Scala al paradiso (A matter of life and death)
di Michael Powell & Emeric Pressburger, 1946
"Dovrebbero mettere il technicolor anche lassù… siamo così palliducci!"
Quand’ero piccolo, avevo una vera passione per tutti quei film in cui si rappresentano i caratteri dell’aldilà, paradiso o inferno che sia. Nonostante ciò, questo film, che è in realtà il caposaldo insossidabile di tali visioni, mi è sempre sfuggito, prima a causa dell’infantile riluttanza verso l’anno di produzione, e successivamente per la mia distrazione televisiva.
Non esagero: Stairway to heaven (il titolo americano, mister Plant), almeno per una metà abbondante, e a prescindere da una Vhs in pessimo stato e con una quantità di buchi da far venir le lacrime (come vorrei un buon dvd restaurato!) è una delle cose più belle che vi possa capitare di vedere. Viaggio grafico e allucinatorio: l’aldilà è un bianco/nero minimale ed espressionista, l’aldiqua un techicolor barocco e passionale. Geniale.
E spassosissimo, come tutti i dialoghi con l’angelo rivoluzionario francese, ma anche terribilmente e irresistibilmente romantico: non solo i due protagonisti si innamorano delle reciproche voci a un passo dalla morte, ma è poi l’amore a trionfare e ad abbattere le barriere politiche e internazionali che vengono fuori nella visionaria e lunghissima sequenza finale del processo. Dove esce anche la Commissione politica alla base dell’opera, che però non fa sentire più di tanto il suo peso.
Lo scalone mobile con le statue dei grandi, le magiche sovrapposizioni, David Niven in formato screwball, una partita di ping-pong interrotta dal fermarsi del tempo, un paradiso accogliente e terribilmente burocratico, un’aula di tribunale che è una galassia. E le labbra rosso fuoco della dolcissima Kim Hunter.
Ragazzi, che meraviglia.
la scala al paradiso potrebbe essere u’ottima metafora per il cavaliere e il suo taglio delle tasse…
ebbene, caro cinefilo
qui da me c’è una domanda per te