Terra di confine (Open range)
di Kevin Costner, 2003
"I didn’t raise my boys just to see ‘em killed."
"Well you may not know this, but there’s things that gnaw at a man worse than dying."
Open range è stata una piacevole sorpresa: un western "classico" ma non revisionista, alternato tra il fango della cittadina e i colori delle immense pianure, e colorato da una malinconia nei confronti del progresso e da una disillusione (non anarchica) nei confronti della società delle communities ("uccidi degli uomini per delle vacche?") talmente fuori dal tempo che mette simpatia. E mette voglia di fare il tifo per i "nostri", che difendono l’ultimo onore possibile a costo della vita, e a costo di uccidere.
La sceneggiatura è solida e semplicissima, con i bei personaggi del saggio Duvall e di Costner, grezzo, incupito e in cerca di redenzione. La regia è fatta di lunghe attese e tempi morti che servono per ambientarsi con un mondo che non esiste più, e di cui Costner canta, ancora una volta, la morte. Anche se con uno sguardo più speranzoso rispetto ai tempi di Balla coi lupi, e rivolto infine alle gioie del "settling down".
La fotografia di James Muro, esperto steadycameraman (ma non si vede) non inventa assolutamente nulla di nuovo: eppure il film è una gioia per gli occhi, ed è bello emozionarsi ancora per l’immagine di un grande spazio aperto, di un cane che aspetta i suoi padroni di fronte a una pianta sempre uguale.
Spettacolare la sparatoria finale, proprio perché fortunatamente in controtendenza rispetto a qualsiasi tendenza modaiola.