ottobre 2004

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Europa

di Lars von Trier, 1991

Europa è il film che chiude la trilogia "europea" di Lars Von Trier (ho visto Epidemic, spassosa stronzatina, mentre mi manca L’elemento del crimine). Quello che penso di lui l’ho scritto qui, ma mi rendo conto che forse il mio odio è un po’ eccessivo…

Von Trier usa l’immagine cinematografica come se fosse un file di Photoshop. E’ la prima cosa che mi è venuta in mente guardando Europa. I piani sono suddivisi in livelli di profondità, permettendo convivenze inaudite (come colore e biancoenero) all’interno dello stesso quadro. Ed il tutto senza l’ausilio del digitale, ma prodotto in loco (con gli attori che recitano davanti a schermi retroproiettivi, e cose simili).

Interessante anche l’idea di strutturare il film come una seduta di ipnosi (con la rotaia iniziale a far da orologio penzolante, per intenderci), trovata che ha mille valenze: il cinema come ipnosi collettiva, ma anche ipnosi storica (visto che si parla di nazismo e di post-nazismi). Anche se l’uso che Von Trier fa di Max Von Sydow (anzi, della sua voce narrante) mi ha ricordato Bela Lugosi in Glen or Glenda di Ed Wood

Resta il fatto che, se non ci fosse tutta questa ricerca sull’immagine, giocosa e genialoide anche se fine a se stessa, il film perderebbe gran parte del suo interesse, e potrebbe risultare noioso, stucchevole, anche un tantino disinteressato. Però, rispetto ad alcuni altri insopportabili lavori del regista danese, è almeno molto bello esteticamente, e fotografato da dio (finché si sta sul bianco e nero). Se vi basta… a me può bastare.

Hulk

di Ang Lee, 2003

Film, a mio avviso, sottovalutato. Uscito in sordina rispetto al rumore del film di Raimi, gli era persino superiore (ma inferiore al secondo capitolo…). I materiali su cui Ang Lee lavora sono infatti più interessanti, com’è più affascinante il personaggio stesso dell’omaccione verde, e l’interesse del regista taiwanese (che non posso che amare per lavori come La tigre e il dragone e Tempesta di ghiaccio) è quasi tutto catalizzato sul livello metaforico di un contrasto edipico inesauribile (il confronto finale tra il padre-fulmine-Saturno ed il figlio mette i brividi, ed è splendidamente esagerato).

Lo stile è intoccabile, proprio perché in perfetta simbiosi con il sistema in cui è prodotto. Ma la semplicità hollywoodiana è solo un’apparenza, il film (se osservato con attenzione) si distacca con forza dalla produzione blockbuster contemporanea. Lo dimostra il montaggio, assolutamente geniale: invece di un lavoro di adattamento del fumetto al linguaggio filmico, c’è un processo di implementazione del linguaggio dei comics sullo schermo. Lo split-screen viene usato per tutto il film (in modo protagonistico ma mai gratuito) e si trasforma in una vera e propria tavola di vignette.

Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain)

di Stanley Donen e Gene Kelly, 1952

Semplicemente: una delle più belle esperienze cinematografiche che vi possano capitare. Sempre che vi piacciano i musical di Gene Kelly. Sempre che non vi infastidisca la faccia beota del suddetto, e che siate disposti ad entrare in un mondo magico e fantasmagorico, lasciando alle spalle ogni pessimismo per immergervi nel caldo sorriso dei colori e dei voli danzanti di Gene e Debby.

Ne vale veramente la pena (soprattutto se in lingua originale e in dvd).

Uzumaki

di Higuchinsky, 2000

Prima di tutto, ringrazio il mio lato oscuro per avermi prestato questo film. E’ doveroso, anche perché in questo momento è davanti a me, a un paio di metri…

In giapponese, il termine uzumaki designa (pare) il vortice, la spirale. Un semiologo (cosa che io non sono) potrebbe impazzire con le ridondanze isotopiche presenti in questo film, e con i livelli semiotici: il film, se si esclude il piano narrativo abbastanza lineare, è pieno di spirali. Mi spiego. Oltre a contenere dentro di sé, scenograficamente ma non solo, questo modulo in centinaia di varianti, lo utilizza anche filmicamente. Riprese a spirale mentre si disegna una spirale. Ipnotico.

Diretto dal nippo-ukraino Higuchinsky (stile molto personale, ma senza un progetto ben preciso, se non fotograficamente), Uzumaki è in fondo una colossale sciocchezzuola. Senza il minimo senso della misura, Higuchinsky utilizza riferimenti culturali tipicamente manga (ma anche alcuni cinefili, come l’elegia lynchana della provincia) per farsi quattro sane (anzi, direi insane) risate insieme allo spettatore, esagerando a bella posta, pur trovando il posto, qua e là, per alcune belle trovate (il mitico Osugi Ren con gli occhi rotanti è una vera chicca).

I mangofili convinti (io lo sono, tra le righe) sono i benvenuti: avranno di che divertirsi. Ma solo loro. Gli altri si astengano: potrebbero trovarlo estremamente ridicolo.

Se volete pareri più esperti (ve lo assicuro!) leggetevi la recensione di Cineblob. E già che ci sono, quella di Locati su AsiaExpress, che mi ha fatto sorridere.

Foglia su un cuscino, Garin Nugrohom 1998

Foglia su un cuscino (Daun di atas bantal)

di Garin Nugrohom, 1998

Passato su Fuori orario qualche giorno fa (e saggiamente registrato), film del 1998 (passato alla sezione Un Certain Regard di Cannes) di quello che ho scoperto essere il più importante regista indonesiano.

Il film è uno spaccato neorealista (attori presi dalla strada, storie prese dalla cronaca) della gioventù marginale indonesiana. Al centro delle tragiche vicende, la donna che alleva questi orfanelli, e che li vede malinconicamente morire come mosche, uno ad uno. Un ritratto durissimo e crudo di una situazione sociale borderline, un affresco generazionale di una generazione senza futuro. I ragazzini sbandati sniffano colla, rubano, si picchiano, ma sono vitali e ricolmi di un loro personale senso dell’amore e dell’onore.

Nonostante le premesse, un bel film: per nulla noioso, girato con grande professionalità (con una fotografia che predilige gli ocra e i colori di terra), e interpretato con intensità. Un esempio per i nostri Marra. Di grande impatto emotivo (anche se un pelo ruffiano) l’uso di “Love is blue” nella colonna sonora.