ottobre 2004

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Gli invasati (The haunting)

di Robert Wise, 1963

Recuperato in biblioteca dopo qualche ricerca (in inglese senza sottotitoli: basta un po’ di attenzione, no?), spinto ulteriormente alla scelta da Final cut, il film di Robert Wise si è rivelato degno della sua enorme fama: uno splendido gotico americano, con ambientazioni e caratterizzazioni perfetta, una capacità raggiunta poche volte di raggelare senza l’ausilio di effetti speciali.

Basta una tecnica imprescindibile (con un’immobilità quasi teatrale rotta da improvvisi movimenti di macchina), i volti impauriti dei protagonisti (grandissime la Harris e la Bloom), i micidiali battiti sulla porta chiusa. E in più, una fotografia notturna e intelligente, e una dissertazione completa e affascinante sulla paranoia e sul senso di colpa (perfetto, e non è facile, l’uso della voce fuori campo).

L’incipit è da antologia della storia del cinema. Un vero gioiello. Non mi sorprende che Nicola Moroni lo ami tanto

Collateral

di Michael Mann, 2004

“Mi dispiace”

“Mi dispiace non ricompone i pezzi di Humpty Dumpty”.

Finalmente, ancora, Micheal Mann. Collateral non è un semplice thriller, non è un mero film d’azione: è un bellissimo, complesso, nerissimo ritratto della città di notte, e dei suoi abitanti. Dopo una partenza sinuosa, tra soul e Bach, arriva Vincent sulla vettura dell’ottimista tassista Max. E il mondo di Max crolla “come corpo morto cade”, interrompendo la “aria sulla quarta corda” e ingranando una marcia (rock) che non si fermerà più.

Già dai primi scambi tra Cruise e Foxx (il protagonista vero è comunque solo il secondo, nonostante lo charme di Tom Cruise), dove Vincent racconta la storia di un uomo morto in metropolitana ignorato da tutti, si comprende il tema portante del film: la città, metonimia del mondo, è il luogo dell’indifferenza e dell’individualismo.

Sarà compito di Max rompere questa convenzione, in cui è inserito suo malgrado e inconsapevolmente: la madre lo descrive infatti solitario e silenzioso, e un tassista non è che la quintessenza della solitudine urbana, con i suoi microrapporti incapaci di andare oltre quei finestrini che ti proteggono dal mondo vero. E Vincent, non a caso, è un appassionato di jazz, che, oltre che improvvisazione (come si dice nel film), è il genere solipsista per eccellenza..

Per quanto io continui a preferire la pellicola, Mann fa un uso sublime del digitale: d’altronde, il film è filmato tutto di notte, e la pellicola, ovviamente, non gli avrebbe permesso di lavorare con una tale libertà, e con qualche marchio di fabbrica (i piccoli zoom nervosi, le riprese appiccicate alle nuche dei personaggi) che mostra ancora una volta la sua indipendenza espressiva e la sua enorme personalità. In più, due protagonisti bravissimi (nonostante siano fuori ruolo o proprio per questo?), e un amore di colonna sonora: (bellissimo il pezzo dei Green Car Motel sui titoli di coda).

Non manca l’ironia e i momenti di quiete, ma con la senzazione viva di una quiete prima della tempesta. Sono queste forse le scene più belle del film, come quella buffa ma tesissima dell’ospedale (che si conclude in una fuga) e quella geniale del locale di jazz (che termina con uno sparo). E comunque il ritmo è sempre elevatissimo: Micheael Mann, oltre che grande autore americano, si riconferma (se ce ne fosse stato bisogno) un grandissimo regista d’azione: e lo dimostra l’ultima lunghissima sequenza, emozionantissima e senza un momento di respiro.

Forse Mann non è ai livelli sublimi di Manhunter (ancora il suo capolavoro?) ed è apparentemente meno ricercato di meraviglie come Alì o Insider (su Heat non mi pronuncio: mi manca), ma Collateral è davvero un bellissimo film. Francamente inattaccabile.

Ring 0 – Birthday (Ringu 0: Bâsudei)

di Norio Tsuruta, 2000

Il terzo capitolo della sagata suzukiana del pozzo maledetto è un prequel, ed è una schifezzuola. Non solo perché Tsuruta non ha lo stile, il rigore, l’immaginazione di Nakata, ma anche e semplicemente perché invece di divertire (dote che, con i suoi difetti, non mancava nemmeno al capitolo secondo), annoia terribilmente, con un sacco di rifritte manfrine su vita e rappresentazione.

Qualche breve spavento all’inizio e alla fine: ma già derivativi. Per il resto, calma piatta: che bisogno c’era di scoprire il volto di Sadako (qui non più Rie Inou, ma Yukie Nakama), quando la sua natura era quella dell’invisibilità afisiognomica (si può dire?), con quell’occhio terrificante che spuntava tra i lunghi capelli neri?

Semplicemente, di nessun interesse.

Questo è il terzo post della giornata. Non ignorate i precedenti, che sono più noti e comunque più rintracciabili.

Hypnosis (Saimin)

di
Masayuki Ochiai, 1999

Saimin è un thriller che procedendo si vena di soprannaturale, e che risulta alla fine un viaggio negli inferi della mente molto pessimista (come spesso accade). Dopo una partenza molto promettente (e trucidissima), il film si appanna un pochino nella parte di detection (anche perché la trama è intricata e confusa), ma tira fuori le sue vere armi quando spunta l’horror (il turning point è l’urlo di Yuke nel commissariato), e il film diventa più appassionante, forse proprio perché sottilmente delirante (e non ci è negato qualche sano spavento).

Chissà perché, ma ci sono molte citazioni da Hitchcock, alcune visibili davvero a occhio nudo: certe musiche sono dichiaratamente herrmanniane; la scena del teatro viene dritta dritta da L’uomo che sapeva troppo; il pre-finale appeso alla finestra si rifà a Intrigo internazionale. Sempre in tema di citazioni, curiosa quella evidente di Seven + Arancia Meccanica, nella scena in cui viene ritrovato Mouse.

Un film curioso e originale, abbastanza ingenuotto nel trattare la sua materia, ma in fondo piuttosto divertente.

Se volete saperne di più, rivolgetevi al proprietario di questo dvd.

Sanjuro (Tsubaki Sanjûrô)

di Akira Kurosawa, 1962

Sanjuro è il sequel del proto-leoniano Yojimbo meglio noto come La sfida dei samurai (curiosi i miei percorsi cinefili, eh?).

Divertente e ironico "western di katane", è dominato dalla figura di Tsubaki Sanjûrô, samurai anarchico e sornione (indimenticabile la scena in cui cerca inutilmente di dormire) ma valoroso e onesto, interpretato da Toshirô Mifune: un gigante.

Ovviamente curatissimo, soprattutto nella costruzione dell’inquadratura (che prevede spesso molti personaggi al suo interno), non lascia un minuto di tregua sia narrativamente che visivamente, alternando il piacere dell’ilarità improvvisa (i nove congiurati che restano sempre ammutoliti di fronte alle sentenze di Sanjûrô) a scene di grande intensità. Come i duelli fulminanti, tra cui spicca quello che conclude il film: una lunga attesa immobile, un colpo e una doccia di sangue.

Un vero spasso.

Gli anni in tasca (L’argent de poche)

di
François Truffaut, 1976

Truffaut dipinge un tratteggio leggero e intelligentissimo di una fetta di infanzia che se ne va (non per niente, sta per iniziare l’estate), e lo fa con una padronanza impressionante dei canoni della coralità (perfetti alcuni piani sequenza, ma lo stile è vario e mai risaputo). Ma soprattutto con un affetto e un rispetto inauditi e ammirevoli, che fuoriescono anche solo dal modo in cui li riprende (vicinissimo ma senza violarli), in cui affronta il dramma di Julien, e infine dal bel monologo del professore (Jean-François Stévenin, evidente alter-ego del regista).

Una valanga di scene bellissime, ma non frammentate e separate come si potrebbe pensare. Tra tutte, quella del bambino volante ("Gregory ha fatto boom!"), quella dell’interrogazione con gli occhi sull’orologio (salvato dalla campanella…), quella del monologo molieriano ("al ladro al ladro…"), quella geniale del cinema (quasi un gag da cinema muto). E molte altre.

[remainder]

Domani, tra le altre varie cose, esce nei cinema "Volevo solo dormirle addossso", il film di Eugenio Cappuccio con Giorgio Pasotti.

Volevo solo ricordare che ne ho già parlato brevemente (e ne ho parlato maluccio) da Venezia.

La mala educación

di Pedro Almodòvar, 2004

"Io non credo in Dio! Sono un edonista."

"Cos’è?"

"Sono quelli a cui piace divertirsi. L’ho letto sull’enciclopedia"

Ignacio ed Enrique, Manolo e Ignacio, Manuel e Juan, "La visita" e "La visita": chi non ha visto non capirà molto (meglio così), ma La mala educaciòn fa girare la testa, per il modo in cui è concepito. La struttura è basata sulla confusione (nostra, ma non solo) tra vita e cinema, con molti livelli di realtà che si intersecano tra di loro: prima di tutto il reale e il filmico (al tempo stesso metacinema e immagine mentale provocata da una lettura), e all’interno di quest’ultimo il presente e il ricordo (anch’esso a sua volta immagine mentale di matrice letteraria).

Tolto tutto questo, il film è sostanzialmente un melodramma, ma dichiaratamente noir: nella seconda parte un cinema dove due personaggi si nascondono proietta una rassegna di "cinema negro". Un personaggio dice: "Mi sembra che tutti questi film parlino di noi". Come a dire: è questo film a parlare di tutti quei film, dell’universo di di Hawks e Wilder, di quell’immaginario. Certo, un noir un po’ inusuale. Ma c’è l’intrigo di coppia e il tradimento, il mistero del doppio svelato, il gioco perverso delle identità, l’omicidio passionale.

Almodòvar è (ancora) un grande regista, non si può negare. La mala educaciòn è però un film tutto di testa, occupato ad affastellare piani diegetici, prolessi e analessi, film e vita, mescolati con una maestria ineccepibile e senza una sbavatura. Concentrato negli sforzi per parlare solo e unicamente di passione e ossessione (rendendo sterile ogni polemica sui preti pedofili), lascia però un po’ da parte quell’intensità melodrammatica che avevamo amato nei suoi ultimi due capolavori.

E resta un’opera straziante ma molto ironica, genialoide ma molto matura, molto dura e certamente molto bella. Ma sicuramente più asciutta e glaciale di quanto avremmo voluto che fosse.

nota: Gael Garcìa Bernal mi ha fatto l’effetto che mi fece Jaye Davidson in The crying game: quest’uomo è una gran bella donna. Bravo bravo, comunque.

[s-fog]


Come direbbe Gughi de Marinis: “non ho niente contro Giuliano Ferrara. Anzi, sono preoccupato per lui”.


Faccio di rado una cosa alla volta, soprattutto quando una delle cose che faccio è guardare la tv, e ho intravisto la puntata di ieri di 8 e mezzo. Lo so che le marchette pagano, ma invece di andare in televisione a dire, riguardo al film di Almodòvar, una valanga di stronzate su scandali cinematografici che non esistono, e attacchi alla chiesa e all’occidente totalmente immaginari, sarebbe meglio che certa gente qualche volta se ne stesse dall’altra parte dello schermo. Oppure, prima, lo andasse a vedere, il benedetto (o maledetto) film.


Non ho davvero niente contro Giuliano Ferrara. Si può discuterlo ideologicamente, ma fa il suo lavoro (e una trasmissione interessante). Ma il cinema no, cazzo, lascialo perdere. Sarebbe bello, santiddio, che di cinema, in tv, ne parlasse ogni tanto della gente competente. Non i Ferrara, non i Vespa. Per tacer di Marzullo.

Interiors

di Woody Allen, 1978

Gruppo di famiglia in "interni (interiors), così perfetti e controllati, ma privi di una stanza per le emozioni", con una messa in scena che è davvero il cuore dei personaggi, intellettuali asciugati e rinchiusi nelle loro stesse ossessioni.

Scritto in modo rigoroso e perfetto, e girato con uno straordinario senso dell’assenza e del vuoto. Geometrico e teatrale, è tanto glaciale da risultare spesso insostenibile. Ma non si risparmia i brividi, come il primo incontro con Pearl, in cui i protagonisti si dimostrano già cadaveri di fronte a quella che è la vita vera (e l’America vera); e qualche colpo di genio: come la scena del matrimonio, autentico turning point in cui tutte le certezze collassano in un ballo jazz e in un vaso rotto.

Il primo film "bergmaniano" (e ibseniano) di Allen, un tantino ombelicale, non è il Woody che preferisco (quello di Amore e guerra, di Io e Annie, di Hannah e le sue sorelle). Ma se le sue ultime opere avessero anche solo la metà dello spessore di Interiors, non saremmo così disperati per la perdita di un genio. Forse non irrimediabile: Anything else ci ha dato una flebile speranza.

Per un pugno di dollari

di Sergio Leone, 1964

"Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto"

Ribadisco l’inutilità di parlare dei film di Leone in questa sede. L’avevo già fatto notare qui (dove mi limitai ad una citazione e a un ricordo) e qui (dove mi limitai ad un aggettivo). Sono ben accetti commenti affettivi, autorevoli, o dissacratori.

"Vedrai che starai come a casa tua"

"Spero di no. A casa mia stavo malissimo"

Hero (Ying xiong)

di Zhang Yimou, 2002

Due donne che lottano nella natura e con la natura, le foglie gialle che si fanno arma e scudo, e infine la ferita e la caduta. Una goccia di sangue cade a terra, e sembra corrompere il mondo. I colori dell’autunno si fanno rossi, e tutto all’improvviso diviene del colore del sangue, come la veste della donna che cade, e che muore.

Questa sequenza, forse la più bella del film, è metonimicamente esemplificativa dell’ultimo film di Zhang Yimou. Grazie al genio di Christopher Doyle (direttore della fotografia), che non mi stancherò mai di incensare, ma anche alla grande personalità e professionalità di Zhang, il film è un’esperienza visiva totalmente appagante, un viaggio estatico che, a costo di immergercisi a fondo, in alcuni punti sfiora l’estasi.

Sono molte le sequenze perfette e indimenticabili, spesso per le scelte cromatiche di Doyle, che hanno la dote rara di non "staccare" (pur essendo divise tra loro sotto molti punti di vista) e non sembrare meri pezzi di bravura: come i due combattimenti "mentali" (un tempio e un lago), la suddetta scena in mezzo alle foglie, e soprattutto quel lungo e irresistibile flashback virato in verde.

Perché allora il film non è del tutto soddisfacente? Tutto è relativo: Hero è un ottimo film, ma non è il capolavoro che avrebbe potuto essere. E’ un’opera che spreca parte del suo enorme potenziale, o almeno che gioca le sue carte in un modo che avremmo voluto vedere diverso. Come con gli attori: tutta la partita si gioca sulle spalle del guerriero SenzaNome (e sul suo viso tombale), ma Leung e la Cheung (persino la bellissima Zhang Ziyi) hanno un carisma che vale mille Jet Li.

Operazione produttivamente simile a La tigre e il dragone (lo sentirete da ogni parte), Hero porta comunque a risultati differenti: ne fa le spese, ed è in qualche modo una fortuna, l’occidentalità di Lee (ma non l’esportabilità), ma si perde anche quella sensazione malinconica e crepuscolare che dava all’opera di Lee la sensazione di aver sfiorato una cima (forse un punto di non-ritorno) che Zhang avvicina ma non riesce a toccare.

Personalmente, quando vedo dei corpi danzare e lottare in questo modo (per inciso: perfetto, non dico altro), vado in visibillio. Se fosse per me, guarderei film come Hero a ripetizione fino a svenire, a prescindere dal loro valore estrinseco. Ma bisogna essere obiettivi: non giovano la ripetitività e vuotezza (seppur necessaria) della prima parte, e una certa superficialità nei temi (importanti e profondi, ma un po’ timidamente in disparte). L’espediente-Rashomon è arguto e dà una sferzata di intelligenza al film: ma è pur sempre un espediente precotto.

Le cose più interessanti, che glorificano la prima parte al di là della stracitata goduria estetica, sono alcuni elementi autoriflessivi (o presunti tali): "l’arte della spada è come la musica", ed "è come la calligrafia", ovvero l’arte (ovvero il cinema?). Da un punto di vista emozionale, i brividi li danno quasi tutti quelle stupende facce da cinema che sono Tony Leung e Maggie Cheung, due guerrieri coinvolti (loro malgrado?) in una storia di amore e morte. E, dato l’espediente della molteplicità dei racconti (alla Rashomon, appunto), costretti a morire di continuo.

Davvero straordinario il finale, funebre e astratto, con quel corpo coperto da un drappo rosso e quell’assenza tra le armi: si dà finalmente un senso vero all’aleatorietà del racconto epico. Una leggenda non è illusoria in quanto tale? Quanto vale la corporeità del mito? L’eroe senza nome è anche un’eroe senza corpo?

In giro c’è chi ne parla molto bene, chi lo distrugge, chi ne parla maluccio, chi non si sbilancia troppo, chi la pensa più o meno come me (con qualche riserva in più). Attendo i cinebloggers.

Ring 2 (Ringu 2)

di Hideo Nakata, 1999

Ci sono remake posticci e remake necessari. Non è affatto una distinzione di qualità, ma di concetto: è posticcio se non era previsto, mentre al contrario è necessario. Chiaro, no? L’impressione iniziale è che questo Ring 2 nasca su una falsariga posticcia, sfruttando un successo commerciale: la prima parte, parzialmente da buttare, è infatti un continuo rimandare al primo capitolo, senza aggiungere niente di nuovo, presentando magari nuove facce di personaggi noti (e negando Reiko fino allo sfinimento).

Poi fortunatamente nella seconda parte cambia rotta e prende nuove strade, sia stilistiche che tematiche, spiegando esplicitamente molti passaggi misteriosi di Ringu. A voi decidere se sia un bene o un male, ma alla fine Nakata riesce a dare l’impressione di aver fatto un remake necessario, e l’estrema coerenza dello sviluppo sembra dargli ragione.

Intendiamoci: è inferiore al precedente. Fa però più paura, e provocata sempre con intelligenza e rigore (come nella sequenza bella e terrificante in cui rivive la scena dello specchio). E comunque è ancora capace di appassionare, spaventare, stupire (vedasi alla voce Reiko…), divertire.

Cowboy bebop – Il film (Cowboy Bebop: Tengoku no tobira)

di Shinichirô Watanabe, 2001

Il Cowboy bebop di Shinichirô Watanabe, tra i molti anime giunti in italia negli ultimi anni (spesso attraverso Dynamic e Mtv), è una delle serie animate che preferisco. Generi snocciolati (una sorta di western post-noir fantascientifico? la questione non finisce qui), personaggi affascinanti e e ben costruiti (soprattutto Spike, il protagonista, e l’eccentrica hacker 13enne Edward), un senso della costruzione dell’inquadratura che è già di partenza molto cinematografico (forse perché cinefilo). E non meno importante: una colonna sonora da urlo.

Il film conferma il paradigma storicista (vedi alla voce postmoderno) che reggeva la serie: citazioni novecentesche e biplani a motore mischiati a voli interplanetari e super-hi-tech. Non è altro che un episodio (molto) più lungo, ma infinitamente più curato da un punto di vista visivo, con più azione e forse qualche pretesa introspettiva di troppo. La trama è davvero opaca e incasinata, ma con un po’ di concentrazione…

Se vi piace questo genere di prodotti (come piacciono a me, uah uah), è comunque un gran bel divertimento (se ripenso alla sequenza della metropolitana…) e anche una vera gioia per gli occhi. Attenzione al finale.

Agata e la tempesta

di Silvio Soldini, 2004

Agata e la tempesta non possiede quell’equilibrio alchemico che aveva lo splendido Pane e tulipani, sotterrato com’è dalla dimensione letteraria, e disperso un po’ nel respiro corale (anche lui…). Quando in realtà è proprio la storia di Agata, meno complessa e forse più banale (ma con la bella trovata dell’emozione elettrica), ad interessare di più, rispetto agli incroci di destini degli altri personaggi (i due fratelli divisi alla nascita).

Se racconta della nascita una nuova famiglia attraverso traumi, perdite e ricordi, Agata è però un film che ignora la vita vera, che aggira il dolore, e si pone su un livello di favola. Guarda alla vita come un dono, in tutte le sue manifestazioni. Consola il dolore di una vedova con un sincero sorriso. Può conquistare come può irritare, ma il suo ottimismo spudorato e favolistico lascia innegabilmente un buon sapore in bocca.

Certo, è un film leggero come le nubi, ma anche coloratissimo e sottilmente magico, che regala qualche momento di poesia e, senza morali e senza un vero senso, dà una piccola lezione, e mostra un modo, un modo come un altro, per affrontare la vita.

Comunque la si veda, Licia Maglietta è fantastica.

L’amore ritorna

di Sergio Rubini, 2004

Per parlare di sè in questo modo, ci vuole coraggio. Ci vuole anche una mastodontica dose di egocentrismo (dote che non manca di certo a Rubini, si sa) per stabilire, ad un certo punto, di poter essere esemplari. E se alcuni maestri (o almeno uno) hanno dimostrato che, oltre all’artificio (in questo caso la malattia), può essere utile farsi altro da sé, ecco la scissione.

Fabrizio Bentivoglio è quindi Sergio Rubini? Sì, ma poco importa, perché Rubini usa la biografia come stimolo iniziale per parlare d’altro. Anche se il suo ritratto affettuoso (ma con una necessaria punta di cinismo) dell’ambiente del cinema è riuscitissimo, L’amore ritorna è soprattutto un film sulla paura della morte, e sulla scoperta che il rapporto con il dolore tira fuori il meglio degli esseri umani. Perdonatemi il lirismo: l’umanità fiorisce sui cadaveri dei figli, e sboccia sulla tomba dell’amato.

Se il film funziona, è per una volta molto merito degli attori, tutti bravissimi. Se di attori si può parlare, visti i cortocircuiti che coinvolgono alcuni di loro (la Buy per prima, costretta a fare se stessa, per non parlare di Alberto Rubini, vero padre di Sergio). Comunque Rubini e Bentivoglio, il primo in disparte ma entrambi meravigliosamente sottotono, si confermano attori di grande sensibilità. Forse qualche nota di demerito andrebbe alla Mezzogiorno, un po’ parodistica (povera Asia Argento…), ma in fondo nevroticamente bravissima.

Dove il film pecca è magari in qualche forzatura nella sceneggiatura, oppure, se vogliamo, in un eccesso di sceneggiatura (come l’assistente innamorato, o le polemiche sul "set pericoloso"), tentazione più forte che mai in un film così corale e complesso. Ma una tale vitalità, una così profonda speranza, e il coraggio di Rubini di mettere tutto se stesso dentro questo lavoro, sono cose che vanno premiate e salutate con un applauso.

E poi, a tratti, sa sorprendere (la scena onirica della sala operatoria), sa vibrare e commuovere. E poi, c’è quel dolce fantasma del sud, guida spirituale di bianco vestita che ti cerca e volteggia e corre e si nasconde. Ti salva, raccoglie le tue arance da terra, e ti lascia andare al tuo destino.

[october stroppia]


7 ottobre: Almodovar, Ferrario, Hero, Hellboy.
14 ottobre: Mann, Garrel, De-Lovely e la Sposa Turca.
21 ottobre: Proyas, Spike Lee, Kevin Smith e Michel Gondry.
28 ottobre: Godard, Wong Kar-Wai, Monteiro e Shyamalan.


Più i prodotti d’oltralpe che sarò costretto ad evitare.
Più The Corporation e September tapes.
Più molto altro (è già una selezione).


Cosa devo fare, vendere il mio corpo?






The city of lost souls (Hyôryuu-gai)

di Takashi Miike, 2000

Ancora Takashi Miike. Siamo a 7. Sto diventando davvero come lui. Che ringrazio, visto che anche questo me l’ha prestato lui… Gli altri post su Miike comunque sono linkati qui.

Senza dubbio, mi sono trovato davanti ad un prodotto più lineare e sicuramente meno "personale" rispetto alla cinematografia dell’eclettico e pazzoide regista giapponese: Dead or alive per esempio, precedente di un anno, era più sperimentale, spingeva di più sul tasto dell’eccesso, trattava la materia gangsteristica con piglio più irrazionale e folle. Qui Miike si prende invece meno libertà, si limita a giocare con i personaggi e con i canoni come un vero autore cinephile, sbattendoci dentro anche un mexican stand-off (vedi alla voce Woo e Tarantino), una partenza action, e persino qualche notazione western.

Ma il risultato è ugualmente godibile e divertentissimo: anche solo per il riuscitissimo spettacolo, se si sopporta qualche violenza e un bel massacro finale – meno forte comunque che altrove. In suo aiuto c’è una sceneggiatura complessa e piena di equivoci, anche se un po’ risaputa, in cui tre etnie diverse (giapponesi, cinesi, brasiliani) sono tutte in combutta tra di loro ma comunque tutti, per un motivo o per l’altro, alla ricerca del protagonista e della sua donna.

Nonostante quanto detto sullo stile e sulla trama, non si deve pensare che sia un prodotto ordinario: piaccia o no Miike, questo è un aggettivo che non gli si può attribuire. Ma le particolarità non mirano solo a prendersi gioco dello spettatore (come i galli combattenti digitali post-matrix): basti pensare al ragno che diventa un tatuaggio (geniale), alla festa di nozze, o a quell’inquadratura fissa in cui Kei e Mario decidono di rischiare la vita: sembrerebbe impensabile, dopo tanta assurda frenesia e tutti quei jump cut nei primi minuti.

Prima del solito sberleffo nell’ultima inquadratura (ma è un marchio di fabbrica?), il finale è davvero amaro e malinconico [mi passate un post-kitano?], ma assolutamente inevitabile. E per questo bellissimo.


[r.i.p.]


Addio, Janet.

Una storia moderna – L’ape regina

di Marco Ferreri, 1963

L’essenziale Cineteca di Bologna, tra le tante cose, offre in questi giorni alcune proiezioni del primo Ferreri (all’Officinema, ex Lumiére). La parola magica è: pellicola. Per di più: restaurata. Che vuoi di più dalla vita?

Marco Ferreri è un’autore che ho sempre amato moltissimo, da quando lo scoprii per caso, anni fa. Il film era L’ultima donna, e non era nemmeno tra i migliori. La grande abbuffata è immenso e Non toccare la donna bianca uno dei miei cult-movie. La lista potrebbe proseguire, anche se me ne mancano molti (tra cui il periodo messicano). Questo primo film italiano di Ferreri, appunto, mi mancava.

L’ape regina è un apologo sull’istituzione familiare cattolica. Costruito (per autodefinizione) con un andamento cinicamente favolistico ed allegorico, il film utilizza alcuni cliché della commedia all’italiana (e quell’uomo monumentale che era Tognazzi, grandissimo) per sparare a zero sulla visione cattolica del matrimonio. Il tutto condito ovviamente da una misoginia (misantropia, in realtà) impressionante, ma senza perdere mai per strada il senso e gli obiettivi morali dell’opera. C’era già molto Ferreri già qui, dai temi dell’impotenza e della castrazione, all’annuncio visionario di una rivincita del matriarcato.

La censura non fu gentile con questo film, e i tagli sono ben visibili. Ma, tolto lo scandalo, resta prepotente la forza del messaggio. Ancora attuale.