[sacrosanto]
Uomo!
Se anche tu sei ancora scandalizzato dal trattamento riservato all’edizione italiana di Shaolin Soccer, sappi che rischiamo di ripeterci.
Per saperne di più, leggi Gokachu, Rob, Ohdaesu, Astor.
Per partecipare attivamente alla protesta, vai sul (cine)forum.
Santa sangre
di Alejandro Jodorowsky, 1989
Sotto "consiglio" di un blogger, e avendolo sotto mano grazie ad un altro blogger, ho deciso di buttarmi sul (finora) penultimo film di Jodorowsky. Le premesse non erano allettanti, vista la recente mezza delusione di El Topo. E invece Santa Sangre è, dei tre film che ho visto del regista cileno, quello che ho più gradito.
Pur non raggiungendo forse i momenti più alti della prima parte della Montagna Sacra, nel complesso Santa sangre è un film migliore: perché sa unire il gusto simbolista (e quindi composito, accumulativo, surrealista) dell’autore a un minimo di coesione narrativa. In più, non si sente la puzza di ambizione irraggiunta dietro ogni scelta, c’è più ironia e meno sarcasmo (la sequenza del pianoforte è, passatemi il termine, molto divertente) e la regia è più che buona (a volte ottima, come nel volo iniziale, o nella scena dell’omicidio della spogliarellista, o in quella impagabile dello spettacolo teatrale, o nel "bacio volante", e basta così). E molto bella anche la colonna sonora.
C’è la mano della Argento Factory, e si vede: il film, almeno nella seconda parte, è uno slasher edipico. Da qui si discosta invece la prima parte, lunghissimo flashback del racconto di un’infanzia perduta e di una maturità tracciata con il sangue, ancora sanguinolento ma più suggestivo e mistico. Molti hanno scomodato Fellini, ed in effetti c’è qualcosa vero (e il paragone rende tutto più interessante), a differenza, che so, di Big Fish. E’ in questa lunga e bella sequenza che ritroviamo lo Jodorowsky puro, così come nelle tre splendide parentesi oniriche (morire come un elefante, una pioggia di galline, gli zombie del senso di colpa).
Il finale psychico è molto bello, e, al di là dell’ottima trovata (che non racconto, e un po’ mi spiace perché ci sarebbero tonnellate di cose da dire), ha una dose di poesia e di tragicità che a quel punto non mi aspettavo.
Address unknown (Suchwiin bulmyeong)
di Kim Ki-duk, 2001
Kim Ki-duk è un cineasta che si confronta soprattutto con relazioni a due o addirittura sullo sviluppo singoli caratteri. Sorprende perciò ritrovare in Address Uknown una dimensione veramente corale: i personaggi principali sono tre, ma attorno a loro si assiepa un numero inusuale di parti, ciascuna con il suo carattere e i suoi dilemmi, magari in funzione dei processi dei protagonisti, ma mai tralasciati in una condizione bidimensionale.
Tolto questo, Address uknown è un film complesso, forse il più narrativamente interessante del grande regista coreano. E’ la storia di tre stigmatizzazioni: una di razza, una di classe, ed una di estetica. Ciascuna di queste tre, come in un romanzo ad episodi, ha il suo sviluppo e il suo punto di vista, ma convivono anche tra loro, nutrendosi delle contraddizioni del mondo (sociale, storico, politico) che gira loro intorno. Tre solitudini, tre mancanze, tre assenze: impossibili da colmare, e l’impossibilità di una redenzione, mista però ad una lieve ironia, è tale da rendere Address unknown il film più triste e struggente di Kim Ki-duk.
Alla vista non è risparmiato nulla (ma l’etica registica del fuoricampo è molto forte e coerente), e raccontare questo film (come mi è capitato oggi) è impossibile senza farlo sembrare una farsa sadica: cani macellati a bastonate, gente che muore nel fango a testa in giù con le sole gambe all’aria, accecamenti continui (inflitti ed autoinflitti), nomi di un addio tatuati col sangue sul seno. Ma tutti gli elementi contribuiscono all’immagine di una provincia allo sbando e devastata dalla guerra, con gli americani a far presenza di surreale assurdità (le esercitazioni continue che non portano da nessuna parte), e al racconto dolente dei tre sfortunati protagonisti di quella che è, in fondo, solo una strana storia d’amore e amicizia.
Persino la regia si adatta a una sorta di riflesso grezzo, senza la perfetta lucidità di alcuni lavori di Kim (soprattutto successivi) ma con una forza espressiva che è ben più adatta alla situazione. Se la sequenza che più colpisce, per necessità e circolarità narrative, è forse quella straordinaria della "vendetta" del meticcio Chang-guk, indimenticabile è la scena in cui i tre protagonisti camminano con un occhio solo: tema tutto cinematografico, quella dell’occhio solo, presentissimo in Kim e qui ribadito ossessivamente.
Insomma, pur sapendo ormai che aspettarci da Kim Ki-duk (e cioè il meglio), sa ancora sorprenderci. Bellissimo.
L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the body snatchers)
di Don Siegel, 1956
"Stiamo perdendo tutti la nostra umanità, poco a poco: che succeda di colpo da un giorno all’altro, fa poca differenza."
Urlo disperato di una consapevolezza sociale ancora attualissima. Regge incredibilmente ancora oggi anche tutto il resto: dalla tensione nervosa in crescendo, per altro a partire quasi da subito, al ritratto metaforicamente crudele della provincia americana.
La scena in cui gli abitanti clonati si riuniscono nella piazza principale è un incubo. Il finale è posticcio ed è un peccato, ma visti i tempi (e i risultati) mi turo volentieri le orecchie.
Tesissimo e inquietante, e per di più fatto con due lire. Un grandissimo film.
[amore a seconda vista]
Date le ultime revisioni, urge qualche modifica in cima al Classificone 2004.
Fatto?
Urge nuovo voto per questo film, insomma.
E che diamine!
Nota: "Jack-Jack Attack" è una delizia.
Joint security area (Gongdong gyeongbi guyeok JSA)
di Park Chan-wook, 2000
Il lungometraggio d’esordio del regista responsabile di cotante meraviglie del cinema contemporaneo è la storia di un’amicizia nata su un confine, è un film di confine. Basato sull’idea semplice e umanista ma profondamente disillusa che i legami di fiducia e di amicizia siano più forti delle convenzioni sociali e politiche, JSA è un prodotto apparentemente medio che sa sovrastarsi da solo, superando il concetto di cinema d’intrattenimento e coniugando l’idea di esso con l’quella pura di cinema civile, ma con una tale dimestichezza che non ce ne accorgiamo, e possiamo appassionarci e liberamente commuoverci.
Il Park regista è già grandissimo. Non si vede, ma c’è. Piuttosto, si intravvede, e al di sotto del rigore si cela una costruzione dello sguardo lontanissima dagli eccessi di Oldboy, ma, questo è vero, più vicina al cuore dei personaggi. E un occhio che non banalizza mai la vista, cercando punti di vista inediti ma mai gratuiti, dando sempre loro un senso nuovo: quel volo visto a testa in giù, con quello zoom inaspettato su occhi sconvolti; una lina di confine che sembra una croce, vista dall’alto; il girare continuo tra i volti seduti a un tavolo a cercare di vivere la vita al di là della tragicità della loro condizione storica e del loro ruolo (militare, ma non solo: è il mondo coreano tutto a voler essere manicheizzato).
Film tripartito fin dalle tre parole del titolo, che diventano, ribaltate, altrettanti capitoli, per essere tutto sommato un film giudiziario (ma senza aule, perché il tribunale è quanto di più lontano da ciò in cui ci si trova immersi) zoppica davvero poco. Magari qualche incertezza, che mai fortunatamente diventa lungaggine, all’inizio e verso la fine: perché la vicenda dei quattro amici (quattro mostri di bravura, immenso ancora il Song Kang-ho di Memories of murder) non può che schiacciare, per intensità ed emozione, quella ormai residuale della svizzocoreana che ritrova le sue radici.
Ma l’immagine finale è talmente geniale, soprattutto se si pensa a come (e dove, e perché) è congegnata, che fa risalire il tono di tutto il film verso vertici insperati. Cacchio. Se non fossi stato scomodo e scocciato, avrei pianto, e di brutto. Applausi.
Inutile confrontare questo film con i successivi lavori di Park: per quanto mi riguarda, non c’è confronto, ma non sono l’unico a pensarla così. In ogni caso, davvero un gran film. Ma davvero, giuro.
Nota: è imperdonabile essermi dimenticato, come feci ai tempi di Oldboy, di linkare il blogger genialoide che in onore di questo film ha dato nome, e vita, al suo blog. Happy Easter, mister Oh.
[OT]
[non basta avere un cineblog per essere un nerd]
Visto il vostro interesse nella cosa, ivi posto, come promesso a qualcuno in chat, la trascrizione della suoneria di The Mission per il vostro vostro stramaledetto Nokia (e forse non solo, chissà). Anche se non conoscete il film, componetela lo stesso, la vostra vita cambierà (i vostri amici vi disconosceranno per il nervoso).
4a2 8a2 8a2 4#g2
8#g2 8#g2 8g2 8g2 8g2 4#f2 4#f2
8#f2 4f2 8f2 8f2 4e2
8e2 8e2 8d2 8c2 8b1 4a1 4a1
8a1 4a2 8a2 8a2 4#g2
8#g2 8#g2 8g2 8g2 8g2 4#f2 4#f2
8#f2 4f2 8f2 8f2 8e2 8#d2 8e2 2a2
Tempo: 125 bpm
Buon divertimento.
Lady snowblood (Shura-yuki-hime)
di Fujita Toshiya, 1973
Impossibile parlare di un film che tanto (forse più di qualsiasi altro) ha influenzato il (pen)ultimo Tarantino, senza giocarla sul confronto. E invece mi rifiuto, perché poi sembra che Kill Bill si sminuisca riscoprendo i suoi riferimenti, e invece non è così. Anzi. Almeno, per me. Vabbè, dunque.
La figura della donna nel cinema giapponese è un tema più che interessante, è un tema da tesi di laurea. Alcuni grandi registi nipponici, Ozu e Mizoguchi su tutti, hanno concentrato la loro attenzione sulla condizione degradata della donna del sol levante e la sua impossibilità di reagire. In questo contesto, Lady snowblood è un film profondamente politico (data come sottintesa la distinzione tra un film di genere qual è questo revenge movie e i nomi impronunciabili sopra citati).
Perché Lady Snowblood reagisce, eccome. Si può dire che è pura reazione, essendo pura vendetta, mentre intorno a lei si scatenano gli elementi, che prendono nuovi colori, mentre la storia del suo paese fa i passi falsi e la gente cade sotto l’inganno della politica, così che il rosso del sangue che lascia sulla neve al suo passaggio (sangue altrui, e il suo) non può ricordarci la bandiera giapponese. Bandiera che sventola nella sala da ballo su di un valzer che non può avere nulla di sacro e che, alla morte dell’ultimo nemico, viene trascinata via dal cadavere cadente.
Al di là di questo lato, che dimostra la profondità di un film che potrebbe sembrare una semplice carneficina (perché il sangue scorre, a litri), Lady Snowblood è un film bellissimo e incredibilmente intenso, come non me l’aspettavo. Molto del merito va alla splendida Kaji Meiko, ma anche alla regia di Fujita, che alterna una mobilissima macchina a mano a momenti di grande precisione e rigore, e altri in cui sfiora un briciolo di sperimentazione (quando appaiono le tavole a fumetti, probabilmente del manga da cui il film è tratto).
Non manca qualche momento di stanca, soprattutto nella parte centrale, e la voce off è spesso fastidiosa: ma si può anche soprassedere. Splendida la canzone che apre e chiude il film, cantata dalla stessa protagonista: la conoscevamo già bene tutti quanti, Flower of Carnage, ma risentirla qui ci dà nuove vibrazioni.
The god of cookery (Sik San)
di Stephen Chow, 1996
Ancora Chow, e si rischia di ripetersi. Ma il piatto questa volta è ancora più prelibato: un gioiellino. Al terzo film il genialoide artista di Shanghai mostra già tutto il suo talento: forse è questo il vero punto di partenza del suo personalissimo (e riconoscibilissimo) stile.
Ci sono magari meno singole scene memorabili, ma l’impressione palpabile ad ogni sequenza è che ci sia una distanza immensa rispetto a From Beijing with love in quanto a raggiunta maturità tecnica, narrativa e registica (e che tempi brevi, per un comico!) e soprattutto a completezza dell’insieme. Insomma, bocciarlo (o semplicemente sottovalutarlo) come un’idiozia non è più possibile, se si ha un minimo di occhio (e di cervello).
Per dirne una, per il contesto in cui sono messe in atto le assurde vicende del "re dei cuochi": che è quello di emarginati sociali cresciuti per le strade, imbruttiti e resi mostruosi dall’accanimento e dalla povertà, e di un personaggio spocchioso e insopportabile che scopre l’umanità proprio in questo mondo. E poi, per dirne un’altra, la svolta melodrammatica, che è vanificata dalla leggerezza dall’insieme e dal finale, ma quando arriva è inaspettatamente struggente. Per dirne due.
Comunque, ciò che conquista davvero è la vena irridente e più sconsideratamente spassosa di Chow: il film è una delizia per gli occhi e fa davvero scompisciare, le caratterizzazioni sono fantastiche (la mia preferita è la giudice di gara, soprattutto quando si mette a ballare per testare la concentrazione dei concorrenti) e la trama è una trama vera, perché il dileggio continuo del cinema cantonese e la demenzialità continua non la rendono mai pretestuale, ma si mettono al suo servizio, in difesa di una vera poetica di fondo.
Bravissima Karen Mok, costretta ad un makeup orrorifico dalla smania di Chow di rendere orrende le sue attrici (ovviamente, non a caso, non tanto per) come succederà a Vicky Zhao in Shaolin Soccer. Nel finale sa rifarsi: non sarà la più figa di Hong Kong, ma che grazia.
Ghost in the shell 2: Innocence, Mamoru Oshii 2004
Innocence (Kôkaku kidôtai 2: Inosensu)
di Mamoru Oshii, 2004
Oshii continua il discorso iniziato con Ghost in the shell, riprendendo i temi e il personaggio cupo e noir del protagonista. Certamente anche Innocence non è per tutti: è un anime arduo ed estremamente adulto, infarcito inoltre di una letterarietà enciclopedica, da Confucio a Milton, che però non si ferma al citazionismo ma permette di sviluppare le tematiche, che sono sempre quelle altissime della natura dell’essere umano e dell’anima nell’era cibernetica, nell’era della riproducibilità (del corpo, dell’arte).
Nonostante questa complessità e parziale oscurità (ma è solo questione di attenzione, la sottotitolazione per una volta non aiuta), il film può esssere vissuto come un’esperienza puramente visiva. Sotto quest’ottica e a questo livello, è forse il punto d’arrivo del cinema d’animazione (non solo nipponica), sia per la meraviglia visiva che per l’integrazione di tecniche differenti.
Anche nella forma narrativa, il film non si ferma alla mescolanza tra fanta-action e trattato filosofico, ma sviluppa nuovi percorsi (forse rivoluzionari), arrivando al puro genio della lunga sequenza del castello di Kim, in cui Oshii completa un ideale tracciato postmoderno, sia a livello della narrazione (e qui non posso spiegare, va visto) che a livello tematico (il dubbio ontologico nella virtualità).
I titoli di coda presentano una versione cantata in inglese del Concierto de Aranjuez di Rodrigo (di cui è celebre la versione di Miles Davis in Sketches of Spain), ed è sempre un bel sentire. I titoli di testa, invece, tolgono letteralmente il fiato: di una bellezza inspiegabile, impossibile resistere alla tentazione di guardarli e riguardarli ancora.
Capolavoro.
Un consiglio: andate a leggere quel che ne ha scritto MurdaMoviez: lui lo adora molto più di me, ma nonostante ciò ne ha parlato in modo più completo, serio e preciso. Buona lettura. Ciao Lore’.
Space cowboys
di Clint Eastwood, 2000
Strano processo, la politica degli autori. A pochi anni dall’ufficiale riconoscimento dell’autorialità di Eastwood, i fan tirano fuori le unghie e chiedono: perché? Non comprendendo, forse, l’anima di Eastwood, inserita più che in altri casi in meccanismi mainstream.
Ciò nonostante, nessun entusiasmo: il film è solo dignitoso, niente di più. Il problema, vivaddio, non è il patetismo, miracolosamente assente, ma semmai un plot che vuole ricalcare a tutti i costi gli stilemi catastrofici dell’allarme globale e del sacrificio individuale. E non solo: anche in alcune cose della prima parte c’è una puzza di Armageddon che mi disturba. Non sarebbe stato meglio riparare quel satellite e tornare a casa?
La corsa al linciaggio di cui ho sentito parlare in giro è comunque ingiustificata, perché la prima parte del film è tutto sommato piacevole, perché ci sono quei quattro rookies che valgono da soli la pena di una visione, e perché tutto sommato dà quello che promette. Purtroppo, niente di più.
[OT]
Watchmen, albo 4
L’orologiaio.
Mai letto niente di simile.
(grazie a Gokachu per l’immagine e per l’hype)
Cure (Kyua)
di Kiyoshi Kurosawa, 1997
Uno dei pilastri rifondativi del new japanese horror (definizione instabile che racchiude in sè realtà molto diverse) è in realtà uno strano thriller psicologico, che parte da uno spunto serial-thrilling abbastanza agghiacciante per trasformarsi poi in un tracciato metaforico, forse dedito alla descrizione di un’infezione macrosociale (come in Kairo), o forse semplicemente interessato alla complessità dell’animo umano.
Non sarà un horror, ma la distinzione è davvero inutile in questo caso, perché Cure mette una gran paura. Ma lo fa con uno stile personalissimo, che già anticipa film come Charisma: piani (e campi) lunghissimi, attese (e silenzi) interminabili, e prima di tutto un incredibile lavoro sul sonoro perturbante. Tratto lynchiano, basti pensare al rumore della lavatrice, sempre in funzione in casa di Takabe, o al suono dei carrelli trascinati nei corridoi.
Il risultato è un film affascinante ed estremamente sofferente nel suo essere "in levare", con scene davvero straordinarie, alcune visionarie e improvvise (come l’incubo terrificante che attende Takabe al suo rientro a casa) ma più spesso in piani-sequenza (come l’incontro sulla spiaggia) in cui Kurosawa mette a dura prova gli attori, che ne escono a testa alta: il bravissimo Yakusho Kôji nella scena della cella regala una performance incredibile, ma il silenzioso e inquietante Masato Hagiwara non è da meno.
Bellissimo il finale tronco e interrotto, e apparentemente misterioso: basta tenere gli occhi ben aperti.
The mission (Cheong Feng)
di Johnnie To, 1999
Probabilmente il più celebre (e il più celebrato) film di Johnnie To in occidente, e l’unico ad essere arrivato in Italia. E se n’ha ben donde: bellissimo. Per quanto il doppiaggio italiano, davvero il peggiore mai sentito da queste giovani orecchie, ne infici alquanto la visione.
La trovata geniale di To è quella di prendere in considerazione la rilevanza che hanno i tempi morti: un po’ come nella rifondazione Newhollywoodiana degli anni ’60, il celato diventa protagonista. Insomma, cinque guardie del corpo, seppur in una situazione di allarme, passano un sacco di tempo semplicemente ad attendere, a farsi scherzi idioti, a giocare (per dirne una a caso) a calcio con una palletta di carta nel corridoio. Ed è in questi momenti che nasce la loro amicizia, che si salda quel rapporto incrollabile di fiducia reciproca, più che nelle sparatorie.
Sparatorie che, però, sono splendide: in particolare, quella nel centro commerciale, tutta in sottrazione, una specie di anti-balletto statico e statuario di silenzi e scalemobili. Il regista mostra una capacità estetica incredibile di porre i corpi nello spazio: e con cinque personaggi ci vuole un bell’occhio. L’eclettismo di To comunque sorprendente: la secchezza astratta di The mission è ben lontana dal melodrammatico ed eccessivo A hero never dies (che io preferisco, ma son gusti).
Noir notturno e silenzioso, diventa apparentemente disperato dopo la "svolta" dell’ultima parte: ma il finale, paradossalmente, ribalta questo pessimismo con un sorriso che riporta la tematica "maschia" dell’amicizia virile su un percorso umanista che sorprende positivamente. E, doppiaggio permettendo, commuove.
Indimenticabile la martellante musichetta che accompagna tutto il film: visto il mio talento con il composer del Nokia, non ho resistito a farne la mia suoneria: ma quanto, quanto sono nerd?
Gli spietati (Unforgiven)
di Clint Eastwood, 1992
"I’ve killed women and children. I’ve killed everything that walks or crawls at one time or another. And I’m here to kill you, Little Bill."
Straordinario "ultimo" western, in cui l’epopea della frontiera è demitizzata e asciugata, e in cui l’immagine fascinosa e letteraria dell’eroismo del west, rappresentata da un pavido scrivano che salta di palo in frasca fino a comprendere la verità sottesa al mito, è massacrata da una realtà in cui non esiste una legge e un ordine giustificabili se non quella del sangue e della vendetta.
Non sono più quello di una volta, ripete William Munny: ma è impossibile scappare dai fantasmi del passato. Per questo quella bottiglia presa quando la prostituta annuncia la morte di Ned è così struggente, e per questo i due Bill non sono che due facce dello stesso mondo allo sfacelo. I don’t deserve this… to die like this, dice Little Bill. E Munny non può che rispondere Deserve’s got nothin’ to do with it, e sparare. Non esistono i buoni e i cattivi, We all got it comin’, kid., tutti ci meritiamo di morire.
Ma nel cuore di un uomo si cela comunque una speranza: magari soffocata dalla violenza e dalla disillusione del mondo che gli sta intorno, ma l’umanità esiste ancora, ed è il mistero tragico e romantico che una donna, di cui vediamo solo la lapide ma la cui presenza è in ogni singolo fotogramma, si è portata nella tomba.
Una casa lasciata lì, nel passato, al tramonto. Lacrime. Magnifico.
From Beijing with Love (Guo chan Ling Ling Qi)
di Stephen Chow e Lee Lik-Chi, 1994
Il primo film da regista di Chow (quello di Shaolin soccer, per i sani di mente) è un gran bel film di azione e spionaggio e allo stesso tempo la sua parodia. Con la leggerezza irresistibile che è il suo marchio di fabbrica, Chow unisce infatti una vena sanamente spettacolare con la sua (strafamosa, in patria) comicità fatta di non-sense e demenzialità stralunata.
Nonostante il divertimento sia dovuto anche ad un’innegabile sapienza registica (perché c’è un progetto, e si vede) è la presenza di Chow a farla da padrona: un Candide con gli occhi a mandorla, macellaio da due soldi cresciuto con il mito di Roger Moore, che diventa inconsapevolmente eroe. E sotto l’apparente ingenuità si nasconde anche una riuscita satira (non troppo crudele, a dirla tutta) dello status quo nei rapporti tra il continente cinese e la ormai ex colonia britannica.
Anche l’impianto spettacolare non si ferma ai canoni ben noti dello storico (e ai tempi già decaduto) action hongkonghese, che riprende come modello ma spingendosi oltre, fino ad un finale fumettistico ed esagerato. Molte le idee spassose (il videotelefono nel water, la pistola che spara all’indietro e poi in avanti), e assolutamente geniale la sequenza dell’operazione, dove Chow usa una vhs porno come anestetico. Sensazionali le invenzioni inutili di Law Kar-Ying (le "dieci armi in una", la "torcia a energia solare").
Terribilmente divertente.
Molto di tutto ciò potrebbe essere ripetuto: grazie all’intervento attivo di MurdaMoviez, sentirete parlare ancora di Stephen Chow, da queste parti. Thanks.
Essere John Malkovich (Being John Malkovich)
di Spike Jonze, 1999
Dobbiamo tenercelo stretto, Charlie Kaufman: a partire da questo suo esordio come scriptwriter, le sue sceneggiature sono alcune tra le migliori degli ultimi anni. A prescindere da errori altrui (più che perdonabili nel bel film di Clooney), Kaufman è un talento incredibile, capace come nessun’altro di giocare con i meccanismi stessi della scrittura cinematografica, di mescolare un’apparente demenzialità con un respiro romantico-amaro-tragico-irridentere unico nel panorama nordamericano.
Primo dei cortocircuiti narrativi di Kaufman (tutt’altro che volti al nulla, anche se Adaptation gira troppo a vuoto), Essere John Malkovich è un doppio esordio folgorante e indimenticabile: se la sceneggiatura è paradossale e perfetta, la regia di Jonze si presta al meglio, non accontentandosi mai di una trascrizione visiva, ma reinventando di continuo, ed arrivando a punti di surrealismo impuro (i viaggi nell’inconscio dell’attore-traghetto) come non si vedevano da anni.
Una macchina dello stupore: cerebrale, ma che importa. Mentre Kaufman si è persino superato, aspettiamo altre meraviglie da Jonze. Anche solo perché questo suo debutto è stato uno dei film più interessanti, stimolanti e intelligenti della fine del millennio. Assolutamente geniale.