di cui tutti parlano (complice la retrospettiva veneziana), ma il ritratto di due artisti di strada divenuti fenomeno di massa, di due marionette (snodato l’uno, legnoso l’altro) spremute fino all’osso e poi dimenticate (per cosa, poi?), il malinconico accenno ad "un’occasione sprecata", forse per la troppa furia commerciale, forse per una carenza di talento, forse per un’innata tendenza a sopravvalutarsi. E infine la morte: che ci passa davanti ma che i due autori ci invitano ad ignorare. Con una grassa risata.

Inserito più decisamente nella linea documentaristica dei due registi (quella di Noi e il Duca, che non ho visto) che in quella finzionale (che preferisco), il film non è altro che un ottimo documentario. Ma basta e avanza. Per quanto riguarda il coinvolgimento emotivo, non mi sono mai vergognato a ridere come un imbecille con i loro film (per quanto siano in gran parte orribili). Ieri sera, stessa reazione: mi sono davvero spanciato.