dicembre 2004

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[il classificone 2004]

la classifica è stato modificata e aggiornata il 28 dicembre 2005

1. Ferro 3 – La casa vuota di Kim Ki-duk
2. Kill bill vol.2 di Quentin Tarantino
3. Gli incredibili di Brad Bird
4. Big fish di Tim Burton

5. Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry
6. Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino
7. Il signore degli anelli: Il ritorno del re di Peter Jackson
8. Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-duk
9. Collateral di Michael Mann

Two sisters di Kim Ji-woon
Spider-man 2 di Sam Raimi
The village di M.Night Shyamalan
Primo amore di Matteo Garrone
Le regole dell’attrazione di Roger Avary
Una storia americana di Andrew Jarecki
Donnie Darko di Richard Kelly

Dopo mezzanotte di Davide Ferrario
2046 di Wong Kar-wai
Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone
La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie
Down with love – Abbasso l’amore di Peyton Reed
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban di Alfonso Cuaròn
Shrek 2 di A.Adamson, K.Ashbury, C.Vernon
L’alba dei morti viventi di Zack Snyder
Ladykillers di Joel & Ethan Coen
Babbo bastardo di Terry Zwigoff
La niña santa di Lucrecia Martel
School of rock di Richard Linklater
L’amore ritorna di Sergio Rubini
Le chiavi di casa di Gianni Amelio
L’uomo senza sonno di Brad Anderson
Fratelli per la pelle di Peter e Bobby Farrelly
The terminal di Steven Spielberg
Tutto il bene del mondo di Alejandro Agresti
Il siero della vanità di Alex Infascelli
Ong-Bak di Prachya Pinkaew
Un film parlato di Manoel de Oliveira

Birth di Jonathan Glazer
Mean girls di Mark Waters
Coffee and cigarettes di Jim Jarmusch
La mala educación di Pedro Almodovar
Hellboy di Guillermo del Toro
The butterly effect di Eric Bess e J.Mackye Gruber
Paycheck di John Woo
Come inguaiammo il cinema italiano di Ciprì & Maresco
The call di Takashi Miike
Hero di Zhang Yimou
Il tempo dei lupi di Michael Haneke
Amami se hai coraggio di Yann Samuell
21 grammi di Alejandro Gonzalez Inarritu
Agata e la tempesta di Silvio Soldini
La giuria di Gary Fleder
Io, robot di Alex Proyas
Scary movie 3 di David Zucker
The chronicles of Riddick di David Twohy
Killing words di Laura Manà
L’inventore di favole di Billy Ray
Evilenko di David Grieco

Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio
Mare dentro di Alejandro Amenabar
Melinda e Melinda di Woody Allen
Se devo essere sincera di Davide Ferrario
La sposa turca di Fatih Akin
Fahrenheit 9/11 di Michael Moore
Cypher di Vincenzo Natali
Vento di terra di Vincenzo Marra
Ladri di barzellette di Bruno Colella e Leonardo Giuliano

Non ti muovere di Sergio Castellitto
Closer di Mike Nichols
Phone di Ahn Byeong-ki
A/R Andata + Ritorno di Marco Ponti
Tu la conosci Claudia? di Massimo Venier
La passione di Cristo di Mel Gibson
L’ultimo samurai di Edward Zwick
Secret window di David Koepp
Open water di Kris Kentis

La donna perfetta di Frank Oz
Starsky & Hutch di Todd Philips
Tutto può succedere di Nancy Meyers
Mucche alla riscossa di Will Finn & John Sanford
Troy di Wolfgang Petersen

Gothika di Mathieu Kassovitz
Underworld di Len Wiseman
Il fantasma dell’opera di Joel Schumacher

Gozu (Gokudô kyôfu dai-gekijô: Gozu)

di Takashi Miike, 2003

Gozu è il "viaggetto all’inferno" del giovane yakuza Minami alla ricerca di un "fratello" scomparso (che poi ricompare, ma…) nel contesto di un’inquietante paese della provincia giapponese (Nagoya) che sembra non risentire delle leggi della logica, ricolmo com’è di personaggi bizzarri e assurdi.

Girato con una cura persino maggiore del solito, il film inizia con una divertente svolta surreale su un tipico canovaccio yakuza. Ma è il finale horror la trovata più salutare e intelligente, e ha una carnalità e una schiettezza che non si vedeva più dai bei tempi di Yuzna (e infatti ricorda vagamente i mostri borghesi di Society). In mezzo, un florilegio di trovate e situazioni che sottolineano il valore formativo del viaggio di Minami: un viaggio di formazione sessuale, simbolicamente sessuofobo, e ben definito.

Decisissima l’influenza di David Lynch su questo film: oltre che nello stile rarefatto e inquietante, e nell’interesse nel sonoro e nei rumori di fondo, Miike risente dell’opera del maestro americano anche nello "sguardo perturbante" sugli oggetti, nella poetica del fuori-posto, e nella creazione di un mondo assurdo che scaturisce come un incubo dalle bizzarrie della provincia. E la struttura narrativa, con improvvisi cambi di identità e rinascite, sembra – da lontano – una versione sclerotica di Lost highway.

Gozu forse non va preso troppo sul serio: è il modo migliore per goderselo appieno. Se ci si riesce, se si chiude la visione (come il film stesso fa) con una grassa risata venata di inquietudine, Gozu può essere davvero spassosissimo, e una manna per i nostri cervelli bacati.

E leggete anche cosa ne ha scritto Cineblob: lui l’ha visto a Parigi, in pellicola. :-)

Santa Lucia, volume 4

Police story (Ging chaat goo si)

di Jackie Chan, 1985

Police story è il primo di una serie di quattro film interpretati da Jackie Chan, di cui in italia abbiamo visto il terzo (Supercop) e il quarto (First strike), diretti entrambi da Stanley Tong, mentre i primi due, diretti dallo stesso Chan, sono inediti in italia. E’ uscito da poco nelle sale cinesi New police story, diretto dal Benny Chan del piacevole Senza nome e senza regole (forse l’ultimo vero film di Chan), e pare che non si affatto male.

Questa prima "police story" è davvero una gioia per gli occhi e per tutti gli amanti del cinema rocambolesco dell’attore-regista honkkonghese. Il film riesce a coniugare in modo miracoloso la vena avventurosa e quella comica di Chan, ma nessuna delle due accetta il compromesso verso l’altra: le parti d’azione sono pari per ritmo e inventiva a qualsiasi costoso action americano (sia che si combatta, che ci si spari, che ci si insegua), e la commedia è portata a livelli di comicità degni del cinema muto: come la scena in cui Chan gestisce quattro telefoni diversi, o quella irresistibile del poliziotto vestito da aggressore.

L’inizio è fulminante: dopo una sparatoria, le macchine in inseguimento travolgono una baraccopoli come una slavina. E il finale non è da meno, tra voli da metri di altezza, centinaia di vetri spaccati, coreografie da balletto estremo. E tra risate e momenti di tensione, si fa il tifo come bambini per un folletto che si fa male (e parecchio) ma si rialza e combatte, con le mani, con i piedi, con tutto il suo corpo.

Poi, gli stunt: sono Jackie Chan, devo inseguire un autobus a piedi: cosa mi serve? Ma ovvio, un ombrello. Chan è uno stuntman impressionante (se n’è parlato diffusamente qui), ma anche un bravo regista e un discreto attore: quando le cose vanno male e la trama prende la piega hitchcockiana del wrong man, riesce ad essere convincente nella sua urlata protesta nei confronti delle gerarchie, anche se non si deve pretendere una profondità politica o una sceneggiatura originale da un cinema che è solo (o soprattutto) intrattenimento. Ma davvero di altissima qualità

Brigitte Lin tagliata corta è comunque affascinante, e deliziosa Maggie Cheung con il suo faccino imbronciato, nel ruolo dell’eterna fidanzata del protagonista (nei primi 3 film della serie). Uno dei suoi prodotti migliori, anche se il terzo Supercop non è molto da meno: e lì c’è Michelle Yeoh che salta con una moto su un treno in corsa…

Evilenko

di David Grieco, 2004

Evilenko, tratto da una terribile storia vera e diretto con mano sicura dall’esordiente David Grieco, è un serial-thriller che segue una doppia linea i cui percorsi si incrociano: la schizofrenia omicida e cannibale di un singolo uomo diviene metafora di un mondo e di un pensiero, quello comunista (gli omicidi sono datati 1984-1989), che crolla trascinando con sè la psiche degli uomini russi.

Non si condanna fino in fondo un uomo malato, e c’è anche tempo per una chiara riflessione sul tema nel finale, e il manicheismo politico è tenuto a debita distanza: i comunisti non sono tutti mangiatori di bambini. Il film al di là di questo, segue in modo inquietante e intelligente il cammino di un uomo malefico e ipnotico, che lo trasforma in una sorta di orco cattivo terribilmente affascinante: il tremendo incipit è quasi "fiabesco", in cui Evilenko è una sorta di babau, simile al mostro della "Moglie di Frankenstein".

Spesso la fotografia non è all’altezza di una regia composta e corretta, anche nell’esibizione della violenza: mostrata, sì, ma con coscienza di causa. E purtroppo la discreta sceneggiatura a volte tende a sottovalutare lo spettatore, dal momento che la metafora storico-politica (di cui sopra) ci viene spiegata a parole chiare da uno degli interpreti.

Ma, esauriti questi (e altri) difetti formali e sostanziali, rimane l’impressione di un film onesto e coraggioso rispetto agli standard del cinema italiano, capace di riflessioni storiche non banali, con uno sguardo pessimista al presente europeo nell’idea dell’omicidio seriale come virus nascente. Malcom MacDowell non è stato così bravo dai tempi di Arancia meccanica. Purtroppo il resto del cast è da galera.

Link: Ne ha parlato anche l’amico rattaccio.

The coast guard (Hae anseon)

di Kim Ki-duk, 2002

The coast guard è probabilmente il film più facilmente leggibile di Kim Ki-duk, perché per una volta il discorso psicologico, che spesso nel suo cinema è anche metafora sociale, si confronta in modo esplicito con il presente della storia coreana. E quindi ci troviamo nel un non-luogo di frontiera, nella terra di nessuno che divide il nord e il sud della nazione.

Un soldato pecca per eccesso di zelo, e da lì parte, come spesso accade nel cinema di Kim, un percorso redentivo. Ma la redenzione è negata, se non in sogno: in una tale situazione storica, non si può sfuggire alla violenza (la morte), non c’è la speranza del futuro. In questo, The coast guard è forse il film più pessimista del regista coreano, e tra i suoi film più strazianti e violenti.

Più "chiacchierone" e legato al reale rispetto agli altri suoi film (ma solo nella prima parte), si concentra anche, perché no, in un discorso antimilitarista sulla disumanizzazione dell’uomo attraverso la guerra. Guerra che, paradossalmente non c’è, ma è tutta nella cupezza notturna e claustrofobica dell’attesa e della paranoia.

Visivamente meraviglioso come al solito, e con una splendida colonna sonora. Per quanto meno compatto e un po’ più dispersivo, e quindi nella "metà bassa" della cinematografia di Kim (ma migliore di L’Isola), anche The coast guard è un film straordinario, che regala anche immagini indimenticabili, e lascia un senso di disagio che va oltre i discorsi contestuali storico-politici, per penetrare direttamente nel cuore.

Non ho scritto un granché su un film ben più complesso, perché loro hanno già detto molto: qui (Gokachu) e qui (Andrea).

Shrek 2

di Andrew Adamson, Kelly Ashbury, Conrad Vernon, 2004

Pur avendo apprezzato Shrek per quel che è (necessariamente, un gran bell’oggettino), non nutro una spassionata simpatia per l’orco verde di Andrew Adamson. Un po’ per la mia predilezione per i prodotti Pixar, sempre spanne sopra a quelli Dreamworks (e quello era pure l’anno di Monsters, Inc.), un po’ per i difetti che il film riscontrava, già dalle "seconde visioni".

Nel suo insieme, il secondo capitolo è, non di molto ma in maniera evidente, superiore al primo. Superati con professionalità i seri problemi di ritmo di Shrek, l’evidente interesse degli autori per una maggior profodità e coralità dei personaggi porta buoni frutti. Il discorso sbocciato nel film precedente viene sviluppato: da valore da rispettare, la diversità diviene un valore da conservare, e da difendere a tutti i costi. E il lieto fine è davvero convincente per la coerenza con cui chiude questo dittico (e che ci permette di liberarci dell’orco per almeno tre anni). Senza contare il "solito" divertentissimo numero musicale alla fine (che sta a questo film come i "corti" stanno alla Pixar).

Ancor più del primo, questo secondo Shrek si rivolge a un pubblico disincantato e adulto, che riconosce gli ammiccamenti cinefili, quelli scatologici e (in misura controllata) sessuali. Qualche cosuccia non funziona, è irrimediabile: l’eccesso citazionistico non è più riferito solo (o soprattutto) al mondo delle fiabe e dei cartoon, ma questa volta in modo massiccio al cinema hollywoodiano: gag irresistibili, ma il metodo non convince del tutto. Così come la colonna sonora, un paio di volte persino irritante. Ma Capitan Uncino che suona il piano nella bettola cantando con la voce di Nick Cave è la trovata più geniale di tutto il film.

Mostruosi passi avanti nella tecnica: si vede nei grandi spazi e nei paesaggi (durante il viaggio verso il "land far far away"), ma soprattutto si nota nel personaggio della fata madrina (tra l’altro, azzeccatissimo), che raggiunge una verosimiglianza e un’espressività impressionante.

Infine, impossibile non nominare la vera star del film. l’impagabile personaggio zorresco del Gatto con gli Stivali. Al di là delle scene mostrate negli spot (purtroppo tra le migliori, come quella della palla di pelo), tiene davvero testa a tutti, tiene persino in piedi molte scene da solo, e fa sganaciare ogni volta che apre la bocca, ma anche solo standosene in disparte. Oppure aprendo i suoi occhioni dolci.

Milano calibro 9

di Fernando di Leo, 1972

Sono sempre l’ultimo a sapere le cose. O meglio, a riscoprire gli autori già riscoperti già da tutti quanti (come con Bava, e c’è stato anche da discutere). Mea culpa: sono giovane e impreparato, e ho bisogno di consigli. Moda? Una moda sul cinema di genere italiano c’è, eccome: ma forse preferisco i consigli. Come quelli di chi, a Venezia, nella retrospettiva che io ho perso per intero, si è innamorato dei film di Fernando di Leo.

Milano calibro 9 è un film stupefacente per come tratteggia personaggi e racconta le sue storie senza bisogno di parole (l’unica pecca è infatti quando eccede in parole), a partire da un gesto o da uno sguardo. In questo senso è davvero magistrale la sequenza iniziale prima dei titoli, quasi muta, con lo scambio di pacchi tra le vie di Milano. Gran merito va anche agli attori: primo tra tutti Gastone Moschin, immenso, e un Mario Adorf perfettamente sopra le righe.

Ma il cardine del film è la regia di Fernando di Leo, che su una partitura musicale indimenticabile (di Luis Bacalov), e con un talento registico impressionante (per la gestione dell’inquadratura, del montaggio, per la direzione degli attori), riesce a costruire un film con un’incredibile statura morale (e politica, a suo modo), spietato e brutale ma di innegabile robustezza, che lavora in modo molto maturo e consapevole sui materiali ridondanti e marginali (le attese, i silenzi, l’innecessario).

E di Leo ci consegna una visione noir del mondo, fatta di amarezza, malinconia, disillusione e utopia, che non ha davvero molto da invidiare al noir francese o americano. Il finale, che ovviamente non racconto, è pura tragedia: davvero splendido.

"Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza, il cappello ti devi levare!"

Lupin III: Il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro)

di Miyazaki Hayao, 1979

Molti sanno che la prima serie animata di Lupin III fu diretta, insieme al Takahata Isao della "Tomba per le lucciole", da Miyazaki Hayao, forse il più grande regista d’animazione giapponese (o al mondo?), responsabile di una sequela di incredibili lungometraggi che fanno impallidire la maggior parte dei "concorrenti" occidentali (qui si è parlato di Laputa).*

C’è poco da discutere, anche perché ci siamo cresciuti un po’ tutti: Lupin III (in Giappone Rupan sansei, per evidenti questioni fonetiche) è una delle più belle (e adulte, in senso performativo) serie animate mai prodotte per la televisione. Ma Lupin è anche il protagonista di 13 lungometraggi, molti (o tutti) visti in Italia in tv anche di recente, tra cui solo questo può però pregiarsi della firma di Miyazaki alla regia. Ed è anche, e forse anche per questo, il più noto.

Il risultato sembrerebbe una tipica avventura del simpatico ladro, dei suoi due colleghi Goemon e Jigen, della sfrontata Fujiko, e dell’ispettore Zenigata, eterno inseguitore: i personaggi sono coerenti con la serie, e il narrato ha la stessa mescolanza di azione scatenata, intreccio giallo e il divertimento della commedia. Ma oltre per il ritmo ben più rilassato ed elegiaco (ma con improvvise e irresistibili sequenze action), qui si va un po’ oltre.

I capolavori di Miyazaki cominceranno a fioccare solo qualche anno dopo, dallo splendido Nausicaa del 1984. Ma non è forzato dire che si sente il tocco del maestro, e più diffuso di quanto si può credere: l’ossessione per il volo e per le macchine volanti, l’armonia con la natura (vegetale e animale), e la disillusione nei confronti del mondo degli adulti: Lupin non è un bambino, rappresenta l’istanza anarchica e irrazionale del fanciullo (in senso panico) che si scontra contro un mondo (anche politico) corrotto e brutale.

Cagliostro ha un paio di perle che lo rendono quasi degno dei lavori successivi del regista: il primo incontro tra Lupin e Clarissa nella torre, fatto di silenzi e parole, recite e verità (da lacrime agli occhi), e tutto l’inseguimento del prefinale, che si svolge tra i meccanismi dell’enorme orologio di una torre: imperdibile.

*ringrazio Gokachu per le preziose correzioni.

Link: FAQ su Lupin.

Santa Lucia, volume 3

The bride with white hair (Bai fa mo nu zhuan)

di Ronny Yu, 1993

Uno dei più celebri fantasy honkkonghesi degli ultimi vent’anni, tanto che è passato anche da noi (c’è sul Mereghetti), per quanto non sia mai riuscito a trovarlo in Italia. E tanto che il regista se lo sono adottato in America: se n’è parlato anche qui.

La trama ricalca il modello tragico shakespeariano dei due amanti appartenenti a famiglie diverse: qui sono i clan al potere, quasi decaduti ad un passo dalla fondazione della Cina, contro un malvagio culto sotterraneo volto alla conquista e alla vendetta, fondato da due rinnegati ed esiliati fratelli siamesi uniti per la schiena: doppia-nemesi molto più che memorabile (con notevoli effetti horror).

Un cinema di pura meraviglia, di uomini (e donne) volanti e di amori impossibili, di tradizioni, culti magici e grandi battaglie, che non ha mai paura di osare in barocchismi e eccessi melò, pur di provocare lo stupore dello spettatore. E siamo fortunati, perché ci riesce in pieno: visionario e appassionante, un gran bel film.

Fascinoso Leslie Cheung (che ha deciso di lasciare questo mondo quasi due anni fa) e davvero incredibile lo charme e la presenza scenica di Brigitte Lin: quando questi due sono sullo schermo insieme, sono meglio di una tempesta elettrica.

Buon natale
a tutti!




kekkoz


 


 


Audition (Ôdishon)

di Takashi Miike, 1999

Molti di quelli che hanno scoperto il cinema del regista giapponese sono partiti da qui, da Audition. Io, che sono tra gli ultimi, ci sono arrivato solo ora, dopo molte altre visioni. Speravo in un dvd italiano (spesso promesso, mai arrivato), e alla fine mi sono arreso (Andrea: grazie!).

Non mi resta che confermare quanto avete già sentito da molte altre parti: Audition si gioca senza dubbio la palma per il miglior Miike, o forse lo è e basta. A partire da una semplice riflessione psicosociale, e cioè la solitudine dell’uomo giapponese, Miike costruisce un film bizzarro e affascinante: prende le sue forme da un plot che sembra una commedia romantica (il provino del titolo serve per trovare una moglie a un inconsolato vedovo), lo sviluppa come un dramma intimo e amaro, per giungere a un vero e proprio implacabile mystery-thriller.

A differenza di quello che si può pensare, invece di esplodere subito come al solito, Miike parte con una scene triste e intensa, quella dell’ospedale. Per poi amministrare la tensione in modo magistrale per quasi tutto il film, concentrandosi con riflessività smodata sui personaggi e sui rapporti (con alcuni quadretti d’interno degni di un Ozu, e forse ad egli ispirati), centellinando la tensione in un modo impagabile: il primo spavento arriva dopo tre quarti d’ora, e poi nulla per molti minuti. 

E mostrando la solita ammirevole libertà linguistica: scavalcamenti di campo, jump-cut sui dialoghi, varietà fotografiche. L’effetto è di straniamento, confusione, inquietudine. E aiutano molto le interpretazioni di Eihi Shiina, davvero incredibilmente brava, e di Ryo Ishibashi, perfettamente nel ruolo e consono ad un’identificazione spettatoriale che nel finale darà i suoi (aspri) frutti.

Da un certo momento in poi comunque, Miike può permettersi di far debordare i materiali raccolti con tanta calma nella prima parte del film: su questa tecnica di rielaborazione si basa la lunghissima sequenza "onirica", che confonde ancora di più le acque (sogno/realtà?) mescolando i piani narrativi, e riesce in modo incisivo a scavare nei territori dell’inconscio. Magistrale, forse la parte più strabiliante del film.

E infine, c’è l’insostenibile finale, di cui si parla molto in giro, dove in effetti Miike sciocca come pochi altri sono riusciti a fare negli ultimi anni. Ma non in modo banale. Il regista gioca con l’orrore soprattutto da un punto di vista sonoro, forse perché sa che l’udito è un senso inescludibile (mentre gli occhi si possono chiudere), ed è un senso che punta diretto al cervello: impossibile non rabbrividire al rumore del ferro che striscia contro l’osso. Ma colpisce soprattutto l’incredibile consapevolezza di Miike sull’uso del fuori campo: non è una violenza completamente esplicita, non si mostra tutto, piuttosto si mostra e si nega, giocando con i nervi dello spettatore, con il risultato di uno shock fisico e mentale molto maggiore che non quello provocato dal gore incontrollato.

E, con la chiusa, perfetta come al solito, mostra di non aver usato tutta questa violenza senza un fine, non perdendo mai comunque di vista il progetto iniziale: che in fondo è la storia di un inganno, di un amore impossibile, e di una doppia e amarissima solitudine. Che non può non finire in lacrime.

Santa Lucia, volume 2

Once upon a time in China (Wong Fei-Hung)

di Tsui Hark, 1991

Nella Cina dell’Ottocento, il maestro Wong Fei-Hung si trova in mezzo a una molteplicità di forze volte a schiacciare la sua vita, quella della sua nazione, e della sua scuola d’armi: infatti il paese, oltre a essere preda di una diffusa criminalità, è minacciato dalla presenza degli inglesi e degli americani, venuti a sfruttare il momento, e a batter cassa.

Un film costruito sul contrasto irreparabile tra la tradizione e il rinnovamento, rappresentato dal conflitto tra le arti marziali e le armi da fuoco. "Non possiamo combattere le pistole con il kung-fu" si dice spesso nel film, ed è questo senso malinconico a trasparire, la sensazione di un mondo che va a morire e di una tradizione in decadenza, che bisogna difendere a tutti i costi. Anche se può essere "sporcata": Wong è pur sempre un medico, e persona razionale che riconosce i benefici del progresso, e inoltre nel finale decide scherzosamente di indossare l’abito occidentale e farsi fare una fotografia.

Once upon a time in China, primo di una serie di film dedicati alla figura leggendaria di Wong Fei-Hung, non è solo un’affascinante affresco storico, e molto di più di un film d’arti marzali, ma un’opera complessa che non lascia nulla all’ovvietà nel tratteggio dei personaggi (al di là dell’esemplare Wong di Jet Li, affascina il combattuto Fu interpretato da Biao Yuen) e che dipinge una condizione storico politica che, raccontando la storia, parla del presente di una nazione e del suo presente.

Ma prima di tutto, quello che salta gli occhi subito, dal primo sguardo, è ben altro: un film visivamente impressionante, per il montaggio indescrivibile e impensabile, e per la regia di Tsui che, con un profluvio di dolly e carrelli sempre funzionali ai movimenti dei personaggi, e uno stile che dai barocchismi riesce a far scaturire la poesia dei gesti e dei "voli", compie una irripetuta ricerca sul "leggiadro" che ha fatto scuola (e non solo a Hong Kong).

Meravigliosi tutti i duelli, tra cui spiccano i due combattimenti tra l’ambizioso maestro decaduto Yim, lo straordinario "cattivo" di Yee Kwan Yan, e il protagonista Wong Fei-Hung, un Jet Li etereo: sono quello sotto la pioggia (vedasi Hero) e quello finale, e molto celebre, tra enormi scaloni a pioli. E splendidi i titoli di testa.

Un film davvero magnifico e davvero importante, pienamente degno della sua fama.

Il fantasma dell’opera (The Phantom of the Opera)

di Joel Schumacher, 2004

Versione originale

Essenziale segnalare che questo post parla dell’edizione originale con sottotitoli: l’edizione italiana è doppiata. E quindi, trattandosi di musical, è un disastro: una scelta insensata, squallida, fuori dal tempo. Peccato che anche su questa versione non si possa dire molto di buono: Il fantasma dell’opera è un film confuso e disordinato, caotico e inessenziale, noioso e interminabile.

Schumacher inoltre si dimostra come uno dei peggiori tra i meglio-foraggiati registi contemporanei, e fa dubitare con questa prova persino della buona fede mostrata in Tigerland. È buona l’idea proustiana di far scaturire il ricordo dall’oggetto materiale, con il lampadario che si innalza e rinasce, e fa rinascere dalla sua luce e dal suo vento il teatro dell’Opera com’era nel passato: ma la stessa cosa c’era, uguale identica, nel Titanic di Cameron. E là era migliore, ed è tutto dire.

E poi finisce tutto lì, in quella frame-story bianco/nero e richiamata ogni tanto a dare spessore emotivo al ricordo, come se servisse. Il resto è un’altalena tra la sua solita insopportabile spocchia postmodernista (un paio di svolazzi, la scena degli specchi, le inquadrature sghembe della prima parte) e un diffuso e squallido piattume. Unica eccezione, la sequenza del cimitero: piacevole, ma davvero non basta.

Certo, colpa parziale va anche al materiale di partenza, perché The Phantom of the Opera non è il miglior musical di Andrew Lloyd Webber. Nessuna canzone veramente memorabile, e un metodo di richiamo tematico che, altrove affascinante, qui stanca in fretta. Forse a teatro era un’altra cosa, impossibile giudicare: ma qui di cinema stiamo parlando.

E nonostante lo sforzo tecnico-artistico davvero notevole (bellissimi i costumi e le scenografie), nei tempi del musical luhrmanniano, Il fantasma dell’opera è un cinema nato vecchio, bolso e senza alcun interesse, che vale forse come cometa di una stella già consumata sui palchi, ma non vale molto di più.

El topo

di Alejandro Jodorowski, 1970

El topo è un film bizzarro e "unico", che prende un sottogenere ai tempi già abbastanza cristallizato, lo spaghetti-western, e lo mescola con una vena che unisce la tradizione ebraico-cristiana (il sacrificio cristologico, l’Eva tentatrice) a una matrice più propriamente mistico-buddhista (il monachismo ascetico, l’annullamento del sé).

Il risultato è interessante, e ammirevole la libertà simbolista che ancora tocca la mente e lo stomaco, e talvolta il cuore (come l’incipit, celeberrimo). Ma, come ne La montagna sacra, anche qui Jodorowski tende a ripartire il discorso e a dividerlo, con il risultato di ottenere qualcosa che funziona in un tutto che non convince affatto.

Funzionano il bagno di sangue iniziale, e soprattutto la cruda ultima parte, con la volgarità sodomita degli westerners e quel finale browninghiano e insostenibile. Non convince invece tutta la prima parte, ripetitiva e stonatamente sospesa nel tempo e nello spazio, con scelte narrative che si vogliono distaccare a tutti i costi dal genere leoniano, ma che portano a incompatibilità incolmabili. E che purtroppo, e soprattutto, annoiano.

Infine, se La montagna sacra allargava il suo afflato surrealista all’assurdità del presente, alla guerra e alla protesta giovanile, El topo si diverte più che altro a giocare con la sua idea di metacinema, accatastando e collezionando simboli. Che, alcune (troppe) volte, non portano da nessuna parte.

Batman – Il ritorno (Batman returns)

di Tim Burton, 1992

Rivedendo questo film, per la prima volta in lingua originale, mi sono reso conto (o ho scoperto?) una cosa nuova: a discapito delle perfette interpretazioni di tutto il cast (DeVito, Walken, persino Keaton), il miglior giocatore in campo è, chi l’avrebbe mai detto, la catwoman di Michelle Pfeiffer. Con quella tutina di pelle aderente e "zippata" e quegli occhi, neanche a farlo apposta, da gatta.

Nessun vero rivale. Il suo "miao" seguito dall’esplosione è uno di quei momenti che riescono ad essere cult quasi senza volerlo (o almeno senza mostrar di volerlo). Per non parlare del ballo con Keaton, alla festa mascherata. E la sequenza in cui la Pfeiffer macchia e brucia i suoi vestiti, i suoi peluche, quella geniale doll’s house: brucia e macchia letteralmente la sua infanzia, determinando il passaggio allo statuto (sessuale) di donna. Donnagatto, si intende.

Sul film non spendo nemmeno parole: credo che si sia capito con chiarezza quale sia la mia opinione. Meraviglioso.

internal links: ho parlato anche di Big Fish, Planet of the apes

Stalag 17

di Billy Wilder, 1953

"I don’t know about you, but it always makes me sore when I see those war pictures… all about flying leathernecks and submarine patrols and frogmen and guerillas in the Philippines. What gets me is that there never was a movie about POWs – about prisoners of war.

Now, my name is Clarence Harvey Cook: they call me Cookie."

Il film si apre così, con una dichiarazione d’intenti: "non so voi, ma mi irrito sempre quando vedo quei film di guerra", i film in cui è descritto solo l’aspetto tecnico e spettacolare della guerra, ed è tralasciato l’aspetto umano. Così Wilder si rinchiude in una sorta di non-luogo ante litteram: lo stalag, il campo tedesco di prigionia militare, e più in dettaglio la baracca in cui si svolgono quasi tutte le vicende. Per parlare non per forza di come si viveva realmente dentro uno stalag (forse un po’ peggio?), ma di come un gruppo di uomini può sopravvivere in uno stalag.

Wilder si spinge anche oltre, grazie a una sceneggiatura scritta con Edwin Blum, bella ma non brillante come quelle scritte con I.A.L. Diamond, e trasforma il film bellico in una delle sue corrosive pièce, vera e propria commedia drammatica in cui la caccia alla spia è pretesto per una ricca incursione nelle relazioni umane, arricchita da spunti originali sull’amicizia virile e sul tradimento, sui valori antimilitaristici della fratellanza e dell’onestà, e soprattutto da uno sguardo cinico sul valore e sui compromessi dell’individualismo ("dog eat dog").

Grande la regia, come al solito, per come riesce a sfruttare gli spazi ristretti a sua disposizione. In questo, almeno due scene da ricordare: un virtuoso carrello in avanti (richiamato da un "controcarrello"), che richiama un gioco di sguardi tra due personaggi; e la scena in cui Sefton scopre, grazie all’ombra penzolante di una lampadina, il metodo con cui la spia comunica con i tedeschi, mentre nella baracca tutti ballano e cantano.

Davvero eccezionali le prove di William Holden (premiato quell’anno con l’Oscar, e come negarglielo), e di Robert Strauss & Harvey Lembeck ("animal" e Shapiro), che forniscono il respiro farsesco dell’intero film.

Internal links about mister Wilder: L’appartamento.

[remainder]

Esce domani nelle sale "Birth", il film di Jonathan Glazer con Nicole Kidman e Lauren Bacall, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, in Concorso. Come già altri film presentati in laguna, ho già avuto la fortuna di vederlo (con quella donna meravigliosa seduta a pochi metri da me), e vi rimando quindi al mio breve commento.

Birth è un film alquanto problematico sul piano narrativo, e forse non del tutto riuscito. Ma è un film formalmente formidabile, originale e raffinato, e spaventosamente coerente. Non un grandissimo film, ma è almeno un’interessante alternativa, soprattutto da un punto di vista ritmico, riflessivo e curato in maniera molto "autoriale" (questo potrebbe far imbestialire molti) e con una grandissima Kidman.

Ma sì, andate a vederlo e poi ditemi. Tanto non vi piacerà, sono io che sono stupido.

Ultimo importantissimo avvertimento: come capita spesso, non date retta alla pubblicità in tv, altrimenti finirete per odiarlo. Già mi vedo la gente che esce dalla sala incazzata. Se avete voglia delle emozioni horror che gli spot promettono, andate a vedere un altro film.

Santa Lucia, volume 1

The heroic trio (Dung fong saam hap)

di Johnnie To, 1993

Da quando ne conosco l’esistenza, The heroic trio è uno dei film hongonghesi che desideravo vedere più nervosamente. Dopo un tentativo fallito di acquisto (out of stock) e un disperato e inutile download da un p2p, finalmente sono riuscito ad accaparrarmelo. E non ho aspettato molto per vederlo.

Il film di To narra le gesta di tre donne, allevate a pane e arti marziali: Tung, "wonder woman", supereroina metropolitana con tanto di mascherina; Chat, "thief catcher", mercenaria bellissima e vanitosa; Ching, "invisible woman", che tradisce l’amore per la realizzazione del progetto di un malefico stregone.

Cinema di mero intrattenimento, dichiaratamente fumettistico e colmo di ironia parodica. Ma anche di purissimo divertimento: sorprendente e magico come un sogno. E anche capace (come spesso succede nel cinema popolare hongkonghese) di scavare al di sotto dei meccanismi narrativi classici per scovare una sostanza nei personaggi e nei loro mai banali percorsi redentivi. E di superare i generi avanti con i tempi, mischiandoli con una libertà incredibile: fantasy e action, ma anche momenti horror (il finale un po’ invecchiato che cita – o plagia – Terminator) e ovviamente una punta di melodramma.

Assolutamente perfette le tre protagoniste, vero motivo di gloria e di fama di questo film in tutto il mondo, tranne che in Italia. Tung è la fascinosissima Anita Mui, stupenda presenza melò di A better tomorrow 3, scomparsa esattamente un anno fa per un’aneurisma. Ching è la grande Michelle Yeoh. Su Maggie Cheung, nel ruolo scherzoso e rilassato di Chat, eroina spavalda e egocentrica, non spendo parole: ai tempi 29enne, è di una bellezza semplicemente divina.

Straordinario il lavoro di Ching Siu-Tung: qui praticamente co-regista, in quanto direttore di tutte le sequenze di combattimento, Ching è il creatore della trilogia delle Storie di fantasmi cinesi (di cui ho visto il primo, splendido), nonché maestro d’arti marziali responsabile di molte coreografie recenti (tra cui Shaolin soccer, Hero, House of the flying daggers).

Essi vivono (They live)

di John Carpenter, 1988

Essi vivono è uno dei film più sottovalutati di John Carpenter, trasmesso in tv con svagatezza ma diventato con gli anni un oggetto di culto. E meritatamente, perché è uno dei film dove il regista statunitense riesce in modo migliore (come nello splendido e anch’esso sottostimato Fantasmi da Marte) a congiugare due delle sue vene.

La prima è quella carnale e diretta da regista di serie B, con una struttura originalissima (in cui un terzo di film è mera premessa), e un ritmo rilassato e blues (bellissima colonna sonora inclusa – ovviamente dello stesso Carpenter) che nessun produttore finanzierebbe mai con generosità. Mentre è il suo punto di forza.

La seconda vena è quella più propriamente politica: la non sottilissima metafora del film sull’emergenza prepotente della classe dirigente legata alla minaccia della subliminalità della cultura dell’immagine, vista tra l’altro dall’ottica inusuale della "classe operaia" in un progetto più che socialista, non solo calzava perfettamente nel periodo in cui venne prodotto (quasi un baratro nella cultura yuppistica anni ’80), ma si presenta ancora oggi come un modo intelligente, magari grezzo e legato al "cinema puro" che tanto piace a Carpenter, per parlare di verità e menzogna nella cultura postmoderna.

They live è anche uno dei film più dickiani mai prodotti, sia per il modo in cui la paranoia e le riflessioni sul dubbio ontologico (più che simili a quelle di Dick) si uniscono a una narrazione di genere caratterizzata da un estremo realismo, sia per le citazioni letterari: il titolo viene da una scritta su un muro ("They live, you sleep") che viene direttamente da Ubik (lì era "I am alive, you’re dead").

Per la mia esperienza personale, è autenticamente cult nell’accezione più precisa e positiva del termine, l’interminabile sequenza in cui i due protagonisti, in un vicolo, si prendono semplicemente a pugni per diversi minuti. L’uno per preservare inconsciamente la sua visione della realtà, l’altro per avere un partner (sacrificale, come il vero eroismo è, alla fine) con cui lottare per la verità. Sempre strabiliante.

Internal links on mister JC: Dark Star, Christine.

[il natale, la neve, i regali, i divudì]



Santa Lucia** (nella foto) quest’anno è arrivata dritta dritta da Honk Kong, con una puntualità ineccepibile: la mattina del 13 dicembre. Stavolta la santa ha portato 6 imprescindibili o forse semplicemente strafamosi film honkonghesi, che mi mancavano imperdonabilmente, che ho già spacchettato con non poca soddisfazione e che guarderò con calma nei prossimi giorni.


Sono:
- The bride with the white hair di Ronny Yu, con Brigitte Lin e Leslie Cheung
- City on fire di Ringo Lam, con Chow Yun-Fat e Danny Lee
- The heroic trio di Johnnie To, con Maggie Cheung, Michelle Yeoh e Anita Mui
- A hero never dies di Johnnie To, con Lau Ching-wan e Leon Lai
- Once upon a time in China di Tsui Hark, con Jet Li
- Police Story di Jackie Chan, con Jackie Chan, Brigitte Lin e Maggie Cheung


[Il prezzo è stato davvero ovviamente una barzelletta. Il sito è dddhouse. Buoni acquisti, buon natale!]


**nota: è la santa che, nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, ma solo in alcune province del norditalia (tra cui Brescia e Verona), porta i doni ai bimbi buoni. Vuol dire che sono stato proprio buono!