Closer
di Mike Nichols, 2004
"Lying is the best thing a girl can do without taking her clothes off. But it’s more fun if you do."
L’ultimo film di Mike Nichols è la storia delle vicende, o meglio di alcuni momenti essenziali, separati da ampissime ellissi (settimane, mesi, anni), nelle vicende di quattro personaggi. Due uomini inglesi e due donne americane nella Londra odierna, travolti un po’ dal caso e un po’ dai loro stessi sentimenti.
Closer è un film sul rapporto che l’opposizione vero/falso intraprende con i sentimenti e con le relazioni amorose. E’ quindi un film sull’amore e sulla menzogna, sull’inizio e sulla fine dell’amore, quasi antropologico nell’affrontare i dettami dei violenti litigi, dei tradimenti e delle riappacificazioni. Con un finale curioso e a tono, che non fa che ristabilire, con un briciolo di cattiveria, la condizione iniziale di solitudine: la coppia non può che essere che apparenza se il tutto (il film, l’amore, il mondo) è generato dal falso.
Nonostante l’idea sia buona, o almeno interessante, il film non lo è più di tanto. Sconta infatti pesantemente la sua origine (un buon testo per il teatro di Patrick Marber), che rende inutilizzabile a scopo morale quanto è detto, in quanto la ricerca della perfezione teatrale mina seriamente la credibilità. Inoltre, i quattro personaggi, categorializzati rispetto alle loro vite professionali, sono insopportabili senza essere sgradevoli (che sarebbe stato meglio), incoerenti senza uno sguardo che vada oltre il particolare, cinici senza essere davvero credibili.
Il film è ovviamente girato in modo gradevole, soprattutto quando la linearità ellittica lascia strada all’incastro dei flashback, in cui non sappiamo il grado di verità – ancora lei – di ciò che stiamo guardando. E interpretato bene, ma non quanto si vorrebbe: lo stile si china con troppa umiltà (e poche trovate) alle esigenze attoriali, e in qualche momento persino gli attori deludono. Tranne forse Natalie Portman, la migliore dei quattro. Il doppiaggio, comunque, non aiuta (soprattutto perché qui ci sono in ballo due accenti che sono due culture).
Closer è un film da camera freddo e depressivamente misantropo, agghiacciante e a volte persino irritante, che spreca scene molto buone (come il primo incontro tra la Roberts e la Portman, con quella foto di lacrime) con un erotismo borghese che, dopo essere stato irriso (nella scena del cybersesso), torna subito a farsi strada: ma è il linguaggio, la parola, ad osare tutto, mentre il sesso vero, la carne e il fuoco della passione, è tenuto pruriginosamente fuoricampo.
Non c’è più insomma tempo per l’amore, e nemmeno per la passione: se siete d’accordo, accomodatevi.