marzo 2005

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[melior est secunda]

Ecce post

[remainder]

E’ uscito ieri nelle sale italiane Vanity Fair – La fiera della vanità, il film di Mira Nair presentato lo scorso anno in concorso a Venezia, dove l’ho visto. Il post è qui.

Sinceramente, quella sera fui colpito dal più micidiale dei cinesonni, perdendo più volte il filo nella parte centrale. Quindi non saprei che dirvi: fate voi. Di certo non è un buon segno, ma non è detto che sia stata tutta colpa sua: a quanto leggo da quanto scrissi, l’inizio e la fine sono molto piacevoli. Se vi basta…

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (Everything you always wanted to know about sex but were afraid to ask)
di Woody Allen, 1972

Già i due titoli basterebbero a riempire il post. Quindi non mi dilungherò più di tanto. Allen minore, bislacchissimo, ma davvero uno spasso. Ecco tutto.

Unica nota: se i miei preferiti sono sempre stati gli episodi finto-Neumann (la tetta gigante) e finto-Fleischer (quello notissimo con Allen spermatozoo), la versione in lingua originale mi ha riservato una piacevolissima sorpresa. Santa ignoranza: l’episodio finto-Antonioni (o finto-Bertolucci, fate voi) della tipa che gode solo in luoghi pubblici, non è solo ambientato in Italia, ma è recitato in (un improbabile) italiano. Scompisciante.

L’ha visto di recente un amico blogger, andate a leggere le cose sagge che ha scritto lui, invece.

Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The life aquatic with Steve Zissou)
di Wes Anderson, 2004

"Tra 12 anni, avrà undici anni e mezzo"
"E’ la mia età preferita"

Wes Anderson è un signor regista: riesce a tenere in piedi un film fatto fondamentalmente di nulla: Le avventure acquatiche narra le imprese e le amarezze di un’altra "famiglia allargata" che gira intorno a un oceanografo incompetente e adorabilmente cinico.

Non c’è molto da dire, perché Life aquatic è un film fatto di personaggi, volti ed interpretazioni, di parti e frammenti, di sensazioni e situazioni. Gli spunti narrativi "veri" vengono sciaquati via da ben altro, dalla presenza degli attori (tutti bravi), dallo stile registico (folgorante e ancora in controtendenza), dalla bellissima colonna sonora (pezzi di Bowie cantati in portoghese).

Potrebbe essere un male, ma in questo caso non è nemmeno questo gran danno: perché il senso amaro della paternità perduta, del rapporto filiale e dell’impossibilità di crescere e di essere padri, esce lo stesso, ma attraverso i pezzi del suo mosaico ed evitando la retorica e la prevedibilità accademica del teorema.

Forse in The Royal Tenenbaums c’era un’originalità formale più coerente e coraggiosa, sotto alla quale si intravedeva a tratti del puro genio (che quindi faceva sperare, forse, di meglio). Ma Life Aquatic è comunque un film piacevolissimo, mai banale eppure mai spocchioso, magari un po’ fighetto, ma in cui l’occhio di Anderson (come quello di un suo omonimo) si conferma uno dei più talentuosi del cinema americano contemporaneo.

Cate Blanchett, che adoriamo, è splendida anche qui, mentre ascolta Bach leggendo la Recherche al bambino dentro di lei. Bellissime le scengrafie, con cui Anderson si diverte parecchio: la presentazione della "sezione" della nave è da applausi. Standing ovation per Bill Murray, ma è ormai un’ovvietà.

"Perché non mi hai mai cercato?"
"Perché odio i padri, e non avrei mai voluto esserlo"

Link: i voti dei cinebloggers

Nouvelle vague
di Jean-Luc Godard, 1990

"Avanti, amico, cosa fa lì?"
"Faccio pena"

Carrelli, onde marine, carrelli come onde marine, foglie foglie foglie, un giardino che va curato sempre, e almeno un piano-sequenza da far gelare il sangue – quello delle luci che si spengono nella casa, ma non è il solo. Domiziana Giordano è incantevole, ma la scena dell’affogamento è da denuncia penale. Alain Delon è, e basta.

"Il ricordo è l’unico paradiso da cui non si può essere cacciati. Il ricordo è l’unico inferno a cui siamo condannati"

Inafferrabile, impalbabile e astratto. Sornione e affascinante. Il doppio e il ribaltamento, l’uomo e la donna, l’uomo e il tempo. l’Inferno dantesco e il De rerum natura, sincresia di cinema, letteratura, musica. Acuto, complesso, ma davvero bellissimo.

"C’è qualcosa che non sa fare?"
"Non so piegare i pantaloni al buio"

Nirvana
di Gabriele Salvatores, 1997

"Cancellami, Jimi"

Lo so, lo so. Che è raffazzonato e a tratti imbarazzante. Che è cyberpunk d’accatto. Che c’è troppo fuoriposto, e troppo poco fuoricampo. E soprattutto che Lambert ha un palo dove Rubini ha il pepe, e insieme sono insopportabili. Lo so, che diamine.

Ma nonostante sappia tutto ciò, questo non mi impedisce di difendere Nirvana a spada tratta. Perché Salvatores, regista impavido che sa andare oltre i suoi ovvi e visibili limiti (che sono poi quelli dell’apparato produttivo), sa trovare gocce di sincera intimità anche in un racconto di sience-fiction, confezionando un film assolutamente unico e irripetibile, nel bene e nel male, per il nostro cinema.

E abbastanza preveggente, sia di un’idea narrativa o di un tema centrale, che sia il rimpianto nell’era digitale o la morte dell’identità informatizzata, sia per un campionario di visioni dickiane e gibsoniane che altri (Cronenberg e Rusnak, per dirne due) avrebbero magari descritto meglio, ma dopo.

La scena dell’armadio, la scoperta della finità del proprio mondo e il terrore che si prova di fronte al nulla dei propri confini, ha ancora il suo bel perché.

[almeno quello, no]

Questo blog si unisce alla corale protesta per la (tuttora in vigore ma si spera passeggera) sospensione di Fuori Orario, lo storico ed importantissimo programma di Rai3 curato da enrico ghezzi, che da molti anni coltiva i cinefili e gli appassionati della settima arte con il cinema invedibile, quello invisibile e quello indimenticabile, e che da molti anni è l’unica "isola felice" in un paese in cui istituzionalmente il cinema non è (o non è mai stato?) considerato come una possibile forma d’arte, e in cui la sola finestra sul mondo della celluloide è ormai (definitivamente?) identificata con l’ignoranza marzulliana.

Siamo molto preoccupati.

Per saperne di più, se ne parla sul (Cine)Forum.

[amore a seconda vista]

Il post, qui

[tanti auguri a me]

Il 6 marzo del 1981 nasceva a Brescia un giovane cinefilo.

[simpaticissime revisioni]



Il post, qui

Cuore sacro
di Ferzan Ozpetek, 2005

Il nuovo film di Ozpetek, rispetto a ciò che mi aspettavo, è tutt’altro, perché sposta i suoi interessi su un livello più profondo, rendendolo la sua opera più ambiziosa. Nonostante ciò, non abbandona le sue storie di riscoperta del sè-emotivo, costruendo ancora il plot su un incontro-chiave e sulle sue conseguenze.

La sceneggiatura è molto bella e curata, ed è basata su una dicotomia molto chiara ed esplicita, quella tra i "due cuori": la casa vecchia e quella nuova, la follia intransigente e il calcolo monetario, "il denaro e i ricordi". Storia di un processo religioso interiore, sorta di cammino francescano al femminile (anche iconograficamente).

Intriso di una religiosità calda e particolarmente sentita, ricco di momenti toccanti e alcune ottime trovate registiche (giustificate – come il piano sequenza dell’ospedale – o non – alcuni balletti intorno ai personaggi), il film risente però di quei momenti in cui l’autore esagera (probabilmente perché ne sente la necessità, come i già citati riferimenti iconografici), oppure di quelli in cui all’opposto, si rinchiude nel disinteresse e in un briciolo di noia.

Il finale è un coup de theatre, ma dei più attesi: non giunge come un ribaltamento inaspettato, bensì come una strada su cui dirigerci nel bivio tra follia ed esaurimento, e una vena di santità insita in Irene come in tutti noi, nel nostro cuore sacro. Come un sogno da cui farci trasportare, insomma, magari durante i titoli di coda (le solite, non c’è che dire, belle musiche di Andrea Guerra), ma forse preferivamo decidere noi che percorso prendere, e quel volto su quel quadro è molto suggestivo ma taglia in due l’emozione lasciando l’amaro in bocca.

Comunque splendido il cast, senza di cui il film forse crollerebbe prima (o più facilmente), e che riconferma le doti di direttore d’attori di Ozpetek: grandissime le due zie Lisa Gastoni ed Erika Blanc come rappresentazione vivente del tema del film, mentre la bellissima protagonista Barbora Bobulova dà un’altra grande prova d’attrice: il suo "monologo" chinata accanto all’albero mette i brividi, e nella scena della conferenza (un po’ facilona) la sua interpretazione è perfetta.

Ma è la giovanissima Camille Dugay Comencini la trovata migliore, perché buca semplicemente lo schermo, regalandoci forse il personaggio più bello, o più istintivamente bello, del cinema di Ozpetek, giocandosela con quello splendido guardo triste di Massimo Girotti nella Finestra di fronte (e non è la sola affinità). E forse ci fa arrabbiare che le cose vadano come vadano, perché sospettiamo un pizzico di malizia sadica negli intenti di Ozpetek: speriamo di sbagliarci.

[Attese]