febbraio 2005

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Terra di confine (Open range)
di Kevin Costner, 2003

"I didn’t raise my boys just to see ‘em killed."
"Well you may not know this, but there’s things that gnaw at a man worse than dying."

Open range è stata una piacevole sorpresa: un western "classico" ma non revisionista, alternato tra il fango della cittadina e i colori delle immense pianure, e colorato da una malinconia nei confronti del progresso e da una disillusione (non anarchica) nei confronti della società delle communities ("uccidi degli uomini per delle vacche?") talmente fuori dal tempo che mette simpatia. E mette voglia di fare il tifo per i "nostri", che difendono l’ultimo onore possibile a costo della vita, e a costo di uccidere.

La sceneggiatura è solida e semplicissima, con i bei personaggi del saggio Duvall e di Costner, grezzo, incupito e in cerca di redenzione. La regia è fatta di lunghe attese e tempi morti che servono per ambientarsi con un mondo che non esiste più, e di cui Costner canta, ancora una volta, la morte. Anche se con uno sguardo più speranzoso rispetto ai tempi di Balla coi lupi, e rivolto infine alle gioie del "settling down".

La fotografia di James Muro, esperto steadycameraman (ma non si vede) non inventa assolutamente nulla di nuovo: eppure il film è una gioia per gli occhi, ed è bello emozionarsi ancora per l’immagine di un grande spazio aperto, di un cane che aspetta i suoi padroni di fronte a una pianta sempre uguale.

Spettacolare la sparatoria finale, proprio perché fortunatamente in controtendenza rispetto a qualsiasi tendenza modaiola.

Bugie – Lies (Gojitmal)
di Jang Sun-Woo, 1999

Il penultimo film del regista di The resurrection è una cosa totalmente diversa: una storia d’amore e soprattutto di sesso ("tradizionale" e non) tra uno scultore quarantenne con qualche pulsione sadica e una vergine diciottenne segnata da tristi vicende personali.

L’intento è chiaro e trasparente, coerente fino alla nausea ma sostenibile: la condizione morale decadente dell’uomo coreano (per di più un artista, nel dettaglio), svincolata però dal senso comune, in quanto il rapporto sadomasochistico tra i due è visto con tenerezza e uno sguardo empatico, non come una malattia sociale, che forse è altrove. Ma ciò non impedisce di ritenere che l’interesse di Jang sia ricercare lo scandalo a tutti i costi.

Volutamente grezzo e diretto, Lies è quasi porno, sicuramente qualche passo oltre il soft-core. Sarebbe anche una buona cosa, o almeno coraggiosa visto il contesto: ma il progetto non è sostenuto da una regia quanto meno decente (qui stupidamente effettata, e con una colonna sonora da ergastolo), né da buone decorose, anche se è notevole l’abnegazione con cui i due attori si "dedicano" al progetto.

La sceneggiatura regala perle su perle come "è quando hai assaggiato la mia merda che ho capito quanto mi ami".

Davvero brutto.

[some news from Hollywood]
(miei commenti nei commenti)

5
The aviatorAttrice n.p. (Cate Blanchett), fotografia (Robert Richardson), scenografie (Dante Ferretti), costumi (Sandy Powell), montaggio (Thelma Schoonmaker)

4
Million dollar babyMiglior Film, Miglior Regia (Clint Eastwood), Attrice (Hilary Swank), Attore n.p. (Morgan Freeman)

2
RayAttore (Jamie Foxx), Missaggio del suono (Scott Millan, Greg Orloff, Bob Beemer, Steve Cantamessa)
Gli incredibili  – Miglior film d’animazione, Sound editing (Michael Silvers, Randy Thom)

1
Eternal sunshine of the spotless mindSceneggiatura or. (Charlie Kaufman)
SidewaysSceneggiatura non or. (Alexander Payne & Jim Taylor)
Neverland – Colonna sonora (Jan A.P. Kaczmarek)
I diari della motocicletta – Canzone "Al Otro Lado Del Rio"
Lemony Snicket’s A Series of Unfortunate Events – Makeup (Valli O’Reilly, Bill Corso)
Spiderman 2 – Effetti visivi (John Dykstra, Scott Stokdyk, Anthony LaMolinara, John Frazier)
Mare dentro - Miglior film straniero

As tears go by (Wong gok ka moon)
di Wong Kar-wai, 1988

Il primo film di Wong Kar-wai è un melò metropolitano ispirato (molto più che vagamente: stesse tipologie di personaggi e stesso sviluppo narrativo) a Mean Streets di Scorsese, in cui Wong si fa già notare per l’appasionato lirismo e la libertà compositiva che saranno suoi marchi di fabbrica.

Storia toccante di una fuga impossibile, di amicizia e di morte, con lampi di violentissimo noir e un tono cupo e disperato anche nei confronti dell’amore, il film è retto anche e soprattutto dalle interpretazioni dei tre protagonisti: geniale Jackie Cheung, bellissima (ovviamente) Maggie Cheung, perfetto per il ruolo il volto stoico di Andy Lau.

Ancora un po’ acerbo (e senza Christopher Doyle), ma già bello e incredibilmente intenso. Indimenticabile comunque il bacio nella cabina telefonica, il terribile pestaggio nel vicolo, e tutta la parte finale. Ma basterebbe solo quel flash, quel ricordo di un bacio e di un abbraccio, raccolto a terra morendo.

Davvero scult la versione cantonese di Take my breath away. Eppure funziona…

Ladri di barzellette
di Bruno Colella e Leonardo Giuliano, 2004

Film apparso nelle sale italiane l’anno scorso, nell’indifferenza generale. Riapparso pochi mesi fa a noleggio. E ieri sera, trasmesso da Odeon. Ripeto, Odeon. Inspiegabile.

Comunque, il film racconta le vicende di un "autore" costretto a un prodotto "alimentare" per finanziare i suoi progetti "colti". E cioè Aurelio Grimaldi (proprio lui, quello delle "Buttane", nel ruolo di se stesso con ammirevolissima autoironia) che gira il sequel delle "Barzellette" di Vanzina.

Il film è quello che è: poverissimo e squalliduccio, e formalmente inesistente. Ma sotto sotto molto intelligente. Perché da una parte è davvero un film di barzellette, raccontate da poveri cristi davanti a una scenografia spartana, e dall’altro riesce a permettersi una satira (seppure annacquata) della crisi del cinema italiano. E’ insomma il film che critica, creando un cortocircuito abbastanza divertente, dove le risate le provoca più l’incubo kafkiano di Grimaldi che non le tristissime storielle.

Se avrà la fortuna di scomparire per sempre dalla circolazione e dalla memoria (dei pochi che lo ricordano), potrebbe persino diventare un cult-movie: non dite che non vi avevo avvertito.

Neverland – Un sogno per la vita (Finding Neverland)
di Marc Forster, 2004

Da quanto avevo letto in giro, non mi aspettavo nemmeno più granché, e quindi la delusione è stata meno cocente del previsto. Ma comunque, c’è stata: Finding Neverland è un film sbagliato, che spreca un ottimo spunto (la vita dell’autore di Peter Pan), e qualche ottima idea (tutte della buona sceneggiatura di David Magee) in una messa in scena che non lascia spazio all’immaginazione e si inserisce purtroppo sui canoni della carineria strappalacrime.

Il film arriva poi fuori tempo massimo: dell’elogio della narratività come fuga dalla vita e della realtà ci ha già riempito gli occhi e il cuore l’ultimo Burton, con ben altra intensità e inventiva. Quello che al tedesco Forster sembra interessare di più sono gli scambi tra vita e teatro, le mescolanze e i controcampi tra la fantasia e la realtà; e qualcuna di queste scene (quella dell’orso e quella dei pirati) gli viene anche bene.

Ma se si escludono le buone interpretazioni di Depp e della Winslet (e di un Hoffman al minimo sindacale, di rara inutilità) quasi tutto il resto del film è di un piattume sconcertante, non tanto di per sè (perché è ben girato, ben strutturato), ma rispetto al tipo di storia che si cerca di rappresentare.

Comunque, è un film attento e delicatissimo, costruito alla perfezione per far sorridere, commuovere, emozionare, e perfetto per ogni palato. Carino, insomma. Ma per quanto mi riguarda, al di là dell’apprezzamento delle singole cose buone, non mi ha strappato mezza lacrima, e ben poche emozioni.

Link: cinebloggers rule!

11 settembre 2001 (11’09”01 – September 11)
di Registi Vari, 2002

Vista la complessità dell’opera, spremerò la mia mente con un massimo di due aggettivi per ognuno dei "corti" di questo (gran) bel film collettivo, che ragiona, in undici modi molto diversi, su quel giorno nefasto, sulle sue conseguenze, e non solo.

Samira Makhmalbaf: carino, ma trascurabile. Claude Lelouch: ovattato, intensissimo. Youssef Chahine: originale, ma imbarazzante. Danis Tanovic: sincero e convicente. Idrissa Ouedraogo: sagace e divertentissimo. Ken Loach: doveroso, ma irritante. Alejandro Gonzalez Inarritu: geniale e straziante. Amos Gitai: freddo, ma spettacolare. Mira Nair: strappalacrime, ma incompleto. Sean Penn: altissimo, un capolavoro. Shohei Imamura: sintetico e illuminante.

Million dollar baby
di Clint Eastwood, 2004

Ho visto un film sulla boxe, e ho pianto.

Quello di Eastwood è l’ultimo cinema classico possibile, ma è allo stesso genere (oltre che allo spettatore) che sono riservati i colpi più duri. Dopo aver costruito la storia dei tre personaggi con un incredibile rigore senza sbavature, Eastwood trova una svolta narrativa che distrugge la linearità, sospende il tempo e i moti del cuore. E non si può scrivere altro.

L’affezione nei confronti dei personaggi che il regista crea nella prima, lunga e bellissima parte, è straordinaria: impariamo a conoscere i personaggi di Maggie e Frankie proprio dai loro lati oscuri, e ci appassioniamo a questa storia americana di rivincita sulla vita. Americana perché inserita appunto in canoni classici, ma lo sguardo in realtà è quello dei reietti, del sommerso della società che vive ai margini, dove una Los Angeles senza palme è un bugigattolo polveroso dove gli angeli sono degli illusi che inseguono un sogno sempre lontano, sempre altrove. 

La svolta della seconda parte spezza la parabola ascendente negando il classico percorso discendente, e si precipita all’improvviso in una chiusa dove i temi sollevati (il rispetto reciproco, l’occasione per uscire dallo schifo, e che rende la vita degna di essere vissuta) trovano una sistemazione coerente e dolorosissima, che fa quasi paura nella sua lucidità, e che commuove (anche la mente) per la sua profonda dolcezza.

La Swank riconferma finalmente la sua bravura degli esordi, e Freeman riesce a non sembrare inessenziale (perché in effetti non lo è, seppure come presenza fantasmatica e narratologica). Eastwood, basta la presenza: divino. E la sua regia è persino più matura che altrove: per quanto non corrisponda perfettamente ai miei canoni estetici, ne riconosco la grandezza.

Personalmente, ho trovato Mystic river più complesso e affascinante, più lancinante e crudele. Ma poco manca, siamo decisamente "da quelle parti", e qui c’è in più un calore che riempie il cuore, per poi straziarlo. Fiumi di lacrime (e ve lo scrive uno che odia il patetismo, qui assente), e uno dei finali più belli degli ultimi anni: un film straordinario.

Link: Cinebloggers Connection.

[remainder]

Esce oggi in Italia il nuovo cartone 3D della Dreamworks Animation, Shark Tale, diretto da Bibo Bergeron, Vicky Jenson e Rob Letterman.

L’ho già visto in occasione del Future Film Festivalecco il mio post.

Tra le righe: "sicuramente divertente, decisamente ben fatto, ma siamo lontani anni luce dai capolavori della Pixar. Non è una questione grafica, che poi è quella su cui la Dreamworks si accanisce: è proprio una questione di scrittura". Per di più, io l’ho visto in inglese, e visto il "cast" italiano, non mi sento di consigliarvelo caldamente.

Fate voi. Potete anche non darmi retta, ormai si sa che sono un pixiariano.

Manhattan
di Woody Allen, 1979

Le immagini di Gordon Willis, le musiche di Gershwin, la sequenza della tempesta elettrica e del planetario.

"Why is life worth living? It’s a very good question. Um…Well, There are certain things I guess that make it worthwhile. uh…Like what… okay…um…For me, uh… ooh… I would say … what, Groucho Marx, to name one thing… uh…um… and Wilie Mays… and um … the 2nd movement of the Jupiter Symphony … and um… Louis Armstrong, recording of Potato Head Blues … um … Swedish movies, naturally … Sentimental Education by Flaubert … uh… Marlon Brando, Frank Sinatra … um … those incredible Apples and Pears by Cezanne… uh…the crabs at Sam Wo’s… uh… Tracy’s face …"

E poi una corsa per la città, e la ritrovata purezza in un mondo corrotto. Un capolavoro.

[come non detto]

Million Dollar Baby Photos

Il post lo scrivo domani.
Lasciatemi asciugare le lacrime in santa pace.

[simpatiche revisioni]

Il post, qui

Ghost in the shell, Mamoru Oshii 1995

Ghost in the shell (Kôkaku kidôtai)
di Mamoru Oshii, 1995

Dal manga di Shirow Masamune, infarcito di cartesiani e di memorie (simulate) dickiane, uno dei pilastri dell’animazione nipponica. Anche e prima di tutto per livello produttivo (e distributivo: fu il primo anime ad uscire in contemporanea sui mercati giapponesi e internazionali), e successivamente per la fama e il culto riservato degli amanti del genere.

Ghost in the shell parte come un action di fantascienza dai sottotesti sociopolitici, e si trasforma gradualmente in un trattato filosofico sull’ontologia umana. Ciò che ci rende umani, e il superamento della nostra naturaa per mano della civiltà cibernetica. Ma la filosofia Shirow e dello sceneggiatore Itô non è spicciola, ma coerente, e il film riesce a tenere in piedi le sue enormi ambizioni.

E la messa in scena di Oshii è un vero spettacolo, per di più creditrice di tantissima fantascienza successiva: gioca con gli spazi (visivi e narrativi) del reale e del virtuale con anni di anticipo sugli altri, e sa anche sfuggire dalla linearità richiesta dalla sci-fi creando una visione notturna e piovosa della città che ha pochi eguali nel genere, e non solo.

Settantacinque minuti a bocca aperta, senza respiro: stupefacente.

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the chocolate factory)
di Mel Stuart, 1971

Roald Dahl è uno degli scrittori più inluenti della letteratura per ragazzi del novecento, ed è responsabile di una marea di splendide storie, alcune delle queli al cinema hanno funzionato alla perfezione: la Matilda di De Vito, le Streghe di Roeg, la Pesca Gigante di Selick. 

Ma è La fabbrica di cioccolato il suo libro più famoso, e il film da cui è stato tratto è un delizioso, e coloratissimo oggettino pop che non sfigura tra i cult del suo decennio, e non è invecchiato quasi per niente. Merito del soggetto dello stesso Dahl, della sceneggiatura piena di invenzioni e di nonsense, di scenografie surrealiste e coloratissime, e della presenza (inquietante, a dire il vero) di Gene Wilder.

Non posso giudicare oggettivamente un film simile, su. Perché ci sono cresciuto, e ci siamo cresciuti in molti. Per alcuni è diventata una vhs impolverita dal tempo sugli scaffali di casa, per altri è ancora un vero oggetto di culto. Sono nella seconda categoria, e per di più ho dovuto recuperare con gran fatica (altrui) un divx in italiano, vista la pigra assenza di una qualsiasi edizione dvd nel nostro paese. Ed erano anni, tanti anni che non lo vedevo.

La wonkamobile, la wonkavisione ("è lassù, in milioni di pezzetti!"), il succhia-succhia-che-mai-si-consuma, la sgranocchiodeliziognagnosa, le tappezzerie leccabili, il giardino commestibile, l’oceano di cioccolato, le frizzobevande: roba che solo a sentirla nominare mi si inumidiscono gli occhi. E che dire degli Oompa-Loompa, Loompa-dee-doo?

E quindi che importa se non c’è uno straccio di regia, se il casting è parzialmente sbagliato, e se ci si chiede troppo spesso per quale motivo debba proprio essere un musical, anche se le canzoni di Bricusse & Newley sono una più bella dell’altra, tutte indimenticabili. Non ci interessa, tutta la mia generazione lo adora così com’è, e se lo trascina nel cuore.

Inevitabile parlare del prossimo remake (in realtà, riadattamento del libro) di Tim Burton, quanto inutile, allo stesso tempo, parlarne. Ma sono davvero impaziente di vedere Johnny Depp alle prese con il cappello a cilindro e il bastone di Wonka, e non solo. E sono sicuro (con un briciolo di pregiudizio ma con il senno dell’incredibile trailer), che sarà più che all’altezza, e che sarà una meraviglia.

The resurrection (Resurrection of the little match girl) (Sungnyangpali sonyeoui jaerim)
di Jang Sun-Woo, 2002

Strana la sorte di questo film coreano nel nostro paese: presentato a Bologna un anno fa, scomparso nel nulla, per poi ricomparire nei trailer televisivi, annunciato dei cinema (e recensito da FilmTv come una prima visione). E come è successo a GoJoe, passato poi direttamente al mercato homevideo. Normalmente ci sarebbe un bene: evitare il solito terribile doppiaggio italiano. Qui nemmeno quello, perché l’imperdonabile Eagle Pictures ha inserito nella copia (quella di noleggio, almeno) solo l’audio italiano. Su cui non spendo nemmeno troppe parole: la protagonista parla come una pariolina strafatta.

Per divertirsi con The ressurrection bisogna avere un po’ di pazienza: i primi tre quarti d’ora (o forse più) del film fanno gridare alla lapidazione. Scombiccherata e sconclusionata, e quindi magari sopportabile, ma idiota in modo davvero terrificante, nella prima metà di film si salva solo il personaggio di Lala ("come la Croft, ma è lesbica"), la prima scena vioenta "immaginaria" e qualche coreografia svolazzante fuori posto.

Comunque è interessante già dall’inizio subito il discorso linguistico, con la totale implementazione cinematografica del videogame, lo schermo del film che si scambia formule iconiche con quello del gioco, e gli scambi intermediali tra i due linguaggi.

Dalla metà in poi, il film diventa abbastanza godibile, e recupera punti anche perché sembra di non prendersi mai particolamente sul serio. L’ironia e lo sberleffo sempre dietro l’angolo, con citazioni spudorate a manetta (se siete stufi di schivare proiettili nell’aria densa, state subito alla larga), ma l’inseguimento delirante tra reale e virtuale dell’ultima parte è abbastanza divertente e tecnicamente molto ben fatto.

Jang azzecca anche una scena che, per quanto trasudi già-visto, è davvero memorabile: la piccola fiammiferaia che se va in giro con un mitra per la città, massacrando gente sulle note dell’Ave Maria di Schubert. Ed è intelligente il modo in cui Jang usa le musiche: sempre di contrasto, tra canzonette boy-pop (anche dal vivo, ahinoi) e una bizzarra versione disco di Besame mucho.

Due i finali, alternativi: il primo sembra l’ideale per gli insoddisfatti di un prodotto ambizioso e parzialmente irrisolto: castrante, non fa che dar loro ragione. Il secondo, che inizia durante i titoli di coda e prosegue il cammino ascendente di ritmo (ed effetti speciali) del film, è talmente assurdo, improbabile, interminabile ed esagerato da lasciare di stucco: irresistibile.

Getaway! (The getaway)
di Sam Peckinpah, 1972

Un film di poche parole, trascinato dai due protagonisti, dalla terribile carica erotica che scaturisce dai loro corpi, e dal ritmo perfetto. Con la bellissima colonna sonora di Quincy Jones a far da traino, un ritmo che alterna la stasi (sempre comunque tesissima) all’esplosione, il respiro rilassato a scene (come l’inizio, meraviglioso, o il "solito" – avercene – massacro finale) in cui il montaggio, frastagliato e estremo come spesso in Peckinpah, diventa protagonista.

Una storia di rapina e di fuga, un noir solare e on the road scritto da un giovane Walter Hill, dalla struttura lineare ma perfetta. Ma anche la storia di una riappacificazione amorosa e della fuga da un mondo in cui svanisce l’innocenza (i bambini onnipresenti, sullo sfondo, su cui i personaggi gettano sguardi malinconici) e in cui, stancamente, ci si trascina al confine con la speranza che si possa finalmente vivere, al di là della società.

Ottimistica, certo, ma senza mai prescindere dal dio della società americana. "Sai di chi mi fido io?", dice McQueen sventolando un "verdone", "In God, I Trust".

Altri post sullo zio Sam: qui e (con meno entusiasmo) qui.

[Con Di Visioni]

Da oggi, questo blog è dotato di Feed Rss, disponibili su Splinder – ed era ora – aggratis. Non li uso (e non li so usare), ma se volete sono lì a destra, sotto i vari bannerini.

E da oggi, questo blog è dotato di favicon, che ho appena scoperto essere il nome di quell’iconcina buffa che appare nella barra dell’indirizzo di Firefox. Sono cose che segnano. Che bellina.

Un grazie sentito per l’aiuto e le segnalazioni a Maxime.
E questo è il suo blog.

Una lunga domenica di passioni (

[remainder]

Il bel documentario "Passaggi di tempo – Il viaggio di Sonos ‘e memoria", diretto da Gianfranco Cabiddu con (tra gli altri) Paolo Fresu e Elena Ledda, evento di chiusura delle Giornate degli Autori allo scorso Festival di Venezia, esce oggi in alcune sale, purtroppo solo in Sardegna. Queste sale.

Vi rimando al mio breve commento, forse troppo entusiasta, ma che non smentisco. Se qualcuno legge questo blog dalla Sardegna (non credo proprio), se ama le tradizioni della sua terra, e se ama il jazz (e di prima scelta!), glielo consiglio vivamente. E mi assumo la responsabilità.

Ricomincio da capo (Groudhog day)
di Harold Ramis, 1993

Una delle commedie più belle degli anni ’90 (anche se il termine generico è riduttivo), con un plot da puro colpo di genio che sembra uscito da un film di René Clair e una storia di riappacificazione con la strampalata e naif provincia americana che ricorda l’universo di Frank Capra.

Ma non solo: è anche un gioco ad altissimi livelli sugli statuti recitativi, e Phil non è solo condannato a rivivere sempre lo stesso giorno, ma anche lo stesso script negli stessi set, ed è l’unico ad avere un’evoluzione (morale e attoriale), mentre il mondo intorno gira a vuoto intorno ad un mondo che rimanda all’ipocrisia e alle convenzioni sociali, ma anche alla fissità stessa e agli schemi spaziotemporali della commedia americana.

Bill Murray è straordinario, dai tentativi di suicidio a un’enorme fetta di torta ingoiata in un boccone, e Ricomincio da capo è uno di quei film che è un peccato siano così noti: sarebbe bello "riscoprirlo da capo", come la cosa sempre nuova e soprendente (e spassosa, e toccante) qual è, ad ogni visione.

Ramis riprovò a buttarsi un progetto simile qualche anno dopo: a mio avviso, gli riuscì miracolosamente bene, ma senza nemmeno sfiorare (Murray contro Keaton?) la millimetrica precisione ritmica di questo piccolo capolavoro.