aprile 2005

You are browsing the site archives by month.

[FEFF2005]

Ichigo.chips (Ichigo no kakera)


di Shun Nakahara e Takahashi Tsutomu, 2005

Ichigo.chips è un film sul senso di colpa, una storia di fantasmi interiori che si dipana con lentezza attraverso il racconto della crisi creativa e umana di una scrittrice di manga.

Dopo avermi annoiato per una buona metà (ma affascinato per la trovata del sogno comatoso), alla fine mi sono reso conto che Ichigo.chips mi era piaciuto. E’ irrisolto, inspiegabilmente lento, e formalmente troppo sotto la media delle produzioni d’autore nipponiche (tanto che viene da chiedersi il perché di alcune sciatterie), ma ha esercitato a posteriori su di me un’emozione che si è quasi trasformata in commozione. E mi sono accorto raccontandolo a non so chi, che la trama, (durante il film insulsa), è invece profonda, intensa e umana.

Forse è merito dei picchi ironici sparsi nel tono tragico (come il gag dei kleenex), più probabilmente del bellissimo finale (uno sguardo di rinuncia, la consapevolezza dell’inanimità del sogno), e di una canzone (sui titoli di coda) che ti si attacca addosso come la colla.

[and the winner is...]







Udine Far East Film 7, Audience Award:

Peacock, di Gu Changwei




… e ovviamente io non l’ho visto…

[FEFF2005]

Kamikaze girls (Shimotsuma monogatari)


di Tetsuya Nakashima, 2004

Il film di Nakashima è dalle parti di Cutie Honey, per il modo in cui gioca con i linguaggi del cinema e dell’anime, e con cui mescola demenzialità e tenerezza. Il film di Anno magari si spinge un po’ più in là, perché il suo è un interesse quasi esclusivamente linguistico.

Kamikaze girls invece, oltre ad essere spassosissimo e una vera gioia per gli occhi, mostra uno sguardo poetico sul mondo molto più profondo, raccontando una storia che nasce dall’emarginazione e la solitudine della provincia, e che porta le due protagoniste (una ragazzina edonista e ossessionata dal rococo e da una punk ex-quattrocchi) alla scoperta dell’amicizia.

Veramente irresistibile, anche se è impossibile pretendere per tutto il film il ritmo straordinario dei primi 20 minuti. A detta mia e di molti altri (non di tutti, come sempre), il film più divertente passato qui al Far East Film Festival, e uno dei migliori in assoluto.

[Nota]

Il festival è praticamente concluso. Attendiamo con ansia la fine dell’ultimo film (Some) per annunciare l’Audience Award. Domani le ultime battute "postume", qualche riga sul curioso Ichigo.chips e sullo splendido Love Battlefield. E un inutile riassuntino.

[FEFF2005]

The last level (Shengdian)


di Wang Jing, 2004

Un uomo si chiude in un internet cafè per diverse decine di giorni, ossessionato dal raggiungimento del 39 livello di un RPG online. Scontato dire che a un certo punto entrerà nel gioco, da esso impossessato.

Il film soffre della stessa sindrome di Suffocation: tentare di parlare criticamente della società cinese senza poterlo realmente fare non porta a niente. Quindi, se gli internet cafè sono una buona metafora di una società in cambiamento, ed è criticato il modo in cui vengono trattati dalle autorità e dalla gente comune (posti diabolici!), il film stesso li ritrae come luoghi che danneggiano il cervello: la storia parla da sola, per non parlare delle terribili scritte nei titoli di testa che attestano il realismo della storia.

Per di più, oltre alle suddette ambiguità, il film è terribilmente noioso. Non perché sia lento, intendiamoci: la lentezza è una cosa che sopporto sempre di buon grado, e mi capita spesso di amarla. Ma qui no, non succede proprio niente, non c’è un briciolo di sviluppo né di interesse. Un vero strascicamento scrotale, spiace vedere sprecata una fotografia simile.

Si salva (e allontana le letture più inquietanti del film) il finale, in cui il protagonista, completamente ammattito dal suo assurdo trip wuxia, gira per la città impugnando una katana immaginaria e ritrova nella sua mano un elemento di quel mondo immaginario, forse reale. Forse la speranza di potere, prima o poi, sognare.

[FEFF2005]

Suffocation (Zhixi)


di Zhang Bingjian, 2004

Prima di Tales of terror (che ho evitato), l’horror day di mercoledì proponeva anche Suffocation, il primo di fantasmi cinese. In Cina è infatti proibito rappresentare fenomeni soprannaturali al cinema. Zhang sfida coraggiosamente (e furbescamente) i limiti e le convenzioni del regime, e confeziona un vero horror.

Tutto molto bello, complimenti. Peccato che il film sia terribile, e non per gli spaventi. Un plot giusto per un cortometraggio e non di più (per di più ripieno di psicanalisi, ma estremamente grezza e ingenua) viene sfruttato fino allo sfinimento, mentre lo stile ricercatissimo alterna una lentezza calligrafica da "autorone cinese" a una patina da spot pubblicitario della Lancome. Si ha l’impressione che Zhang abbia girato un bel po’ di materiale e poi in fase di montaggio si sia sbizzarrito a montarlo in modo creativo.

Apprezziamo tutti il coraggio, ma se poi alla fine è tutto un trip mentale non era nemmeno così coraggioso, e comunque poco conta, vista la noia mortale.

[FEFF2005]

R-Point


di Kong Su-chang, 2004

Horror day, scena quinta. R-point è ambientato durante guerra del Vietnam: parte citando Apocalypse Now (pale di ventilatore comprese) e Full Metal Jacket (giovane donna-cecchino da "terminare" compresa) e diventa un film dell’orrore (di fantasmi, per di più).

In realtà a Kong non interessa un granché di parlare degli orrori della guerra attraverso il genere. Sì, è vero che i fantasmi si vendicano di un massacro compiuto ingiustificatamente a loro spese, è vero che l’ammonimento è "chi ha le mani sporche di sangue non tornerà vivo", è vero che ci sono gli americani che fanno la loro solita figuraccia. Quindi, un briciolo di retrogusto critico-storico esiste, se lo si vuole proprio trovare.

Oppure ci si può trovare, come ho fatto io, semplicemente un buon horror con una vena spiccatamente slasher, ottimamente confezionato, ben girato e con un sonoro devastante, che ruba spudoratamente e a volte annoia, ma con molti spaventi e davvero un signor finale.

Peppermint Candy, Lee Chang-dong 2000

[FEFF2005]

Peppermint candy (Bakha satang)

di Lee Chang-dong, 2000

Per comprendere a fondo la crisi dell’uomo coreano, Lee Chang-dong si confronta con vent’anni di storia del suo paese con una profondità impressionante, andando a scavare nell’inconscio individuale e collettivo, a partire dal folle gesto di Young-ho (immenso Sol Kyung-koo), che si suicida buttandosi sotto un treno.

E lo fa con uno stile timido eppure superbo, con la splendida fotografia di Kim Hyung-koo (quello di Memories of murder, ospite qui a Udine), e con l’idea geniale di raccontare la storia a ritroso (con qualche mese d’anticipo su Memento) riuscendo tuttavia a creare una struttura speculare e circolare al tempo stesso.

Tutto incentrato sul tema del tempo, il film è dominato dalla figura del treno (mezzo che attraversa lo spazio nel tempo): non solo il treno che viaggia all’incontrario all’inizio di ognuna delle sequenze, ma anche quello che all’interno di ciascuna di esse fa sentire il suo rumore – come un presagio di morte - o forse per ricordare che Young-oh è già morto, è solo un fantasma che attraversa il tempo rivivendo i suoi traumi. Quel treno che lo ucciderà sta passando in ogni momento e in ogni posto, e forse è quello stesso treno che, fermo alla stazione, nascondeva nell’ombra il corpo di una ragazza destinata a morire.

Peppermint candy è sì la struggente storia di un uomo, ma è soprattutto la storia di un paese e un popolo, e il racconto doloroso e violento (e profondamente politico) di ciò che gli uomini di questo paese si portano dentro nel cuore, rischiando l’annientamento: la guerra, la perdita, l’abbandono. L’impossibilità di tornare indietro se non in un sogno pieno di lacrime.

Un gioiello.

[FEFF2005]

Art of the devil (Khon len khong)


di Tanit Jitnukul, 2004

Terzo film dell’horror day, giornata dedicata a 7 film "de paura" panasiatici, più che un film dell’orrore è un orrore di film.

Storia di vendette e stregonerie, il film di Jitnukul (nomen-omen) è girato, scritto e recitato come un soft-core, ma purtroppo non c’è nemmeno il sesso. Spaventi nemmeno a parlarne, solo qualche schifezzuola come vomitare anguille, o vomitare lamette, o vomitare altre cose che non ricordo, perché sono in piena rimozione.

Una sola bella trovata visiva (la madre che accarezza i figli morti sul divano, ripresa dall’alto) e una sola bella trovata narrativa: la bambina-fantasma albina, una anti-Sadako perfetta per tempi in cui gli schermi sono saturi di capelli lunghi neri. Il resto è più o meno spazzatura, ma nemmeno così trash da essere almeno divertente.

Orribile.

[FEFF2005]

Pattaya maniac (Sai loh fah)


di Yuthlert Sippapak, 2004

Il mio primo (e solo, per ora) midnight movie di quest’edizione è una specie di plot alla Guy Ritchie trapiantato sulle coste thailandesi di Pattaya, e i cui protagonisti ragazzi debosciati che passano le loro serate a cantare nei karaoke facendosi buttare fuori per i pessimi gusti musicali.

Due di loro sono grandi amici: uno esperto di amuleti timido e sensibile, l’altro sfacciato e apparentemente idiota, ma una vera miniera di aforismi colti. Ovviamente ci si mette la (s)fortuna: un innamoramento sbagliato, una piccola truffa, un rapimento, milioni di bath che passano di mano in mano, fino al ricongiungimento finale.

Canzonette stonate, inseguimenti e spari, bellezze impressionanti e dialoghi surreali: Sippapak non ha paura di mescolare i generi, e cogliendo a destra a manca da quello che una volta qualcuno chiamava "cinema tarantinato" (e quindi un po’ fuori tempo massimo), azzecca un piccolo film stralunato e divertente, pieno di trovate e con un ritmo invidiabile.

Lungi dall’essere il miglior film del festival, né in assoluto né tra quelli che ho visto qui, è il mio piccolo cult personale.

[FEFF2005]

Yesterday once more (Fung lung dau)


di Johnnie To, 2004

Mi addolora dover dar ragione a chi mi ha avvertito prima dell’inizio del film: l’ultimo Johnnie To è una robetta da niente. Operetta giallorosa molto sixties e molto lounge, tecnicamente impeccabile ma sterile e noiosetta.

Non che non ci si diverta. Alcune sequenze sono molto piacevoli (la migliore è quella in cui i due protagonisti simulano il passaggio di amanti nei reciproci appartamenti), il tono è svagato e simpatico, e le poche sequenze d’azione sono girate come dio comanda (quella del reclutamento è magnifica).

Però non è davvero abbastanza: non basta il fascino delle due star (anche se Sammi Cheng è fantastica) e le location "esotiche" (vedi note), non servono i terribili comprimari, le citazioni da M:I sono imbarazzanti, e il finale è bruttissimo e confuso. Comunque, niente per cui sbattere la testa contro il muro: To ha anche un occhio commerciale (infatti ha sfondato il botteghino), e da lui non si può sempre pretendere Throw down. Però, uffa.

[Nota]

Sala strapiena di gente per la (pur breve) sequenza girata qui a Udine e dintorni un anno fa, sorta di tributo all’affetto che il Far East Film Festival ha sempre riservato per il grande regista hongkonghese. Come comparse, tutte le persone con cui ho lavorato per un mese qui in Friuli, a camminare per strada o sedute al bar a chiacchierare e a servire ai tavoli. Anche solo per quello, ne valeva la pena.

[FEFF2005]

Zee-oui


di Nida Sudasna e Buranee Ratchaiboon, 2004

La storia di un serial killer di bambini nella thailandia degli anni ’50 è alquanto sorprendente: nulla di nuovo o particolarmente originale, ma ben venga un film capace di sbattere in questo la violenza del mondo e della Storia senza mezzi termini e mezze misure, e di scioccare un pubblico non abituato a una tale franchezza.

Inusuale anche lo sguardo sulla psiche dell’assassino: si tende ad un’empatia che sarebbe impensabile in un film occidentale, ma mai alla giustificazione. E il fine del film è comunque quello di analizzare i modi in cui il marcio della società, soprattutto la guerra fratricida e il razzismo nei confronti del diverso (Zee-oui è un cinese in Thailandia), per arrivare alle superstizioni cannibalistiche, possa davvero crere un mostro. Punto di vista alquanto discutibile, ma espresso con vigore e con un talento visivo sopra la media.

Peccato per la parte dedicata alla giornalista fichissima: sembra uscita da un soft-core patinato di vent’anni fa, i suoi traumi di perdita non interessano a nessuno, e l’impressione di posticcio infastidisce.

Il primo finale sa comunque buttare anche un velo di dubbio sul valore della verità di cacce alle streghe e di capri espiatori, e il finale vero (che spiega l’ossessione del protagonista per il brodino di cuore umano) è una sana e vigorosa mazzata nello stomaco.

[FEFF2005]

Letter from an unknown woman (Yi ge mo sheng nu ren de lai xin)


di Xu Jinglei, 2004

Tratto dalla stessa novella di Stefan Zweig che ispirò Ophuls, Lettera da una sconosciuta è la storia di una fissazione amorosa lunga una vita, il racconto del tentativo di una donna entrare nel cuore di un uomo. Ma in punta di piedi, con la speranza vana di diventare memoria, di diventare, almeno, ricordo, rinunciando alla propria dignità e relegando la propria presenza al profumo di un mazzo di fiori in salotto.

Lo sguardo di Xu, bellissima e notissima attrice cinese convertitasi alla regia (questa è l’opera seconda) è ossessionato dai particolari, dagli sguardi, dagli arredi e dalle curve che formano i corpi nella luce. Lentissimo e contemplativo, ma non immobilista: capace invece di cambiare registro (come nella scena più bella, quella dell’opera e della mano di lui che batte il ritmo sulla gamba) quando richiesto.

Manca solo l’emozione, quasi assente e profonda solo in due scene: quella in cui il servo riconosce la protagonista, e lo splendido carrello finale sul volto di lei, bambina. Ma quello che il film possiede senza dubbio e (purtroppo, ma forse no) soprattutto, è la meraviglia visiva, grazie al lavoro del direttore della fotografia Lee Ping Ping (collaboratore di Hou, e co-responsabile di In the mood for love), e un gran lavoro d’attori.

Ad un certo punto mi sono chiesto se fosse la classica fuffa da esportazione festivaliera (è passato anche alla Viennale e ha vinto per la miglior regia a San Sebastian). Mi sono risposto di no, perché tra le righe della prevedibilità e della (vuota per alcuni, non per me) perfezione formale, si vede una vera personalità, uno sguardo autentico e dolente sul mondo femminile.

[nota]

Mi devo vergognare: ieri sera ho perso almeno due film che avrei potuto "fisicamente" vedere: il coreano Green Chair e il filippino Pa-Siyam. Purtroppo avevo delle ore di sonno da recuperare. Mea culpa.

[FEFF2005]

Beyond our ken (Gung ju fuk sau gei)


di Pang Ho-cheung, 2004

"Non esistono prìncipi, solo stronzi che si fingono prìncipi. Non esistono principesse, solo streghe che si fingono principesse."

Ieri qui a Udine non si parlava d’altro: nella colonna sonora di Beyond our ken, uno dei due film che Edmond Pang Ho-cheung presenta qui al Far East, c’è Amandoti, canzone di Gianna Nannini scritta da Giovanni Lindo Ferretti. E la notizia è che ci sta anche molto bene, in una delle scene più riuscite del film (forse non c’è l’effetto-badguy, ma l’effetto c’è). L’incontro tra Pang e la Nannini sul palco del teatro è stato un bel momento.

Tolto questo, il film è davvero delizioso, è ha conquistato il pubblico udinese. Merito di una storia semplice che racconta la nascita di un’amicizia e un’innocua vendetta nei confronti delle piccole perversioni maschili, per poi svoltare in un finale a (relativa) sorpresa con accento acidognolo.

Visivamente curatissimo, con una regia soprendente, una splendida colonna sonora, due protagoniste intensissime, una cinese e una hongkonghese, e toni da commedia che esprimono però anche una sottile malinconia di fondo, e la sensazione che (quasi un leit-motiv del festival?) non si può prescindere dai segreti e dalle bugie, che non si può essere felici se lo sono anche gli altri.

Davvero molto più che una piacevole sorpresa. Sento già puzza di Audience award.

[Note]

In mattinata, durante una pausa, ho avuto modo di vedere metà abbondante del coreano Peppermint Candy di LEE Chang-dong. Davvero molto molto molto bello, ma ahimé devo recuperarlo.

Davvero un disastro invece il nipponico Lorelei: The witch of the pacific ocean di HIGUCHI Shinji, sorta di pomposo Pearl Harbour con guizzi cyberpunk prodotto dalla Fuji Television. Non mi era quasi mai successo di abbandonare una sala dopo 20 minuti per l’irritazione. E mi è stato detto anche che ho fatto bene.

[FEFF2005]

One nite in Mongkok (Wong gok hak yau)

di Derek Yee, 2004

Non è irresistibile da subito, il film di Yee. La prima parte, concitata, rumorosa e dominata da una nervosissima camera a mano, è abbastanza deludente, troppo caotica, poco appassionante. Ma One nite in Mongkok è un film che monta piano, e quando i personaggi cominciano ad acquistare spessore, complici anche le dimensioni dello schermo, ci si comincia ad emozionare. E non poco. 

A partire da un classico plot da noir metropolitano ma molto sensibile alle sfumature, Yee costruisce un percorso che prende come spesso accade la strada del melodramma, e soprattutto della tragedia. Davvero bravo, il regista hongkonghese: aiutato da una fotografia notturna e accesa solo dal colore rosso del cappotto di Cecilia Cheung (splendida, anche più del solito), azzecca alcuni colpi di genio, come tutto il bellissimo inseguimento centrale, senza strafare con ralenti o vezzi autoriali.

Ma è tutta la parte finale, disperata e violentissima (molti gli occhi sbarrati in sala), struggente e tragica (in senso stretto), a conquistare il cuore. Talmente bella da far dimenticare qualche colpo di sonno nella prima metà, e da far uscire soddisfatti, a bocca buona.

[FEFF2005]

Everybody has secrets (Nuguna bimileun itda)

di Jang Hyeon-soo, 2004

Il remake coreano dell’irlandese About Adam (intravisto qualche mese fa, a pezzi) è una commedia degli equivoci stupidotta e volgarotta, ma comunque simpatica e divertente. L’arrivo di un ragazzo (Lee Byung-hun, superfigo coreano per eccellenza) in una famiglia tutta al femminile che gira intorno a tre sorelle, fa esplodere le repressioni di ciascuno e, per una strana (a)morale per cui tutti sono più felici se hanno dei segreti da mantenere, migliora le loro vite.

Molto intelligente la struttura per cui scopriamo poco a poco, seguendo un punto di vista differente per ciascuna delle tre parti del film (introdotta da una citazione e da un assurdo cartoon), dedicate alle tre sorelle. Kim Hyo-jin è splendida nel suo fingersi naif, ma è Choi Ji-woo la più bella delle tre (anche dietro occhiali da secchiona), mentre Choo Sang-mi, la sorella sposata, è la più brava.

Niente di che, ma a momenti davvero divertentissimo. Imperdibile la scena in cui la seconda sorella scopre il sesso attraverso film porno e libri di anatomia, per poi trovarsi di fronte a una fallica prima colazione.

Ed essendo il mio primo film all’Udine Far East Film, basterebbe la bellissima esperienza di vedere un film "popolare" coreano in una sala enorme e stracolma di gente che se la ride e se la diverte. Impagabile.

[Nota]

In tarda notte ho visto anche la prima metà (o il primo terzo) dell’hongkonghese AV, di PANG Ho-cheung. E l’ho trovato anche interessante, molto diverso da quello che mi aspettavo da un soggetto simile. Ma l’ora tarda e la stanchezza mal si conciliavano con la demenzialità del film. Comunque, da recuperare.

[a Udine, da domani]







LINKS

Far East Film Festival
Far East Blog

Running on karma (Daai chek liu)

di Johnie To e Wai Ka-fai, 2003

Non sono sicuro se, nell’instabilità saltellante tra noir ironico, commedia sentimentale e film di arti marziali misticheggiante, ci sia la malattia o il genio di questo film. Va bene, non è oggettivamente il miglior film di To tra quelli che ho visto, non è un capolavoro, è visibilmente irrequieto, alla ricerca di un’identità, imperfetto e strabordante, a volte persino assurdo.

Ma mi ha comunque soddisfatto, divertito, entusiasmato. In più, formalmente è il solito splendore, e potrebbe anche bastare. In ogni caso, la scena in cui passa per strada la vecchina con le bottiglie mentre Andy "Big" Lau spiega a Cecilia Cheung il karma (separandosi da lei) è davvero una meraviglia, è non è la sola. La Cheung, la cui deliziosa raucedine avevo addocchiato e adorato in King of comedy, è splendida.

E come per magia, in corrispondenza di questa visione (e di questo post frettoloso a causa dell’imminenza del festival), è proprio di oggi la notizia che nella spettacolare, incredibile selezione di Cannes 2005, c’è anche To.

In bocca al lupo, Johnnie. A occhi chiusi, tifiamo (anche) per te.

Millions

di Danny Boyle, 2004

Comincia anche bene, Millions. Una fuga per i campi gialli, una "casa dei sogni" che si costruisce sopra la testa. Sfoggio di tecnica ingiustificato, d’accordo, ma in un incipit si sopporta. Ecco, magari non in tutto il film: un film per famiglie girato come fosse Trainspotting. Il fragore eccessivo, abbinato a una storia (e soprattutto a un punto di vista) che avrebbe avuto bisogno di un po’ di delicatezza in più, riesce spesso ad infastidire e irritare.

Millions è una specie di reprise del bellissimo Shallow grave: una valigia piena di soldi (un’ossessione?), il potere del denaro di renderci stupidi e abbietti. Ma dove là c’era uno sguardo impietoso e sarcastico sull’oggettivazione delle relazioni umane, qui a strada percorsa è quella opposta dell’innocenza (non ferita) e dell’altruismo dei bambini. E andrebbe anche bene, se non fosse per le zuccherose manfrine.

Ci si deve accontentare (al di là dell’oggettiva bravura tecnica di Doyle, che non può bastare) dell’unica buona idea: le visioni dei santi, in cui Boyle dimostra di avere ancora coscienza, originalità narrativa oltre che estetica, senso dell’humor. Il bambino (Alexander Nathan Etel, bravissimo) che quando vede un santo recita a memoria le date di nascita e morte fa scompisciare. Santa Chiara d’Assisi che si fuma una canna non è il massimo dell’umorismo, ma io mi sono divertito.

Comunque, messi i puntini sulle "i" e già spiacenti perché 28 giorni dopo ci era piaciuto molto di più, la prima parte è anche piacevole. I problemi vengono dopo. Infatti, se la lunga sequenza che introduce il finale è già un doloroso trascinamento di testicoli, il finale è davvero quanto di più agghiacciante possiate immaginare, e ha la capacità di buttare alle ortiche quanto (non troppo) di buono fatto fino ad allora. Maledizione.

Kung fu hustle (Gong fu)

di Stephen Chow, 2004

La prima volta che vedi Kung fu hustle sei sconcertato: da un autore come Stephen Chow, che pur hai imparato a conoscere e che apprezzi tantissimo, non ti saresti aspettato un tale splendore sceno-foto-grafico, una tale perizia tecnica e coesione narrativa. Ridi come un imbecille, ma non sentendoti un imbecille. Sei sicuro che Chow è geniale, che non hai visto male. Riconosci la sua comicità e i suoi temi di sempre, ma capisci che c’è qualcosa in più: un modo finalmente completamente cinematografico. Ti innamori della scena in cui Chow e Shengyi Huang si incontrano-scontrano-abbracciano sotto il poster di Top Hat, e ti viene proprio da piangere. Ti rendi conto che è il suo capolavoro.

La seconda volta che vedi Kung fu hustle lo fai perché vuoi rivedere i primi incredibili minuti: quel piano-sequenza nell’ufficio della polizia, quella lacrima sul volto e quel corpo di donna che vola sulla strada, quel balletto assurdo. Poi ti dici: dai, lo guardo fino a quando la banda dell’ascia arriva alle case popolari. Poi ti dici: dai, lo guardo fino alla scena in cui Chow si rigenera dentro un semaforo. E così via, lo rivedi tutto, è inevitabile.

E fai bene, perché ti accorgi di alcune cose che non avevi notato. Come Chow che, durante l’inseguimento à la Tex Avery, usa il coltello infilato nella spalla come specchietto retrovisore. Capisci quanto era difficile rendere un affettuoso omaggio al gonfupian, ma anche al gangster-movie e al western (e a chissà cos’altro), senza cadere un attimo nella facile parodia, senza annoiare un minuto. Ti innamori della scena in cui Chow, moribondo, disegna a terra con il sangue la sagoma del leccalecca, e ti viene proprio da piangere. Ti rendi conto che forse non è solo il suo capolavoro, ma un capolavoro.

La terza volta che vedi Kung fu Hustle cerchi un difetto. Non lo trovi.

Kung Fusion: nei cinema italiani dal 27 Maggio 2005.

H
di Jong-hyuk Lee



Nato evidentemente sulla falsariga di Tell me something, il film d’esordio di Lee non ha il fascino perverso del film di Jang Yun-Hyeon, e oltre che debitore gli è inferiore. Ma ne condivide comunque la forza espressiva, lo splendore formale (colonna sonora inclusa) e soprattutto le soluzioni dirette e senza peli sulla lingua (come il bambino morto sul tavolo operatorio), che fanno sembrare roba da scolarette il meccanismo della rappresentazione della violenza nel thriller americano.



Dove nel film di Jang il riferimento obbligato era Seven (ripreso anche qui, soprattutto narrativamente), in questo film è Il silenzio degli innocenti: una caccia al serial-killer, la collaborazione di un omicida incarcerato, il poliziotto che subisce la fascinazione del male. Poi il film in realtà prende altre strade, e cavalca con tensione fino alla soluzione-sorpresa finale. Non è imprevedibile, anzi ovvia fin dal principio.



H è quindi un po’ risaputo (e sottilmente antiabortista, se si pensa che l’assassino uccide per reazione edipica al trauma di un aborto non riuscito), ma comunque un film di gran classe, con bravi attori (tra cui l’intensa Yum Jung-ah, "matrigna" di Two Sisters, che non a caso era anche in Tell me something) e una cura dell’immagine che lascia senza fiato. Ci possiamo accontentare.



Assolutamente magnifica la scena finale.



Non conoscevo questo film, neanche per sentito dire.

E invece, che ti scopro? Che tra i 19 (…) dvd coreani distribuiti in Italia secondo IBS, c’è anche "H".

Misteri italiani.