
Hero (Ying xiong)
di Zhang Yimou, 2002
Due donne che lottano nella natura e con la natura, le foglie gialle che si fanno arma e scudo, e infine la ferita e la caduta. Una goccia di sangue cade a terra, e sembra corrompere il mondo. I colori dell’autunno si fanno rossi, e tutto all’improvviso diviene del colore del sangue, come la veste della donna che cade, e che muore.
Questa sequenza, forse la più bella del film, è metonimicamente esemplificativa dell’ultimo film di Zhang Yimou. Grazie al genio di Christopher Doyle (direttore della fotografia), che non mi stancherò mai di incensare, ma anche alla grande personalità e professionalità di Zhang, il film è un’esperienza visiva totalmente appagante, un viaggio estatico che, a costo di immergercisi a fondo, in alcuni punti sfiora l’estasi.
Sono molte le sequenze perfette e indimenticabili, spesso per le scelte cromatiche di Doyle, che hanno la dote rara di non "staccare" (pur essendo divise tra loro sotto molti punti di vista) e non sembrare meri pezzi di bravura: come i due combattimenti "mentali" (un tempio e un lago), la suddetta scena in mezzo alle foglie, e soprattutto quel lungo e irresistibile flashback virato in verde.
Perché allora il film non è del tutto soddisfacente? Tutto è relativo: Hero è un ottimo film, ma non è il capolavoro che avrebbe potuto essere. E’ un’opera che spreca parte del suo enorme potenziale, o almeno che gioca le sue carte in un modo che avremmo voluto vedere diverso. Come con gli attori: tutta la partita si gioca sulle spalle del guerriero SenzaNome (e sul suo viso tombale), ma Leung e la Cheung (persino la bellissima Zhang Ziyi) hanno un carisma che vale mille Jet Li.
Operazione produttivamente simile a La tigre e il dragone (lo sentirete da ogni parte), Hero porta comunque a risultati differenti: ne fa le spese, ed è in qualche modo una fortuna, l’occidentalità di Lee (ma non l’esportabilità), ma si perde anche quella sensazione malinconica e crepuscolare che dava all’opera di Lee la sensazione di aver sfiorato una cima (forse un punto di non-ritorno) che Zhang avvicina ma non riesce a toccare.
Personalmente, quando vedo dei corpi danzare e lottare in questo modo (per inciso: perfetto, non dico altro), vado in visibillio. Se fosse per me, guarderei film come Hero a ripetizione fino a svenire, a prescindere dal loro valore estrinseco. Ma bisogna essere obiettivi: non giovano la ripetitività e vuotezza (seppur necessaria) della prima parte, e una certa superficialità nei temi (importanti e profondi, ma un po’ timidamente in disparte). L’espediente-Rashomon è arguto e dà una sferzata di intelligenza al film: ma è pur sempre un espediente precotto.
Le cose più interessanti, che glorificano la prima parte al di là della stracitata goduria estetica, sono alcuni elementi autoriflessivi (o presunti tali): "l’arte della spada è come la musica", ed "è come la calligrafia", ovvero l’arte (ovvero il cinema?). Da un punto di vista emozionale, i brividi li danno quasi tutti quelle stupende facce da cinema che sono Tony Leung e Maggie Cheung, due guerrieri coinvolti (loro malgrado?) in una storia di amore e morte. E, dato l’espediente della molteplicità dei racconti (alla Rashomon, appunto), costretti a morire di continuo.
Davvero straordinario il finale, funebre e astratto, con quel corpo coperto da un drappo rosso e quell’assenza tra le armi: si dà finalmente un senso vero all’aleatorietà del racconto epico. Una leggenda non è illusoria in quanto tale? Quanto vale la corporeità del mito? L’eroe senza nome è anche un’eroe senza corpo?
In giro c’è chi ne parla molto bene, chi lo distrugge, chi ne parla maluccio, chi non si sbilancia troppo, chi la pensa più o meno come me (con qualche riserva in più). Attendo i cinebloggers.